Carlo Mazza – vescovo emerito di Fidenza, già direttore Ufficio nazionale CEI per la pastorale del tempo libero turismo e sport
Di fronte allo sport contemporaneo si è tentati dal disincanto, come attraversati da un’insopprimibile impressione di ambiguità. Avviene che se da una parte non si può non essere afferrati dalla bellezza fascinosa del gesto sportivo e dalla potenza irresistibile dell’azione agonistica come catturati da una malia seducente, dall’altra non si può fare a meno di essere occupati da un sospetto inconfessato e cioè che sia la gara sportiva un’infida messinscena abilmente orchestrata da provetti manovratori che, sfruttando la passione popolare, procurano un puro spettacolo simulacrale. L’ambivalente impressione accompagna insistente la mente ogni volta ci poniamo come appassionati fruitori e cultori di sport e simultaneamente come educatori di ragazzi e di giovani abituali frequentatori dei nostri grandi oratori o dei disadorni campetti delle nostre parrocchie. Pare per altro difficile scacciare l’impressione soprattutto dopo i numerosi e recenti scandali calcistici che hanno coinvolto partite truccate, corruzione e scommesse illegali. Certo quanto si è appreso riconduce a segno evidente deplorevoli episodi di slealtà, di arroganza, di scarso rispetto delle regole e induce un sentimento sottile surrettiziamente generato da malcelate supposizioni di brogli diffusi e concordati. Anche lo stesso ventilato approdo dei processi intrapresi dalla giustizia ordinaria e sportiva sembra rivelarsi sorprendentemente modesto e quasi irrisorio rispetto alla conclamata pubblicizzazione di illeciti, all’auspicata restituzione della verità e alla richiesta di opportuna pulizia etica. In tal modo si è potuto vedere l’altra faccia dello sport. È quella più compromessa dalla pervadente indifferenza etica, che ben si combina poi con il dilagare della piaga del doping, della falsificazione dei bilanci amministrativi, della violenza da mal di stadio e dalle varie forme di corruttela dislocate nei diversi livelli di responsabilità. Questo preambolo, un po’ raffazzonato ma sufficientemente significativo, vale quale introduzione al discorrere circa il merito del valore antropologico dello sport, del grado di coscienza sportiva attualmente in atto, e aiuta a comprendere lo stato di smarrimento di milioni di atleti e di appassionati i quali, posti in mezzo ad un profluvio di informazioni, si vedono quasi traditi nei loro ideali sportivi più solidi e più condivisi, brandendo un duro colpo allo sforzo educativo ed etico.
Il valore e i valori
Da una quasi ovvia constatazione si evince che lo sport è un’attività umana e, nella sua semplicità originaria, reca il valore connesso ad ogni opera dell’uomo. Ne esprime la struttura ontologica, ed è portatore di un valore in sé, come realtà che si inscrive nella genialità umana. Più del gioco, lo sport rivela il suo radicamento antropologico per la sua indole spiccatamente collegata con la cultura, come processo di civilizzazione e di razionalizzazione, e strutturato con gli stili di vita e le attese degli individui. In un approccio più persuasivo, viene da osservare come l’atto sportivo acquista peso effettivo e valore efficace proprio se considerato concretamente nella significatività della persona umana. Nella sua identità «uni-duale», come insegna Benedetto XVI,[1] cioè come unità inscindibile di anima e di corpo, l’uomo ritrova pienamente sé stesso ed è in grado di imprimere ed esprimere significati autentici alle sue azioni. Nel gesto sportivo ciò si vede verificato in modo immediato. Di fatto lo sport è agito da un corpo in movimento, ma è con tutta evidenza un corpo che rivela un progetto personale, una storia e un destino. È un corpo che acquista pienezza di senso nel suo essere linguaggio estensivo e simbolico di una individualità personale, intrinsecamente esistente come anima e spirito. Di conseguenza si dispone visivamente un essenziale riferimento antropologico, collegando strettamente lo sport alla realizzazione della persona come progetto in progress, coinvolgendo sinteticamente «corpo, anima e spirito» (cf. 1 Ts 5,23) in un atto che ingloba le molteplici potenzialità della persona umana. Di qui deriva il «valore» dello sport che si configura nella molteplicità dei significati connessi alla capacità di rivelare l’uomo ma altresì nella possibilità di realizzare l’uomo. I due fronti, della rivelazione e della realizzazione, camminano insieme in quanto il «valore-sport» si coniuga e si pratica coerentemente con i «valori sportivi» da esso veicolati in modo intrinseco e non giustapposto.
Gesto sportivo e valenza etica
Così inteso il valore nativo dello sport non si limita al puro movimento fisico-motorio ma meglio viene a definirsi nella struttura identitaria della persona umana, quale gestualità inerente all’essere umano, rivelatrice dell’intima natura dell’uomo. Se si considera infatti il gesto sportivo nella sua identità, si evince che esso esiste solo in quanto «prodotto» dalla persona umana e come tale «serve» alla costruzione identificativa e strutturale della personalità. Di qui ancor più si rende palese il senso profondo dello sport, nel fatto cioè che si costituisce come atto di autentica rivelazione della verità dell’umano, come luogo imprescindibile della conoscenza di sé, come strumento di efficiente relazione con l’altro. Questa caratterizzazione rilevante del gesto sportivo diventa forma sperimentale di sé per ogni atleta, in quanto è strutturato nel dinamismo impresso dalla fisicità, in quanto è sostenuto da un’intenzionalità intelligente, in quanto è teso ad acquisire un risultato plausibile, cioè diventa per se stesso il compimento di un atto originale e inconfondibile posto in essere dalla persona. Sotto questo profilo complessivo, l’attività sportiva viene giustamente considerata come una «palestra di vita»[2] in stato permanente, nel senso che tende a soddisfare mediante un’applicazione sistematica e continuativa, quasi un esercizio esistenziale, gli obiettivi di elevazione della totalità della persona nella sua tipicità individuale e sociale, di sviluppo integrale delle capacità relazionali, di incremento sperimentato di tecniche raffinate inerenti a migliorare la performance della struttura corporea, muscolare e psichica. Non vi è dubbio che questi obiettivi, di sicuro e positivo valore umanizzante, accrescono le potenzialità dell’atleta e plasmano la sua personalità in modo coerente e disciplinato, tanto da restituirlo ed essere «vero» campione di sport e di umanità. Non vi è nulla di più sorprendente che verificare il progresso qualitativo e formativo impresso dall’attività sportiva sulla maturazione personale dei ragazzi. Tale acquisizione valoriale non esclude di per sé che possa diventare fonte di reddito e di correlate operazioni commerciali, secondo una concezione modernizzante di sport come «prodotto» sul quale e con il quale strutturare un’attività economica. Appare del tutto evidente, tuttavia, che la qual cosa rischia di rendere precario e fragile l’assetto antropologico dello sport, se non è ben delimitata da buone regole e da trasparenza etica. Le valenze antropologiche individuate – elevazione umana, corporeità relazionale, tecnica specialistica – connotano e suppongono una loro distinta evoluzione, anche se è da preferire una loro compenetrazione simultanea e armonica nell’unità inscindibile del soggetto che fa sport. Questa «unità del soggetto», accuratamente coltivata, verificata e cautelata, sta alla base del principio antropologico dello sport in quanto costituisce e rivela l’autentico contributo valoriale dello sport nella costruzione integrale della persona. Di qui si sviluppa la valenza etica dello sport. Infatti, emerge l’istanza imprescindibile che l’attività sportiva – comunque sia finalizzata e organizzata – sia voluta e agita consapevolmente dall’uomo, per uno scopo di autentico bene, secondo la dignità insurrogabile della persona e per una vita buona. Perciò deve caratterizzarsi dalla libertà dell’atto sportivo, cui consegue il profilo necessario di responsabilità, rispondente al grado di finalità propria. A partire dalla visione cristiana della vita – se dunque si considera il gesto sportivo nella strutturazione ontologica dell’essere-uomo – si viene a collocare lo sport in un orizzonte di senso delineato dall’antropologia teologica, la cui essenziale considerazione valuta l’uomo secondo la sua identità creaturale, segnato dalla finitezza, inscritto in un contesto di forte dinamismo evolutivo, orientato verso un destino trascendente, raggiunto dall’atto redentivo di Gesù Cristo. Perciò anche la piena verità dell’uomo sportivo scaturisce dalla comprensione teologica e sapienziale della sua natura, dalla vicenda storica e metastorica che lo caratterizza, oltre le vicissitudini culturali differenziate. Da questa impostazione si avvertono quanto siano deleterie talune estremizzazioni ideologiche proprie di correnti di pensiero immanentistico (positivismo, materialismo, illuminismo) o di stampo nichilista e consumista per le quali l’«uomo sportivo» si riduce a puro «agente» produttore di record e di spettacolo, a manipolatore della sua corporeità ai fini della performance atletica.
In uno sguardo più specifico, lo sport dice la verità dell’uomo enucleata dall’antropologia, individuando i nodi cruciali e più densi di criticità relativi al rapporto tra uomo e gesto sportivo; quali la stretta dell’agonismo, la sfrenatezza della competizione, l’uso smodato della potenza corporea. Tali aspetti, variamente esaltati, si concretizzano efficacemente nella concorrenza esigente che collega i «fondamenti» propriamente antropologici con i correlativi «riferimenti» valoriali tipicamente sportivi. Perciò all’essenzialità dei «fondamenti» propri dell’universo deontologico della persona umana, fonte primigenia dei valori etici, deve corrispondere la trasparenza dei valori chiamati a entrare «in gioco» nell’evento sportivo in sé considerato. La visione antropologica richiama dunque non solo l’essere dell’uomo ma altresì il suo agire nell’orizzonte del suo fine. Sicché il destino ultimo dell’uomo sportivo trova ampia conferma oltre che nell’ordine delle cose, nell’acquisizione di attitudini virtuose intrinsecamente correlate alla sua attività umana e per nulla impedenti e mortificanti la sua stessa autonomia, anzi auspicate per la «perfezione» dell’uomo. Qui si intende fare riferimento alle specifiche «virtù sportive», quali la lealtà, il rispetto reciproco, la mitezza, la temperanza, l’umiltà, l’accoglienza del limite, tendenti a promuovere, nel loro esercizio continuativo, il «perfetto atleta».
La natura ludica dello sport
Per un’esatta comprensione del «valore antropologico» dello sport non va sottaciuta la sua essenziale referenza al gioco. Per altro è riconosciuto che nell’evoluzione e nella costruzione dell’identità della persona, il gioco evidenzia qualità intrinseche al concreto modo di vivere e, in particolare, alla figura della relazione con l’altro, assumendo funzioni di creatività primigenia, di genialità intuitiva, di prestazione abile, di relazionalità competitiva. Visto sotto il segno del linguaggio, il gioco rivela anche la potenza dello spirito individuale, la sua caratterizzazione soggettiva. In tale contesto è da sottolineare la capacità comunicativa e aggregativa del gioco. Come è proprio della sua indole di estroversione entusiasta, produce valori di festa, di gioia, di gratuità, di dono, di amicizia. Il gioco, come la fantasia in azione, come il coinvolgimento dell’essere, come il piacere di esistere, rivela la complessità dell’essere umano e la sua originale comunicatività. Così il gioco si presenta come il simmetrico contrario del consumo narcisistico di sé per aprirsi ad una socialità amicale e fraterna, interpretativa dell’umano più genuino e ancora si evidenzia un dato interessante e cioè che la dinamica soggiacente al gioco proviene ed è alimentata da un’energia spirituale di cui ogni uomo è dotato, non come giacimento cui attingere risorse, ma come entità che lo qualifica in quanto uomo, cioè adeguato alla struttura antropologica universale. Accogliendo queste suggestioni non è azzardato asserire che lo sport moderno assume nettamente la genialità del gioco, nelle forme più diverse, e le «organizza» in un sistema che include razionalità, ordinamento normativo, disciplina, spettacolarità, utilità economica. Di conseguenza tra «gioco» e «sport» corre una sorta di consanguineità, di stretta parentela, tanto da essere il gioco l’anima dello sport, la sua funzione vitale, il suo diretto referente. Tuttavia, lo sport non va identificato con il gioco, in quanto tra le due attività si manifestano una differenza e una distanza. Differenza rispetto alla forma complessiva dello sport e del gioco e alla loro figura sintetica che riguarda le modalità e i fini. Distanza rispetto alla destinazione, all’esito e alla cultura sociale. In realtà nella trasformazione contemporanea il gioco è stato «ordinato» allo sport diventandone purtroppo subordinato, fino a diventare uno «spettacolo» mediatico e professionista, assumendo una funzione di traino e di modello dominante.
– Gli «ambiti» antropologici dello sport
Una ricognizione rapida del fenomeno sport, confrontando le fonti di identità e le forme di utilizzazione connotate dalla realtà di fatto dello sport, consente di ricostruire un quadro di riferimento degli «ambiti vitali» ragionevolmente accettabili e fondativi dei «valori» dello sport sotto il profilo dell’orizzonte antropologico. Mi limiterò ad una scarna presentazione, di valore indicativo, sufficiente tuttavia per farsene un’idea e per stimolare ulteriori approfondimenti sia teorici che pratici.
– Il corpo e l’anima
Come si è già accennato, la persona è composta di anima e di corpo. Di fatto lo sport interpella entrambi, in quanto, è nato per comporre un sano equilibrio tra diverse esigenze dell’uomo moderno, quali la corporeità, l’affettività, la conflittualità. Se si intende raggiungere tale obiettivo – valido e attuale anche nella presente condizione – è necessario dimensionare i tre momenti su un valore comune riscontrabile nella valenza spirituale della vita umana. Appartiene all’esperienza universale, infatti, avvertire che la percezione empirica di sé non si conclude nella pura fisicità ma rimanda al principio spirituale. Perciò la dimensione corporea e la dimensione spirituale si congiungono in modo integrante nella persona tesa a vivere in pienezza la propria esistenza. Diversamente si rischia di cadere in un unilateralismo vitalista, naturalista, fisicista, del tutto insoddisfacente rispetto all’autentica identità della persona. A tal fine val bene richiamare e ridare senso pieno al celebre aforisma del poeta satirico Decimo Giovenale (Aquino, 55-130 d.C.) che recita «mens sana in corpore sano» (Sat X), senza fumi retorici e attenti alle possibili riduzioni storicistiche.
– La disciplina e l’agonismo
Non vi è dubbio che lo sport moderno si fonda sull’agonismo esplicito e spettacolare. Esso viene calibrato da moderatori, insuperabili e condizionanti, quali le regole, l’arbitro, il mercato, la società, gli spettatori, i tifosi, i media. Con la loro corretta connessione e il loro equilibrio, è possibile raggiungere l’obiettivo di «far divertire con un bel gioco». Se ogni segmento non prevarica, si contribuisce nel modo migliore al perseguimento del fine sportivo. Per ottenere questo risultato è necessario il «fair-play» che promuove una responsabile forma di disciplina, una vera ginnastica della volontà in grado di purificare gli appetiti e gli interessi, che si rivela determinante. Mentre l’agonismo esplicita la potenza istintiva e aggressiva, la disciplina predilige la costruzione graduale del dominio di sé entro un quadro di valori ben definiti, esige un assoluto rispetto delle competenze, degli accordi, delle regole, delle «autorità» competenti, plasma le animosità e le intemperanze, ordina a buon fine energie, risorse, aspirazioni.
– Le regole e la giustizia
L’osservanza delle regole è fondamento imprescindibile dello sport. Di fatto il confronto sportivo richiede di essere ordinato da pattuizioni condivise. Sono le «regole del gioco» che determinano il corretto svolgimento delle gare e sono vigilate dalla «giustizia sportiva». Nell’universo etico la giustizia sovrintende i modelli di comportamento. Non è affatto fuorviante affermare che le regole del gioco sono ispirate dalle quattro virtù «cardinali», la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza. Sono le «attitudini stabili» che presiedono e governano l’ordine interiore dell’uomo e l’ordine esterno della convivenza ai quali anche lo sport si sottomette. Nello sport la «giustizia sportiva», in uso all’interno dell’organizzazione sportiva, riguarda la totalità del fenomeno sportivo, in tutte le sue implicanze di ordine agonistico, contrattuale, personale. Ci si richiama agli imperativi della giustizia quando si parla, per esempio, del rapporto tra sport e finanza, tra Società e giocatori, tra giocatori e spettatori, tra i giocatori stessi. Il campo della giustizia è più grande del campo di gioco, e comprende il «sistema sport» nella sua totalità, del rapporto tra le persone alla trasparenza dei bilanci societari, dall’osservanza dei contratti alla pertinenza dei diritti soggettivi e oggettivi. Lo scarso livello culturale dello sport in Italia genera una condizione di oggettiva subalternità rispetto alle culture dominanti. Il differenziale si evidenzia nel rapporto tra sport e società civile, tra sport e comportamenti, tra sport e valori etici, tra sport ed educazione. È un rapporto decisivo per definire i comportamenti, le politiche, le scelte individuali e familiari verso lo sport e non sempre viene segnato da una conoscenza responsabile.
– La relazione e la solitudine
L’immagine che sovente viene dallo sport manifesta un’attività mitizzata e posta in un territorio dorato ed esclusivo, dove ci si può permettere tutto. Lo sport non è proprio un eldorado. Per milioni di persone rappresenta un’opportunità impareggiabile, un relax positivo e creativo, una relazione con sé e con gli altri. Per moltissimi ragazzi non solo è vissuto come gioco esaltante, ma comporta un’autentica situazione di crescita e di esperienza personale. Infatti, accompagna lo sviluppo generazionale dalla prima adolescenza fino alle età superiori, con ampia possibilità di formare il proprio carattere, di accumulare insegnamenti, di definire la propria personalità insieme ad altri. Perciò lo sport chiede un’altissima responsabilità, una fine sensibilità, un’apertura mentale, e una competente strumentazione psico-pedagogica a tutta prova. Vanno curate perciò la formazione, la preparazione, la scelta degli operatori e dei dirigenti, in modo di prevenire possibili condizioni di imbarbarimento piuttosto che di promozione dell’uomo, di imprevidente corsa al mero guadagno piuttosto che di un’equilibrata e assennata impostazione economico-finanziaria. Al riguardo diventa opportuno ridefinire, con limpidità etica, alcuni punti di riferimento, quali la prevalenza del diritto della persona sulla semplice convenienza economica; la trasparenza finanziaria nelle contrattazioni, attraverso forme di corresponsabilità e di differenza di ruoli; la pertinenza tra attività sportiva e valori primari della vita in modo che lo sport abbatta la solitudine e l’egoismo ed esalti l’amicizia. Infatti, uno sport buono conviene sempre a incrementare e a consolidare una forte solidarietà umana proprio in virtù della sua natura relazionale, cioè di essere un’attività pratica che produce, se condotta secondo disciplina ed equilibrio mentali, uno star bene con sé stessi e uno stile di compagnia coinvolgente e appassionante, anche quando assume i caratteri della competizione e dell’agonismo.
– La socialità e l’aggregazione
Lo sport come bene pubblico richiama la sua indole sociale e aggregativa. Se infatti lo sport travalicasse le insopprimibili istanze della solidarietà e della mutualità, non solo perderebbe la sua natura ma anche provocherebbe tali illeciti e tali scorrettezze da essere giustamente considerato dannoso, anche se eventualmente conclamato dall’opinione pubblica e dai mass-media. Ogni socialità suppone non solo la giustizia ma le virtù dell’altruismo, della condivisione e del perdono. Di qui si evince come ogni forzatura intentata contro l’equilibrio bio-fisico dell’organismo umano, come ad esempio l’uso sconsiderato di sostanze chimiche, non potrebbe che essere decisamente condannata perché lesiva della persona prima ancora della giustizia, della lealtà sportiva, della comune appartenenza al «mondo dello sport». In tal senso la «socialità» dello sport non si riferisce solo alla sua benefica fruizione popolare ma alla sua istanza di attrattiva esemplare di vita sana. Così uno sport che non promuovesse i valori della fratellanza aggregante misconoscerebbe non solo i principi suscitati dalla Carta Olimpica,[3] ma penalizzerebbe anche le fondamentali esigenze della stessa socialità, della pace e della filantropia, fattori valoriali che stanno alla base della convivenza tra individui, popoli e nazioni.
Conclusione
Da una pure sommaria esposizione, emerge in tutta la sua portata, la dimensione antropologica dello sport. Essa fonda e giustifica l’acquisizione dei valori connessi allo sviluppo integrale della persona e rende lo sport più plausibile per la formazione ai valori e l’educazione, alla conoscenza di sé, alla relazione con gli altri, alla responsabilità sociale e civile. In tal senso il valore antropologico facilita il rapporto tra etica e sport, promuove una riflessione competente sui veri benefici dello sport, sollecita tutte le componenti del «sistema-sport» a un riorientamento delle scelte strategiche finalizzate agli obiettivi di uno sviluppo effettivo dei giovani. Se lo sport mira anzitutto a far divertire, tuttavia non nega l’espressione della creatività, l’educazione ai valori, il progresso verso forme di socialità più alte. In questa prospettiva anche il plus-valore economico può assecondare l’attuazione del bene comune, a servizio della persona, e in particolare a incremento dell’attività sportiva nelle fasi di avviamento, privilegiando i più deboli e i meno dotati. Dall’esaudimento dei valori antropologici dello sport, i valori etici si innestano, di fatto, sulla base sicura dell’uomo e non possono che arricchire qualitativamente ogni persona che dallo sport trae motivo di vita, dai giovani ai dirigenti, dai tifosi a tutto quell’ «indotto sociale» che forma la ricchezza del sistema sport. Di qui emerge con evidenza che il profilo umano dello sport non può non «nutrirsi» dei valori spirituali che affondano in un’anima viva e forte. Si tratta di quel senso più profondo e fecondo generato dalla percezione alta dei valori di riferimento che sorreggono la pratica sportiva, accrescono la passione, favoriscono il pieno compimento della persona.
[1] Cf. Benedetto XVI, Deus caritas est, 5.
[2] Cf. Commissione ecclesiale della CEI per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, Nota pastorale, Sport e vita cristiana, (1995), n. 33.
[3] Cf. Cio, Carta Olimpica, Principi fondamentali, Losanna, 4 luglio 2003.