Claudio Burgio – cappellano dell’Istituto penale minorile C. Beccaria di Milano
Se dovessi guardare la realtà dei giovani che incontro nell’Istituto penale minorile «C. Beccaria» di Milano e nella comunità di accoglienza «Kayròs» dove vivo, il quadro, a prima vista, potrebbe sembrare disperante. Sono più di cinquecento gli adolescenti autori di reato detenuti nei 17 istituti penitenziari minorili italiani (soltanto una ventina le ragazze e oltre la metà i minori stranieri non accompagnati): ragazzi e ragazze che giungono in carcere travolti da un disagio esistenziale profondo e che appartengono trasversalmente a tutti i ceti sociali. Ci sono i figli di famiglie disgregate e assenti, provenienti da contesti di povertà educativa ed economica; ci sono anche i figli cresciuti in buone famiglie, coccolati e soddisfatti in tutto da genitori onnipresenti e molto richiedenti in termini di risultati scolastici e di prestazioni di successo in ogni ambito. Il disagio adolescenziale che incontro in carcere ha cause di tipo multifattoriale, perché il reato in giovane età non è che il sintomo di un vuoto esistenziale e di un dolore intrapsichico con diverse radici: le alte aspettative prodotte dal mondo adulto e fabbricate dalla società della performance impongono modelli che costringono molti adolescenti a esibirsi dentro una realtà sempre più tecnocratica che perde interesse per la verità e che obbligano utilitaristicamente e unicamente a vivere di bisogni indotti. La parola stessa «futuro» inquieta e spesso scompare dal vocabolario dei ragazzi detenuti: «Per me non c’è futuro, vivo alla giornata; preferisco non pensare al domani, aspetto solo di uscire da qui». La rassegnazione porta all’apatia e l’apatia può generare stati d’ansia e di depressione pericolosi: gli atti di autolesionismo, i tentativi di suicidio e i suicidi in carcere, purtroppo, sono ormai una triste realtà in Italia. È l’epoca in cui è scomparso il congiuntivo, quello che nei miei studi adolescenziali veniva chiamato «desiderativo», «ottativo»: i ragazzi del nostro tempo fanno fatica a coniugarsi e a pensarsi dentro un orizzonte di desideri raggiungibili.
In comunità, organizziamo una testimonianza teatrale che portiamo nelle sale di tutta Italia: un’ora e mezza di racconti, canzoni, video in cui i nostri adolescenti «cattivi» si narrano. In una di queste serate, Mario si esprime con queste parole: «Sento ansia, rabbia, incertezza, paura, insicurezza. Giorno dopo giorno cerco un motivo per non mollare. Poi, una domanda comincia a girarmi in testa: come ci sono arrivato qui? Il viso di mia mamma mi appare dal nulla e mi chiedo perché mi abbia adottato. Mi domando come mai abbia insistito così tanto. Non capisco perché volesse investire tutto su un bambino cresciuto in strada. Non trovo nessuna risposta. Forse perché non gliel’ho mai chiesto, forse perché non ho mai parlato davvero con lei, così come non l’ho mai fatto con papà. Sì, forse è questo il problema: non ho mai parlato con loro, non mi sono mai confrontato, non ho mai fatto una domanda. Facevo finta che andasse tutto bene, facevo finta di accettare le loro regole… Fingevo e basta. Ma qualcuno dialoga davvero con i propri genitori? Voi, ragazzi e ragazze che siete in questa sala stasera, non fate il mio, il nostro stesso errore. Qualcuno di noi non ha avuto la possibilità di parlare con i propri genitori, ritrovandosi a dover stare per strada, perché i genitori non li ha semplicemente avuti. Ma voi, fatelo! Dite ai vostri, anche incazzati: “Ho bisogno di parlare con voi, non mi va bene questo e quest’altro…”. E voi adulti, cercate sempre di attribuire la giusta importanza alle parole dei vostri ragazzi; imparate a guardarci negli occhi e a leggere le nostre emozioni. Fatelo, perché molti di noi non possono più farlo”».
Parole forti di un giovane paralizzato, come tanti suoi coetanei, dal non senso e da domande mai poste prima; espressioni di chi teme di essere criminalizzato a vita, nel terrore di essere un perdente.
Un cristianesimo che ripropone stancamente discorsi poco fondati sull’esperienza di chi li comunica ha sempre meno attrattiva e non genera una speranza affidabile: un Dio che non tocca anche le ferite è per molti giovani un dio inutile. Il sacramento della riconciliazione in carcere è l’intimo colloquio penitenziale di ragazzi che nel dolore consegnano a Dio le ferite inferte a loro stessi e alle vittime dei loro reati. Così, la luce ritorna e vince l’opacità di una fede mortifera, dettata più da convenzione che da convinzione. In un carcere minorile la speranza si riaccende quando il ragazzo detenuto comincia a comprendere che, per riemergere dalle ferite inferte e subite e dal non-senso dei propri errori, non può farcela da solo: occorre l’incontro con chi ti invita a guardare la vita in un’altra prospettiva.
Perché rinasca speranza, occorre offrire ai ragazzi una visione nuova: ogni adolescente in carcere deve essere accompagnato a comprendere che non coincide con il male che ha prodotto. Non si tratta di legittimare o giustificare le condotte violente e trasgressive: un inutile buonismo non sarebbe rispettoso delle vittime dei reati, ma nemmeno dei ragazzi che il male lo commettono. Si tratta, piuttosto, di ridare un volto anche a chi sbaglia, accogliendo la sua irripetibile umanità e la sacralità della sua storia, perché anche una storia sbagliata fa pur sempre parte della storia di salvezza.
Come avviene il risveglio di una coscienza in carcere? Un detto ebraico narra che in principio Dio creò il punto di domanda e lo depose nel cuore dell’uomo: la domanda inquieta disarma, ma apre anche a un dialogo libero dall’esito. La pedagogia della domanda è il metodo che Gesù ha usato per risvegliare la coscienza credente dei suoi discepoli e donare loro speranza. Mentre le affermazioni definiscono, le domande aprono e rilanciano il dialogo anche con ragazzi molto chiusi e bloccati dentro: parole troppo assertive non riscaldano il cuore e non danno alimento a un cammino di speranza. Le domande, invece, sono scintille che liberano dal vuoto interiore. Le domande vere permettono un lavoro di scavo dentro la coscienza che richiede a volte molto tempo: la speranza ha a che fare con la pazienza dell’attesa. Come è accaduto ai discepoli di Emmaus, occorre che qualcuno si faccia viandante e accompagni il cammino incerto di questi ragazzi: qualcuno disposto a camminare anche in assenza di una meta sicura, senza arrestare il passo nella rassegnazione e nella sfiducia. Un viandante che non riproponga nostalgicamente il ritorno al passato come via di guarigione, ma che guardi avanti, accolga la sfida di questo nostro tempo e si metta in cerca del senso, dando senso a tutto ciò che incontra sul suo cammino.
La vita di questi adolescenti è ancora un’opera d’arte: i loro passi incerti, le loro storie imperfette, il «mostruoso» che abita le loro condotte, le loro lotte disperate per stare al mondo sono l’espressione di una bellezza informe a cui dobbiamo avere il coraggio di guardare. In un tempo che cerca di censurare ogni forma di vulnerabilità e di imperfezione, non c’è spazio per questi ragazzi. La storia non si può riscrivere, ma si può ri-significare, e, perché questo avvenga, occorre la pienezza del ricordo: il perdono non è l’oblio, non è dimenticare, ma è un atto libero e gratuito, il cui esito è imponderabile, ma garantisce alla persona di non rimanere schiacciata dalla tragicità degli eventi. In un tempo in cui la categoria del perdono sembra essere stata rimossa e confinata a un ordine soltanto sovra-etico, ritengo fondamentale ritrovare le ragioni educative del perdono: la sua eclissi è sempre più evidente nelle aule dei tribunali, ma anche nei rapporti tra esseri umani. Una giustizia meramente retributiva e punitiva, così come rischia di essere concepita oggi, va lasciata alle nostre spalle: l’abbruttimento delle persone detenute è la logica conseguenza di un contesto regressivo e infernale qual è il carcere, divenuto nel suo volto iconico e simbolico, forma stessa del male. È possibile andare oltre il dispositivo totale e totalitario del carcere se fuori c’è una comunità di persone mosse da sentimenti di evangelica prossimità, di autentica cittadinanza e pervase da quella che il cardinal Martini chiamava la «follia della carità».
Il mondo, visto dalla prospettiva di un carcere, è sintomo di speranza per chi non si arrende a uno sguardo miope. Il mondo visto da qui è un tempo sospeso, interrotto e abitato da tanti giovani smarriti e pieni di paure; ma è anche «tempo favorevole», «momento giusto» per un cambio di paradigma nel modo di intendere la giustizia e la convivenza umana.
L’intero articolo su Orientamenti Pastorali 11(2024), EDB. Tutti i diritti riservati.