Paolo Alliata – vicario per la comunità pastorale Paolo VI di Milano (parrocchia santa Maria Incoronata) e rettore del Liceo Montini

Il grande libro è illeggibile

E vidi, nella mano destra di Colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?». Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sottoterra, era in grado di aprire il libro e di guardarlo. Io piangevo molto, perché non fu trovato nessuno degno di aprire il libro e di guardarlo. Uno degli anziani mi disse: «Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli». (Ap 5,1-5)

La vita, la storia – quella del mondo, quella di ognuno – è immaginata dal veggente come un libro, un rotolo avvolto, vergato di parole ma tutte inaccessibili. Il dolore desolato di chi non riesce a venirne a capo. L’esistenza è una porta chiusa alla quale si bussa inutilmente, se non interviene la presenza di Colui che ha vinto. La lettura è uno spazio di vita. Se il libro ti rimane incomprensibile, tutta la vita e il senso che ci sono lì dentro ti sfuggono. La tua stessa vita non può trovarvi il respiro di cui è affamata. In Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque il ventenne Paul, soldato tedesco affondato nell’inferno della trincea della Somme, torna a casa per la licenza di due settimane e cerca disperatamente di rientrare nella vita civile, nell’esistenza di prima, per essere rassicurato sul fatto che la guerra è, in fin dei conti, solo una parentesi, non la parola definitiva. Paul si sente prigioniero di una terribile estraneità al mondo. Un’estraneità dovuta a un imbarbarimento, che ha soffocato il respiro delle cose. Siamo diventati indifferenti, dice Paul di sé e dei suoi compagni, perché ripiegati sull’utilità immediata delle cose (abili come mercanti, con un paio di stivali che vale più dei libri di Schopenhauer) e impegnati con le mani nel sangue altrui (brutali come macellai). Eccolo lì, dunque, Paul, che cerca di riappropriarsi delle sensazioni di un tempo, in camera sua, tra i suoi libri: «[…] è la mia stanza che deve parlare, che deve accogliermi e sostenermi. Voglio sentire che il mio posto è qui; e ascoltare questa voce, perché tornando al fronte io sia consapevole che la guerra sprofonda, sparisce sotto l’ondata del ritorno; la guerra passa, non ci divora, non ha altro potere su di noi che esteriore”. Ma i suoi libri, allineati sugli scaffali, rimangono muti. La supplica di Paul perché gli parlino, lo accolgano con la carica emotiva di un tempo, scivola via senza far presa. “Un terribile senso di estraneità di colpo si desta in me. Non so trovare la strada del ritorno, sono escluso […] Davanti a tutto ciò me ne sto muto, come davanti a un tribunale, scoraggiato. Parole, parole, parole, che non mi raggiungono più. Lentamente ricolloco i libri nello scaffale. È finita. In silenzio esco dalla camera».[1]

Sentirmi estraneo alle parole vitali, alle sillabe che nutrono. La grande avventura di vivere ha precisamente a che fare con la decifrazione del contenuto del grande Rotolo, del misterioso libro. Non posso semplicemente aspettare al di qua della soglia di quel testo. Ho bisogno di varcarla, di entrare a passeggiare in quelle parole, di diventare protagonista della mia vita.

Leggere è l’occasione di un incontro

 «Spesso nella noia delle vacanze, nel caldo e nella solitudine di alcuni quartieri deserti, trovare un buon libro da leggere diventa un’oasi che ci allontana da altre scelte che non ci fanno bene. […] E forse quella lettura ci apre nuovi spazi interiori che ci aiutano ad evitare una chiusura in quelle poche idee ossessive che ci intrappolano in maniera inesorabile».[2] Apertura di nuovi spazi interiori, serre di coltura per la mia maturazione personale. Le parole che leggo hanno davvero il potere di accompagnarmi a maturazione? In che modo, in che senso?

Primo: mi occupano, tenendomi lontano da trappole dannose. “Finché la minestra è calda, le mosche non ci cadono dentro”, dicevano i padri: il cuore abitato dal Dio vivente non lascia spazio all’ingresso dei demoni. Una immaginazione vivacemente impegnata non si rammollisce in pensieri e pratiche deleteri. E poi leggere può offrire sollievo.

Iris, 14 anni: «L’anno scorso a scuola ero spesso umiliata, mi sentivo sempre fuori posto, brutta. Mi dicevano che ero sbagliata. Allora mi rifugiavo nei libri. Lì non ero sbagliata, lì nessuno mi faceva sentire fuori posto». Le ho regalato La storia infinita di Michael Ende, dove un libro è lo spazio di avventura e di crescita del piccolo protagonista, Bastiano. L’augurio è che quel racconto sia per lei una serra di maturazione personale. Perché nella lettura avviene un incontro. Io leggo, entro nel mondo che lo scrittore o scrittrice ha creato attraverso la tessitura del suo racconto, e in quello spazio narrativo io ci sono con tutto il bagaglio del mio vissuto, delle mie esperienze, domande, dubbi, consapevolezze, coraggio e paure. Trovo in quelle parole qualcosa che mi aiuta a interpretarmi, a schiudere un po’ per volta i sigilli che mi chiudono a me stesso. Viene da pensare a quella pagina autobiografica del metropolita ortodosso Anthony Bloom: «Iniziai a leggere il Vangelo secondo Marco. Mentre leggevo l’inizio di quel vangelo, prima di arrivare al terzo capitolo, mi accorsi improvvisamente che dall’altra parte della mia scrivania c’era una presenza, ed ebbi l’assoluta certezza che era Cristo… Poiché Cristo era vivo, e io ero stato alla sua presenza, potevo affermare con certezza che quanto il vangelo diceva circa la crocifissione del profeta di Galiela era vero, e il centurione aveva ragione quando aveva detto: “Costui è veramente il Figlio di Dio”». [3] Naturalmente questo avviene ogni volta che la nostra immaginazione è sollecitata: dalla lettura non solo delle Scritture, ma anche della grande letteratura. Come avviene a William Stoner, il giovane contadino americano protagonista di Stoner di John Williams: «Non aveva amici, e per la prima volta nella vita prese coscienza della solitudine. Certe notti, in soffitta, alzava gli occhi dal libro e contemplava gli angoli bui della stanza, dove la luce della lampada guizzava tra le ombre. Se la fissava a lungo e attentamente, l’oscurità si condensava in una luce che acquistava la forma impalpabile di ciò che stava leggendo. E allora si sentiva fuori dal tempo, proprio come si era sentito quel giorno in cui Archer Sloane gli aveva parlato. Il passato sorgeva dalle tenebre e i morti tornavano in vita di fronte a lui, e insieme fluivano nel presente, in mezzo ai vivi, tanto che per un istante aveva la percezione di stringersi a loro in un’unica, densa realtà, da cui non poteva e non voleva sottrarsi. Tristano e la dolce Isotta gli sfilavano sotto gli occhi; Paolo e Francesca vorticavano nel buio incandescente; Elena e il radioso Paride, amareggiati dalle conseguenze del loro gesto, spuntavano dal buio. E Stoner li sentiva più vicini dei suoi stessi compagni, che si spostavano da una classe all’altra, alloggiando presso una grande università a Columbia, nel Missouri, e che camminavano distratti nell’aria del Midwest».[4]

Tutto questo comincia a trasformare William Stoner dal di dentro, e lui se ne accorge. «Certe volte rifletteva su com’era pochi anni prima, e il ricordo di quella strana figura, bruna e inerte come la terra da cui proveniva, lo lasciava incredulo. Poi pensava ai suoi genitori, li sentiva estranei quanto il figlio che avevano generato e avvertiva per loro un misto di pietà e di amore distante».[5] L’incontro con la letteratura ha spalancato in lui gli spazi della maturazione ad un sé più ricco, e ancora da esplorare.

Le parole che mi interpretano

Arianna era una adolescente della mia parrocchia, piena di vitalità, innamorata della lettura, soprattutto della saga di Harry Potter. A 13 anni si ammala: un devastante tumore al cervello la aggredisce e nell’arco di un anno lo porta a spegnersi. Ma, in uno dei rari frangenti di sollievo, rientrata qualche giorno a scuola dall’ospedale, Arianna scrive un tema nella forma di una lettera al suo eroe. La riporto qui per intero, perché racconta di una fervida immaginazione e del potere della parola letteraria nel cuore di una ragazza che lotta per la vita, che si industria caparbia attorno ai sette sigilli del grande libro.

«Carissimo Harry Potter, sono una tua fan, ma non una tua fan qualsiasi. Io ti adoro, tu sei il mio idolo. Ci tenevo a ringraziarti: tu mi hai aiutato nei momenti difficili, mi hai fatto capire l’importanza dell’amore, l’importanza dell’amicizia. Quando sono un po’ triste accendo un tuo film o leggo un tuo libro e mi tiro su. Tu sei il mio idolo e non ti scorderò mai, perché un libro come il tuo non si può scordare. Mi resterà sempre nel cuore. Tu mi resterai sempre nel cuore, perché certe persone, pur non essendo del tutto reali, non si possono dimenticare. E non è vero che non sei del tutto reale perché, anche se ci sono persone a cui non piaci perché non ti hanno letto o perché non colgono la bellezza che c’è nel libro, se tanta, così tanta gente ti ama, vuol dire che sei reale. Almeno per noi lo sei. Per “reale” non intendo in carne e ossa. Però, se nella nostra fantasia ci sei e sei il più importante, be’, vuole dire che esisti. Non ti possiamo toccare, ma esisti, ed esisti in tutti noi. Sai, volevo dirti anche che io mi rispecchio un po’ in te, perché a me è morto il papà quando avevo due anni, ma io so che lui mi guarda sempre da lassù e mi protegge perché “essere stati amati tanto profondamente ci protegge per sempre, anche se la persona che ci ha amato non c’è più”. E poi l’anno scorso mi sono ammalata, di una malattia grave, mortale. È un po’ come se Voldemort si fosse impossessato di me. È entrato nella mia testa e non vuole più uscire, ma io lo sto combattendo, lo sto distruggendo. Infatti, non sono più in ospedale, non sono più ad Azkaban, dove mi sembrava di essere baciata dai dissennatori ogni giorno. Adesso vado a scuola, cammino e faccio tutto quello che fanno i miei amici, e questo anche grazie a te, perché ho pensato: Harry Potter ce l’ha fatta a sconfiggere Voldemort e ce la farà anche ad aiutarmi a sconfiggere la mia malattia. E quindi grazie, grazie, grazie. Solo grazie, perché tu mi hai aiutato ad andare avanti nonostante tutto. Grazie di avermi fatto capire che la mia malattia non vincerà, perché io, a differenza della mia malattia, riesco ad amare. Quindi io la sconfiggerò, proprio come tu hai fatto con Voldemort, anche perché so che tu mi aiuterai. Arianna».

Arianna trova, nell’identificazione con il maghetto, con la sua condizione di orfano e la sua avventurosa battaglia con le forze del caos, un sentiero di vita, un orizzonte di senso. Se Harry ha vinto, perché non io? La sua presenza in me mi rende forte. Con queste presenze, cui la lettura ci dà accesso, noi ci confrontiamo: ci riconosciamo per alcuni tratti, ce ne distanziamo per altri. «La letteratura ha così a che fare, in un modo o nell’altro, con ciò che ciascuno di noi desidera dalla vita, poiché entra in un rapporto intimo con la nostra esistenza concreta, con le sue tensioni essenziali, con i suoi desideri e i suoi significati».[6]

L’avventura umana

Leggere mi accompagna a diventare umano. C.S. Lewis ritorna spesso, nei suoi scritti e discorsi, sul tema. Che cosa cerchiamo nella lettura? Perché leggiamo? «Noi cerchiamo un ampliamento del nostro essere. […] Non ci accontentiamo di essere soli e chiusi su noi stessi. Chiediamo delle finestre: la letteratura è una serie di finestre, o addirittura di porte […] perché l’uomo che si accontenta di essere solo sé stesso è come in prigione».[7] La fervida immaginazione e il furbo umorismo di Alan Bennett fanno fare alla regina Elisabetta la scoperta di quanto sia potente e liberante l’esperienza della lettura di romanzi e saggi di storia. I libri sono ordigni di immaginazione, esclama a un certo punto la sovrana lettrice. Fanno esplodere le pareti della propria insensibilità, della propria reticenza a intessere relazioni, a uscire dai propri ripiegamenti narcisistici. Se ne rende tanto più conto nel momento in cui si accorge di aver cominciato a considerare i sentimenti di chi le sta di fronte, perfino della servitù: «Un giorno, all’ora del tè, stava leggendo Henry James quando sbottò: “E muoviti!”. La cameriera, che stava portando via il carrello del tè, disse: “Chiedo scusa, maestà”, e nel giro di due secondi era già schizzata fuori dalla stanza. “Ma no, non tu, Alice” le gridò dietro la regina, addirittura rincorrendola sulla porta. “Non tu!”. Una volta Sua Maestà non si sarebbe preoccupata di quello che pensava la cameriera, o di aver ferito i suoi sentimenti; adesso però le dispiaceva, e tornando a sedersi si chiese come mai. Al momento non la sfiorò l’idea che quello slancio potesse avere un nesso con i libri e perfino con quell’irritantissimo Henry James. A tempo debito però se ne accorse, e in uno dei suoi appunti successivi scrisse: “È possibile che io mi stia trasformando in un essere umano. Non sono convinta che si tratti di un cambiamento auspicabile”».[8]

Papa Francesco, nella sua Lettera, non ha mancato di rilevarlo: «Da un punto di vista pragmatico, molti scienziati sostengono che l’abitudine a leggere produca molti effetti positivi nella vita della persona […] ci prepara a comprendere e quindi ad affrontare le varie situazioni che possono presentarsi nella vita. Nella lettura ci tuffiamo nei personaggi, nelle preoccupazioni, nei drammi, nei pericoli, nelle paure delle persone che hanno superato alla fine le sfide della vita, o forse durante la lettura diamo consigli ai personaggi che in seguito serviranno a noi stessi».[9] Il filosofo Alisdair MacIntyre sostiene che gli esseri umani, questi sorprendenti storytelling animals, imparano e decidono che cosa è veramente importante, e quale dovrebbe essere la loro condotta, riferendosi più o meno consapevolmente alle storie che hanno nutrito i loro giorni: «Posso rispondere alla domanda: “Che cosa devo fare?”, solo se sono in grado di rispondere alla domanda preliminare: “Di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte?” […] è ascoltando storie di perfide matrigne, di re buoni ma mal consigliati, lupe che allattano gemelli, figli cadetti che non ricevono nessuna eredità ma devono farsi strada da soli nel mondo e figli maggiori che dilapidano la loro eredità in un’esistenza dissoluta e vanno in esilio a vivere con i maiali, che i bambini imparano, nel modo giusto o in quello sbagliato, che cos’è un figlio e che cosa un genitore, quale cast di personaggi ci può essere nel dramma in cui si sono trovati a nascere e quali sono le strade del mondo. Privando i bambini delle storie, li si trasformerebbe in balbuzienti ansiosi e senza copione, tanto nelle azioni quanto nelle parole».[10]

Ascoltare la voce di qualcuno, vedere attraverso gli occhi degli altri

La ricchezza dell’esperienza della lettura sta quindi anche nella sua capacità di aprire sentieri verso la comprensione dell’altro, o quantomeno dell’ascolto dell’altro: «Borges spiegava questa idea ai suoi studenti dicendo loro che forse all’inizio avrebbero capito poco di ciò che stavano leggendo, ma che in ogni caso essi avrebbero ascoltato “la voce di qualcuno”. Ecco una definizione di letteratura che mi piace molto: ascoltare la voce di qualcuno. […] Percorrendo questa via, che ci rende sensibili al mistero degli altri, la letteratura ci fa imparare a toccare il loro cuore».[11] A toccare il loro cuore, e a farcene toccare. Chissà che la lettura di Furore di Steinbeck, ad esempio, non possa lenire la nostra insensibilità, l’incapacità di riconoscere il dolore disperato di chi migra in cerca di una vita dignitosa. Può forse aiutarci ad ascoltare la voce delle famiglie Joad dei nostri tempi. La lettura di Un’estate di Claire Keegan può forse risvegliare in noi memorie della nostra infanzia, nostalgie e desideri, trepidazioni e motivi di gratitudine rimasti sepolti nel passato. E in questo modo renderci un poco più sensibili alle necessità affettive ed emotive dei bimbi che ci sono affidati. Ogni volta che mi reimmergo nella lettura di Le chiavi del Regno di A. Cronin, vibro del desiderio di diventare un prete migliore, più coraggioso e tenace, più umile e fiducioso nella cura del Padre dei cieli. È una lettura sempre salutare, proprio nella misura in cui mi morde il cuore con la forza della sua accusa: che cosa aspetti a cominciare a fare sul serio, come padre Chisholm? Che cosa mai ti manca? Ecco allora che il movimento di apertura all’altro, nella lettura, ritorna a prendere la forma della domanda su di sé, sul proprio modo di stare al mondo.

È la benedizione a sostenere il mondo

 L’impossibilità di leggere il Rotolo è una metafora che traduce l’esperienza di non riuscire a stare nella vita, di non trovarvi una direzione, un senso. C’è una qualche sensatezza nell’esistenza umana, o è tutta consegnata all’arbitrio del caso e all’assurdità? Una risposta della tradizione rabbinica sta nell’immaginare le lettere dell’alfabeto nel loro dialogo con il Creatore. Una per una, prima ancora della creazione del mondo, le lettere della Torah si accostano al Signore, implorando che di lei egli si serva per creare tutte le cose. Ma il Creatore ogni invito, motivando che ognuna di esse è l’iniziale di una parola fulgida di luce, ma anche di una che quella luce la spegne. Fino a quando non si presenta la Bet, la seconda dell’alfabeto: «Dopo che le argomentazioni di tutte queste lettere furono vanificate, la Bet venne al cospetto del Santo, sia egli benedetto, e così lo implorò: “O Signore del mondo, sia tua volontà creare il mondo servendoti di me, giacché tutti i suoi abitatori ti lodano ogni giorno servendosi di me, come è detto, ‘benedetto il Signore in eterno. Amen amen’ (Sal 89,53). E il Santo, sia egli benedetto, accolse subito la supplica della Bet, dicendo: “Benedetto sia colui che viene nel nome del Signore” (Sal 118,26). Fu così che Egli creò il Suo mondo servendosi della Bet, come è detto, “Bere’shit – in principio – Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1)».[12] Ogni tratto dell’esistenza ha il suo risvolto di ombra, riflette il racconto rabbinico, ma anche l’ombra è un aspetto della grande benedizione di esistere. Tutta la creazione, e in essa la vita umana, è scritta con lettere di luce e di tenebra: siamo chiamati a imparare a leggere e a reggere tutta la realtà, e tutti i tempi e i passaggi della vita, a muoverci in confidenza dentro tutta la trama della storia. E a maturare, un passo per volta, la consapevolezza che c’è un unico, fondamentale principio creatore che regge tutto il mondo: la benedizione divina. Accogliere le parole dei grandi scrittori e delle grandi scrittrici, di coloro che hanno scandagliato ed esplorato il mistero del cuore umano, può contribuire alla nostra capacità di leggere il grande rotolo della vita. Ci può offrire le parole per dare nome ad ogni cosa, sentimento, avvenimento. Questo ci accompagna a maturare in umanità, e il punto di arrivo di questo percorso di maturazione è la disposizione a benedire la vita, così com’è.

Il Nuovo Testamento la chiama incarnazione.

 

Tratto da Orientamenti Pastorali n. 9(2025), EDB. Tutti i diritti riservati.

[1]  E.M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Milano, Mondadori 2015, pp. 122-125 passim.

[2]  Francesco, Lettera sull’importanza della letteratura nella formazione, par. 2 (da questo punto in poi Lettera).

[3] A. Bloom, Scuola di preghiera, cit. in R. Williams, Il Dio di Gesù nel vangelo di Marco, Qiqajon, Magnano 2014, p. 14.

[4]  J. Williams, Stoner, Mondadori, Milano 2021, pp. 17-18.

[5] Ivi, p. 18.

[6] Francesco, Lettera, par. 6)

[7]  C.S. Lewis, Lettori e letture. Un esperimento di critica, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 162).

[8]  A. Bennett, La sovrana lettrice.

[9]  Francesco, Lettera, parr. 16-17

[10] A. MacIntyre, Dopo la virtù, 258, cit. in J.-P. Sonnet, Generare è narrare, Vita e Pensiero, Milano 2015, p. 24.

[11]  Francesco, Lettera, parr. 20-21.

[12]  L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, vol. 1, Adelphi, Milano 2019, p. 6 (orig.: 1909).