Domenico Sigalini – presidente del COP

Nelle nostre parrocchie sono passati tanti preti o parroci o curati che hanno lavorato per la comunità parrocchiale o per gli oratori. Oggi vogliamo un poco sognare la figura di un prete in una parrocchia di oggi, e per farlo, ho tentato di sfogliare dentro le nostre comunità cristiane gli album di famiglia, alla ricerca di volti che hanno incarnato – in maniera ogni volta unica e diversa – l’essere prete. Tra i vari, scelgo quello di un prete simbolo, don Primo Mazzolari. Figura complessa ed emblematica di un’epoca, don Mazzolari con le sue idee ebbe ad anticipare, a volte di decenni, alcune delle grandi svolte dottrinarie e pastorali del Concilio, in particolare relativamente alla «Chiesa dei poveri», alla libertà religiosa, al pluralismo, al «dialogo coi lontani», alla distinzione tra errore ed erranti, che gli guadagnarono la fama di prete scomodo e di frontiera. Non a caso, riferendosi alla sua vicenda, Paolo VI ebbe a dire: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti». Al di là, comunque, dell’immagine procuratagli dal suo impegno sociale e civile, don Mazzolari emerge come figura sacerdotale di grande spessore che affonda la sua scelta nella radicalità del vangelo e nell’impegno a tradurre la Parola in vita vissuta.

Don Primo Mazzolari: cenni biografici

Don Primo nasce al Boschetto, località in periferia di Cremona, il 13 gennaio 1890 da una famiglia di agricoltori. A dieci anni si trasferisce con la famiglia a Verolanuova, nella bassa bresciana. Nel 1902 entra in seminario a Cremona, completa gli studi e viene ordinato sacerdote nella chiesa parrocchiale di Verolanuova dal vescovo di Brescia Gaggia, il 25 agosto 1912. Vicario cooperatore a Spinadesco e al Boschetto, insegnante di lettere nel ginnasio del seminario di Cremona, nel corso dell’estate del 1914 è ad Arbon, in Svizzera, per assistere gli emigranti italiani rimpatriati dalla Germania. Nel 1915 l’Italia entra in guerra e ritroviamo don Primo a Genova come soldato semplice – allora i sacerdoti non erano esonerati dal servizio militare – e poi a Cremona, come caporale nell’ospedale militare. Dal 1918 al 1920 don Primo è cappellano militare: prima delle truppe italiane in Francia, successivamente degli alpini sul Piave, e, infine, nel 1920 nell’Alta Slesia, in Polonia: un’esperienza di condivisione e di sofferenza, aggravata dalla morte al fronte del fratello Giuseppe e dall’abbandono del sacerdozio dell’amico don Carletti, che segnerà profondamente don Primo. Al ritorno dalla guerra, il vescovo di Cremona Giovanni Cazzani nel 1921 lo nomina parroco di Cicognara, dove inizia la sua opposizione al fascismo, tanto che nel 1931 gli squadristi spareranno tre colpi di pistola alla sua finestra. Nel 1932 diventa parroco di Bozzolo, la parrocchia dalla quale inizierà un percorso pastorale, letterario e sociale profondamente legato agli ambienti e movimenti sociali e politici italiani. Nel 1941 don Primo partecipa a Milano al movimento clandestino neoguelfo contro il nazifascismo e, dopo l’8 settembre del 1943, collabora alla resistenza partigiana: arrestato e rilasciato tre volte, ricercato dalle SA, entra nella clandestinità, rimanendo nascosto prima a Gambara (BS) e poi a Bozzolo. Dopo la liberazione s’impegnò a evitare vendette e preparare i giovani a una nuova stagione democratica. Nel 1949 fonda il quindicinale «Adesso», di cultura sociale e politica, che gli procurerà oltre dieci richiami dall’autorità ecclesiastica e la sua chiusura temporanea nel 1951; nello stesso anno convoca a Modena un convegno sulla pace, proponendo a tutti gli italiani un patto di fraternità. Nel 1954 il S. Ufficio gli proibì di predicare fuori dalla sua diocesi e di scrivere sul settimanale «Adesso», che aveva nel frattempo ripreso la sua pubblicazione. Nel 1957 l’allora arcivescovo di Milano card. Montini lo invita a predicare nella Missione di Milano e il 5 febbraio 1959 Giovanni XXIII lo riceve in udienza: due riconoscimenti importanti per don Primo. Colpito da ictus mentre predica alla Messa domenicale, muore pochi giorni dopo a Cremona: è il 12 aprile 1959.

Elementi determinanti e di attualità

– Vocazione forte, consapevole, provata dalla vita

 Così don Primo si racconta in un testo autobiografico, pubblicato postumo su «Adesso», ma risalente al 1954: «La mia vocazione si viene svolgendo sotto il segno della croce, dall’entrata in seminario a oggi. […] Per grazia di Dio, non conservo neppure la memoria delle prove attraversate, e non ne porto neanche il peso, molto meno la lamentosità.[1] So una cosa soltanto: che il testimone che il Cristo chiama della sua verità deve avere l’anima del profeta, deve non farsi dimettere da profeta e calare in quella categoria di compiacenza in cui certe classi, specialmente le benestanti, han­no sempre la pretesa di vedere calare il proprio prete, perché allora diventa “uno dei nostri” e si dimentica di essere la “voce di Dio” che prepara le strade alla salvezza» (Missione di Ivrea, 22 ottobre 1958). Per don Mazzolari la carriera aveva perduto ogni lusinga alla vigilia del suddiaconato, quando, in una crisi decisiva, sul punto di andarsene dal seminario, lo aveva trattenuto il consiglio di un santo: «Puoi rimanere, devi anche rimanere, a una condizione: che tu rinunci alla carriera. Se, arrivato all’altare, sentirai di non avere altra meta all’infuori di rimanergli fedele, tutto va. Altrimenti, cambia pure strada, ché avresti un soffrire disumano». Scriveva poi: «… La mia carriera è finita con la Messa». Forse pochi sacerdoti hanno sentito con tanta intensità e sofferto fino all’agonia il dramma della grandezza e dell’impegno sacerdotale. La sua vocazione sacerdotale fu difesa a sangue con la sua obbedienza. È bello leggere la sua dichiarazione di obbedienza quando gli fu impedito di scrivere su «Adesso», il suo giornale. Don Primo obbedì all’ordine di cessare la pubblicazione: «La miglior difesa è l’amore. L’amore non protesta. Il cittadino che protesta fa ridere. Il cittadino che protesta è intollerabile». Obbedì perché era un uomo ecclesiale autentico: credeva nella struttura soprannaturale, nell’economia soprannaturale della Chiesa come a qualcosa di tanto superiore alla sua persona. La lettera con la quale significò al suo vescovo la propria obbedienza alla notificazione del cardinale Montini, arcivescovo di Milano, che proibiva di scrivere sul giornale, è uno di quei documenti che danno il senso di un’integrità umana saputa mantenere ad alto prezzo di intime lotte, vincendo in sé la tentazione della rottura e della separazione. Non si può rileggerla senza commozione, senza ritrovarvi una seconda lezione: «…Benché non si tratti che di libere opinioni e di libere opzioni, che non impegnano il credente, m’inchino e accetto, senza discutere e senza chiedere spiegazioni, l’obbedienza che spero, con l’aiuto di Dio e la vostra paterna indulgenza di “consumare” ilarmente e cordialmente. “Adesso”, anche nel nome, è poco più di un attimo; un attimo che si può fermare senza sgomento, almeno se uno crede che il bene è il bene e che il silenzio lo può fecondare meglio di qualsiasi parola. Può darsi (lo riconosco sinceramente e umilmente ne chiedo scusa) che la “violenza del bene” mi abbia preso a volte la mano; che certe parole siano traboccate dal cuore più che da una prudente riflessione; che non abbia tenuto conto del “conveniente e dell’opportuno”, scoprendo, più che creando, le divisioni, di cui mi si fa colpa. Voi però che siete Padre sapete che in ogni famiglia, anche la meglio assortita, non tutti i figlioli sono “saggi”, non tutti “prudenti”, non tutti “nobili”: c’è anche lo stolto, l’avventato, il plebeo, l’ingenuo, il franco tiratore… Dio sopporta tutti, ma gli uomini non sono obbligati a sopportare chi per la voglia di lanciare una testa di ponte demolisce un vecchio inutile fortilizio; chi per dar lavoro ai disoccupati e pane agli affamati, fa l’inventario delle chincaglierie che si potrebbero vendere; chi per raggiungere i lontani rischia di “dividere i familiari”; chi per salvare a ogni costo la pace, si ostina a pensarla “superevangelicamente”. “Adesso” è meno di un attimo, mentre la Chiesa è la custode dell’Eterno e io voglio rimanere nell’Eterno. Mi distacco dal foglio come il vecchio contadino si stacca dal suo campo appena seminato e dove ancora niente germoglia. Ma tutto è speranza perché tutto è fatica; tutto è fede, proprio il non vedere; tutto Grazia, anche il morire; tutto testimonianza, anche il silenzio, soprattutto il silenzio. Eccellenza, mi prende uno scrupolo e non potrei finire questa mia dichiarazione di virile e cristiana obbedienza, senza confessarvelo. Oggi finisco di fare il compilatore di “Adesso” e torno a essere unicamente il parroco di Bozzolo, la mia vera vocazione. Il parroco non scrive, ma parla, consiglia, dirige, esorta…». Era nato per obbedire, don Primo. E obbedirà anche alle tante intimazioni del Sant’Uffizio, che ordinava di ritirare molti dei suoi libri. Non è senza commozione che si rileggono le sue dichiarazioni di obbedienza: «Obbedisco all’ordine della S. Congregazione col cuore devoto e appassionato verso la Chiesa cattolica apostolica romana con cui ho scritto anche il libro… Non intendo discutere un giudizio che per me, sacerdote cattolico, dice una parola sola: obbedienza! … Per quanto riguarda me, faccio l’obbedienza … Mai mi sono rifiutato all’obbedienza, né mi pare d’aver disobbedito in qualche modo. Questa è la sola strada che conosco, e spero, con l’aiuto del Signore, di poterla camminare fino all’ultimo giorno, che non è lontano».

– È un prete e un uomo di cultura

Formazione e aggiornamento lo accompagnano per tutta la vita. Soprattutto oggi, in un’epoca tanto complessa e dinamica, il prete, ma anche il laico, deve essere preparato, «sapiente», deve avere la capacità di leggere la realtà che, accompagnata all’amore, può dare ragione della propria fede. Il prete deve essere in prima fila, stimolando i laici. Pensiamo al peso/ruolo dell’omelia domenicale… Don Bruno Bignami, già presidente della Fondazione Mazzolari di Bozzolo, ha osservato: «Negli anni di parrocchialità a Bozzolo scrive anche riflessioni sulla vita pastorale. Lettera sulla parrocchia (1937) e La parrocchia (1957) attestano l’esigenza di una Chiesa aperta e capace di dialogo. Gli scritti pastorali evidenziano sempre più la necessità di una Chiesa in stato di missione. Quando don Primo parla di parrocchia, il termine suona inevitabilmente come sinonimo di Chiesa. Questi scritti invitano a gettare ponti sul mondo. A spalancare il cuore verso ogni uomo, in particolare il povero e l’ultimo. Il servizio del prete non è solo alla Chiesa, attraverso la parrocchia, ma anche alla società in cui vive».

– È in costante dialogo con le voci, i volti, i fatti del suo tempo

 «Non giudica senza sapere, non boccia senza sperimentare, non pretende di imporre convinzioni, pur tenendo ferme le proprie: cerca sempre il dialogo. È dentro il mondo senza per questo piegarsi alle logiche del mondo» (A Diogneto; Vaticano II). Crede fermamente nella valorizzazione del laicato (formazione, corresponsabilità): ma è convinto che bisogna «formare le coscienze»: «Occorre salvare la parrocchia dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti. Per uscirne, ci vuole un laicato che veramente collabori e dei sacerdoti pronti ad accogliere cordialmente l’opera […]. Un grave pericolo è la clericalizzazione del laicato cattolico, cioè la sostituzione della mentalità propria del sacerdote a quella del laico, creando un duplicato d’assai scarso rendimento. […] In troppe parrocchie si ha paura dell’intelligenza, la quale vede con occhi propri, pensa con la propria testa e parla un suo linguaggio. I parrocchiani che dicono sempre di sì, che son sempre disposti ad applaudire, festeggiare e… mormorare non sono a lungo andare né simpatici né utili».[2]

– La sua ansia missionaria, fondata sulla frequentazione costante e interrogativa della Parola

Non trascura mai l’attenzione caritatevole per chi lo circonda, per la sua gente, per i «lontani». Ama l’umanità fatta a immagine del Padre e nutre rispetto profondo per ogni donna e uomo che si pone lungo il suo cammino. Ed ecco emergere la definizione, tutta mazzolariana, del prete come «uomo di nessuno». Il sacerdote è l’uomo che conosce e porta i dolori di tutti. Per questo non appartiene neanche a sé stesso. La sua salvezza sta nel sopportare la solitudine come unico «guadagno davanti a Dio, unica protezione davanti agli uomini».[3] «La parola è spada e tritolo, che spacca e sommuove, fa urlare e imprecare; è una grazia che bisogna domandare, a costo di finire come di solito finiscono i profeti. Questa parola che non rende, che brucia e consuma chi la porta, è la sola che il popolo può ancora capire, perché l’Evangelo è stato portato sulla terra per essere predicato al popolo».[4]

– Mostra un senso dinamico del ministero

Non si attarda mai a rimpiangere il passato, non si arrende se le panche della chiesa rimangono vuote, non si spaventa se i tempi in cui vive sembrano rimuovere Dio (povertà, fascismo, ingiustizie sociali, guerra mondiale, guerra fredda…). Don Primo osa invece percorsi nuovi per portare il vangelo ai fratelli; se le parole consuete non bastano ne cerca di nuove; se le parole non hanno efficacia, passa ai fatti, alla condivisione piena (ad esempio vive da povero tra i poveri della sua parrocchia). Non evita i dubbiosi, i lontani, chi si è perso per strada, ma li va a cercare, perché non dà nessuno per perso sulla via della fede, nessuno è troppo lontano dal Cristo risorto (perché Cristo è risorto per tutti). Il sacerdote è sempre sotto giudizio, anche quando non è chiamato in Giudizio. Il Maestro fa da prospettiva, ed è così umiliante il confronto che vien voglia di chiudere il Vangelo e velare il Crocifisso per avere un attimo di requie. «Il giudizio degli uomini non è mai benigno nei nostri riguardi: è bene che non lo sia, benché nessuno abbia sete di misericordia quanto un prete che, buono o cattivo, è sempre il “memento” di cose più grandi di lui e di un destino che volentieri, potendolo, si vorrebbe allontanare» (I preti sanno morire, 1958).

Il prete deve amare i poveri

Don Primo si dedica ai poveri, di cui condivide ansie e aspirazioni, collocandoli in una vera prospettiva cristocentrica. Lo fa componendo una memorabile via crucis in cui vediamo tutta la sua posizione e apostolato con i poveri. Vi è una costante «bipolarità» in questa singolare via crucis: la raffigurazione della centralità del valore della povertà nella vita del cristiano grazie alla prolungata meditazione, nelle varie scene della passione, sull’immagine del Cristo povero e sofferente; e insieme la forte sollecitazione all’impegno dei credenti per la realizzazione di una società giusta fondata sull’amore e sulla solidarietà. Nasce di qui la severa denunzia mazzolariana di un «cristianesimo astrale, che non fa che distinguere», come se la vita fosse un sillogismo; che non sa «dove porre le mani quand’urge l’azione». Un siffatto cristianesimo «non interessa nessuno», perché fatto di «belli e altisonanti principii, di meravigliose parole», che tuttavia non hanno alcuna incidenza sulla realtà. Occorre combattere «l’accidia eretta a sistema», che rappresenta un «peccato contro lo Spirito» e nello stesso rifuggire da una «rivolta che non ha pasqua», così come «l’odio non ha pasqua». «Se tu pensi unicamente a una palingenesi sociale – conclude Mazzolari, questa volta rivolgendosi direttamente a ciascuno dei suoi ascoltatori e dei suoi lettori – a un capovolgimento delle odierne strutture economiche e politiche, se sogni una nuova terra emergente da un lavacro di sangue, se vuoi “pesare” la pasqua e commutarla in cibo e bevanda… non riuscirai a capire la realtà spirituale della pasqua del povero». Non vi è, per il cristiano, che una strada da percorrere, quella del «povero delle beatitudini», di cui il Cristo sofferente è l’emblema. Alla fine, «se posso amare non m’importa essere l’ultimo; se posso amare non m’importa essere povero».[5] È questo, alla fine, il paradosso della vita cristiana: combattere con tutte le proprie forze la povertà per riscoprire il senso autentico della beatitudine della povertà. Quale significato può avere incontrarsi con le pagine de La Via crucis del povero a settant’anni di distanza dalla sua pubblicazione? Molte sono in realtà le suggestioni che la lettura di questo libro suggerisce; ma qui vorremmo sottolinearne soprattutto due. La prima notazione riguarda il ricorrente appello di Mazzolari a vedere la povertà. È un compito non facile nelle opulente società occidentali, per la maggior parte delle persone, date le separatezze che caratterizzano molte nostre città e in conseguenza del «filtro» effettuato sulla realtà da mezzi di comunicazione di massa che possono dare l’illusione di conoscere la realtà delle cose, ma raramente riescono a mostrare il vero volto della povertà, e soprattutto dei poveri reali. Imparare ad aprire gli occhi, a guardare in faccia la povertà, tutte le povertà (spirituali e materiali) è l’appello che ancora oggi Mazzolari rivolge ai credenti. Non mancano, fra essi, coloro che hanno assunto consapevolezza del problema,[6] ma assai più numerosi sembrano essere coloro i quali rifiutano di confrontarsi direttamente e personalmente con la realtà, preferendo ignorarla o rimettendosi per la soluzione del problema allo Stato sociale o alle istituzioni benefiche e assistenziali, rifiutando un diretto e personale coinvolgimento. Non si hanno occhi sufficientemente attenti ai poveri e ai loro problemi perché non ci si confronta con la realtà delle cose. Una seconda notazione riguarda il rapporto fra Chiesa e povertà, non solo nella forma della riflessione sull’attitudine della Chiesa-istituzione a conformarsi pienamente al Cristo povero, ma come riflessione generale sugli stili di vita dei cristiani e sulla loro capacità di porsi a servizio dell’evangelizzazione dei poveri (nel presupposto che soltanto i poveri possano, a loro volta, evangelizzare i poveri). Rispetto a talune fasi oscure della sua lunga storia, la Chiesa post-conciliare ha compiuto importanti passi avanti nel necessario, anche se doloroso, processo di spogliazione; ma lunga è ancora la strada da percorrere per dare al mondo l’immagine di una «Chiesa dei poveri», tale perché essa, prima di tutto, capace di effettuare una rigorosa scelta di povertà. Sotto questo profilo, le grandi speranze conciliari[7] si sono soltanto in parte realizzate. Non devono essere soltanto ragioni in senso lato «apologetiche» (farsi poveri per essere evangelizzatori autentici e credibili) che sollecitano tuttavia una rilettura in profondità del rapporto fra Chiesa e povertà. La ragione fondamentale di questa necessaria verifica sta – come insistentemente ripete Mazzolari nella sua prolungata meditazione sulla passione nell’imperioso dovere della Chiesa di costruire sé stessa a immagine di Cristo sofferente, fuori di ogni tentazione di trionfalismo o anche soltanto di «visibilità». «Gesù non è soltanto il Gesù dei poveri – ci ricorda Mazzolari – è il povero, il più povero degli uomini» e proprio per questo sa parlare «dal di dentro della povertà».[8] Anche la Chiesa può credibilmente annunziare il vangelo soltanto collocandosi dentro questa radicale povertà. «È mortificante la carità – scrive Mazzolari – che suggerisce a un giovane: basta che gli diate da mangiare per questa sera. Vi dico che basta ancor meno. Ma se voi ponete un limite di questo genere o di altro genere alla carità, se la riducete a una assistenza materiale, se impedite al mio occhio di vedere “cieli nuovi” e “terra nuova”, se mi togliete d’arrischiare qualcosa di mio per questa novità che mi splende nel cuore, non so che farmene della vostra carità. Io voglio una carità che m’impegni mente, cuore, sogno: che m’invada colla sua pietà, la quale grida da ogni parte del mondo col grido del Crocifisso: “Perché mi hai abbandonato?”. È mortificante ogni carità che vuole togliermi il dovere della rivolta verso un mondo che moltiplica l’infelicità. Molti possono mangiare, bere, ruminare e divertirsi in pace, perché non sono straziati dalle voci del dolore. C’è ancora troppa gente che s’illude che basterà una legge per regolare i guai di quaggiù, senza impegnarsi a fondo, senza impegnare la nostra coscienza contro il nostro egoismo».[9]

L’obiezione di coscienza alle armi

In parrocchia, Mazzolari rilegge, alla luce della Prima e della Seconda guerra mondiale, il suo primo interventismo e patriottismo, per sposare con audacia e tenacia la scelta dell’obiezione di coscienza alle armi, che prende la sua forma più piena e completa prima in una serie di articoli su Adesso, in risposta ad alcuni quesiti sulla guerra e sul servizio militare posti da alcuni giovani della FUCI, e poi nel volume Tu non uccidere. Il volume, già pronto nel 1952, fu pubblicato da La Locusta nel 1955, dopo che vari editori avevano rifiutato la pubblicazione. Nella nota alla seconda edizione, l’editore scriveva del successo avuto dal volume di Mazzolari e commentava: «Il comandamento “tu non uccidere” è così semplice che, lasciato nella sua divina semplicità, sgomenta assai più di qualsiasi paurosa prospettiva atomica. È la vera atomica che Dio ha posto nelle mani dei cristiani, i quali, se avessero fede quanto un granello di senapa, avrebbero già costruito la città della pace».[10] Nel volume Mazzolari ricorda che, «come cristiani, dovremmo essere davanti nello sforzo comune verso la pace. Davanti per vocazione, non per paura»:[11] opponendoci a militari, politici e banchieri che sono i signori della guerra. «Alcuni diranno – scrive ancora Mazzolari – che la nostra tesi sarà sfruttata dai comunisti. Noi crediamo che non sia una ragione valida tacere una cosa che si sente di dover dire perché può servire la tesi avversaria…Ognuno vede con l’occhio che ha, per cui tutto è “pervertibile”, come tutto è “convertibile”».[12]

La passione per i lontani

Il compito educativo si spinge nella direzione di sostenere gli «uomini di buona volontà» a vivere con onestà e nella ricerca del bene comune le proprie responsabilità nel sociale, e per i credenti a verificare di continuo il proprio impegno cristiano nel mondo. È la passione per i lontani.[13] Nelle affascinanti pagine de La più bella avventura, Mazzolari rilegge la parabola del Figliol prodigo come una sorta di affresco sul difficile rapporto fra Chiesa e modernità; in cui il fratello maggiore – obbediente ma arido e privo di fantasia – rappresenta l’antica cristianità, formalmente fedele al messaggio, ma incapace di rinnovarlo e di attualizzarlo. Nasce da qui – nella rilettura mazzolariana della parabola – la spinta dell’uomo moderno ad allontanarsi dalla Chiesa, da una casa paterna diventata stretta e asfittica. I cristiani – egli nota causticamente – sono diventati «dei pensionati, degli uomini d’ordine, cioè della gente che può assistere alla caduta del mondo senza scomporsi, purché non ci si disturbi». Paghi delle proprie sicurezze, vere o presunte, questi cristiani si guardano bene dall’uscire dai propri recinti e hanno dunque cessato di «cercare i fratelli sulle strade del mondo». Nella Lettera sulla parrocchia egli individua tre cause dell’allontanamento dell’uomo moderno dalla Chiesa.

  • La prima causa – già indicata ne La più bella avventura – è la chiusura della comunità cristiana in sé stessa.
  • Una seconda ragione di questa crescente distanza è costituita, secondo lui, dall’attivismo separatista che ha portato la comunità cristiana a creare banche, cooperative, circoli… con un eccesso di fiducia nell’organizzazione. Si ripongono infatti troppe speranze in un «aggiornamento» fondato essenzialmente «sulle statistiche, sulle adunate di massa, sui giornali»; occorre invece, secondo Mazzolari, ritornare all’essenziale del messaggio cristiano, dato che «l’organizzazione non sostituisce la vita», e invece «la parrocchia deve essere innanzitutto una casa di vivi».
  • Una terza causa della separazione fra uomo moderno e Chiesa è rappresentata da un certo temporalismo ecclesiastico insufficientemente rispettoso della sana e legittima laicità. Nella società del suo tempo, Mazzolari intravede il rischio di un «inquinamento del temporale su lo spirituale», sino alla «subordinazione dello spirituale e del religioso» a fini temporali; ma a questa minaccia la Chiesa non può rispondere indulgendo a tentazioni neo-temporalistiche, sino a cercare di svolgere un ruolo di direzione e di guida della società civile. Va, a questo proposito, sottolineato il coraggio con il quale Mazzolari affronta questo tema – in una stagione in cui non mancavano nella Chiesa post-concordataria nostalgie dell’antico «Stato cattolico». La sintesi va trovata e cercata nel rispetto della «naturale e legittima laicità, che la Chiesa, ben lungi dal condannare, difende», anche contro la ricorrente tentazione di nuovi clericalismi.

È la passione per i lontani che diventa invocazione e preghiera:

«Che lo schianto di non poter fare abbastanza per la salvezza

del tuo popolo dia loro lo slancio di far molto.

Signore, tu che sai dare conforto pari alla nostra pena e commisuri

la luce e il soccorso al nostro bisogno, abbi pietà dei tuoi

sacerdoti oppressi sotto il peso delle proprie insufficienze.

Che l’inguaribile tormento del confronto tra la messe e l’opera,

tra l’ideale e la fatica, non li avvilisca, ma li sproni a divenire sempre

meno indegni della loro divina vocazione. Così sia».

 

Tratto da Orientamenti Pastorali n. 9(2025), EDB. Tutti i diritti riservati.

 

[1]     P. Mazzolari, «La mia vocazione: tribolare», in Adesso 12(1960)7, p. 3.

[2]     Id, Lettera sulla parrocchia, p. 60.

[3]     Id, La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno, EDB, Bologna 31991, p. 321.

[4]     Citato in: M. Pancera, Primo Mazzolari e Adesso (1949-1951). Un prete e un giornale che cambiarono l’Italia, Edizioni Messaggero S. Antonio, Padova 2005, p.110.

[5]     Questo insieme di citazioni è tratto dalla conclusione dell’opera cui Mazzolari dà il titolo di Statio novissima et jucunda, e cioè di Ultima e gioiosa stazione, preludio alla Pasqua. Le citazioni presenti nel testo sono tratte dalle pp. 166-67, 170-71 e 173.

[6]     Cf. ad es. Aa.Vv., Rassegnarsi alla povertà? Rapporto Caritas 2007 su «Povertà ed esclusione sociale in Italia», Il Mulino, Bologna 2007. Cf. altresì E. Gorrieri, Povertà, diseguaglianza e politiche redistributive nell’Italia di oggi, ibid., 2002.

[7]     Si vedano, al riguardo, le forti sollecitazioni in direzione della povertà della Chiesa espresse nei «diari conciliari» di Helder Càmara (cf. H. Camara, Roma, due del mattino. Lettere dal concilio Vaticano II, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2008).

[8]     La Via crucis del povero, op. cit., p. 33.

[9]     Ivi, p. 248.

[10]   P. Mazzolari, Tu non uccidere, La Locusta, Vicenza, 1957, p. 7.

[11]   Ivi, p. 13.

[12]   Ivi, p. 14.

[13]   Particolarmente significativa ci sembra questa pagina di Mazzolari: «Lontano non è soltanto colui che, andandosene, ha sbatacchiato l’uscio di casa, e non s’è neppure voltato indietro, rotto i ponti e negato recisamente…. Di costoro ce n’erano di più qualche anno fa, anche nei paesi. […] La “lontananza” era a quei tempi una regione ben definita, “un paese”. Adesso, quasi non esiste più nello spazio; è l’assenza di Qualcuno, uno stato d’animo. […] Oggi la crisi religiosa ha perduto le sue forme classiche. Una volta, il travaglio interiore, pro o contro, si risolveva in un tempo relativamente breve. Di rado si faceva cronico. Adesso, è il permanere di uno stato di incertezza e d’indifferenza, la qual è come un senso di qualche cosa di superato. Vano quindi il corrucciarsi, sia per ritrovare come per combattere. L’irreligiosità contemporanea è di tipo affatto diverso da quella che caratterizza la fine dell’Ottocento e il primo decennio del nostro secolo. Quella era una negazione decisa, ragionata, battagliera. Scegliere era un dovere comandato dall’intelligenza e dalla coscienza. Il dilemma oggi non esiste. C’è invece la scettica inconsistenza di chi sente di non avere più la fede di ieri, che sa di non aver ancora trovato, che dubita di trovare. Donde un certo rispetto per un passato che ha una scia di bontà, d’arte, di poesia. I “senza Dio” sono i continuatori di ieri» (P. Mazzolari, I lontani, op. cit., p. 34).