Mario Polia – specialista in antropologia religiosa e storia delle religioni, direttore del museo civico di Leonessa (Rieti)

Nel 1971, pochi giorni dopo aver conseguito la laurea in lettere classiche, partì per il Perù col primo contingente di volontari civili in sostituzione del servizio militare. Ero stato ingaggiato per svolgere attività didattiche nella Universidad de Piura, città situata nell’infocato deserto costiero al nord del Perù, capitale dell’omonimo dipartimento. Non ero un obiettore di coscienza: l’anno precedente, partecipando agli scavi del museo Pigorini a Cajamarquilla, un importante sito archeologico nei pressi di Lima, avevo avuto modo di conoscere quel tanto di Perù che resta nel cuore e agisce in profondità col potere d’un incantesimo. Mi ero reso conto che sarebbe valsa la pena dedicare i due anni di volontariato alla conoscenza approfondita d’una cultura in grado di aprire alla ricerca orizzonti vasti e, in parte, inesplorati. Fu così che colsi l’occasione e partì.

Nella zona oggetto delle mie ricerche, le provincie di Ayabaca e Huancabamba, la recente Reforma agraria del governo di Velasco Alvarado aveva tolto la terra ai latifondisti che ne detenevano il possesso fin dall’epoca della Conquista e l’aveva distribuita al popolo liberando il campesino dalla soggezione che, in pratica, lo rendeva schiavo del patrón. Ma la riforma, purtroppo, non aveva abolito la povertà perché, non avendo ricevuto un’adeguata istruzione tecnica e privo di mezzi meccanici, il contadino continua ancora oggi a lavorare al modo degli avi la porzione di terreno utile alla sussistenza, lasciando incolta la maggior parte di cui potrebbe disporre. In quei due anni, mi dedicai a tempo pieno allo studio e, nei tempi liberi dalla docenza, all’esplorazione di aree archeologiche ignote, sepolte dalla vegetazione sui contrafforti della Cordillera de Huamaní, o Del Cόndor. I primissimi risultati furono incoraggianti: la restituzione alla storia di una cittadella-santuario incaica e di uno dei più grandi complessi di arte rupestre del Perù, fino ad allora ignoto, ubicato lungo la frontiera ecuadoriana. Le ricerche, proseguite fino al 2001 con l’appoggio del Centro studi Ligabue di Venezia e del nostro Ministero per le relazioni con l’estero, permisero di conoscere il passato archeologico delle due provincie andine mediante la scoperta di centri monumentali sconosciuti, importanti complessi megalitici adibiti a culti ancestrali, il riconoscimento del tracciato del Cammino reale degli Inca, lo scavo di una serie di necropoli che ha permesso di ricostruire un primo profilo dell’universo simbolico e rituale legato all’antico culto dei defunti. La pubblicazione dei risultati ottenuti e l’esposizione museale dei reperti hanno offerto alla comunità scientifica dati che integrano la conoscenza del passato inserendo quella parte delle Ande. Oltre a onorare il  mio dovere di uomo di scienza, ho voluto che la gente del luogo imparasse a conoscere e rispettare le testimonianze delle proprie radici culturali permettendo agli alunni delle scuole rurali sparse sul territorio di partecipare agli scavi. La visita dei ragazzi accompagnati dai loro insegnanti comportava, ovviamente, un ritardo nel lavoro, ma offriva a essi una conoscenza diretta del patrimonio culturale di norma preclusa ai profani. E a me offrì la gioia di condividere il sapere con gli umili figli di quella terra, assieme alla sensazione di sentirmi utile a un popolo che negli anni ho imparato ad amare dal profondo del cuore.

Mentre svolgevo le mie ricerche archeologiche, entrai in contatto diretto con la cultura delle comunità rurali andine, una cultura che conserva una parte consistente del suo patrimonio plurimillenario. Fu per me una sorpresa constatare in che modo quella gente fosse rimasta fedele alla visione autoctona del mondo, dell’uomo, della vita e al sentimento del sacro, e come, nella religiosità, nella medicina, nei costumi, nella lingua avesse custodito l’eredità del mos maiorum. Una fedeltà pagata con l’accusa, vecchia di oltre quattro secoli, di «superstizione», ignoranza dei costumi «civili», chiusura pervicace al «progresso». Accettai la sfida cui un uomo di scienza non può sottrarsi: conoscere di persona. Iniziai dunque a lavorare «sul campo», nella pratica etnografica. Si trattava di abrir trocha (aprir sentiero): la letteratura scientifica dedicata a quella porzione delle Ande era ancora tutta da scrivere. Don Pancho Guarnizo, il primo sabio ‒ operatore della medicina tradizionale, esponente autorevole del culto ancestrale («sciamano») ‒ al quale mi presentai come estudioso, mi disse che non c’era nulla da studiare, perché né lui né nessun altro dei sabios aveva mai scritto qualcosa e che, invece di estudiar, avrei dovuto hacer, fare, partecipando di persona alle pratiche che avevo intenzione di conoscere. Dopo un non facile periodo di prova, fui accettato come curioso, termine che si applica a chi, animato da desiderio sincero, si propone di apprendere. Mi si apriva dinanzi la inattesa possibilità di diventare «osservatore attivo», un ruolo ambito che permette d’intraprendere una ricerca scientificamente corretta: invece di vedere lo svolgimento dello spettacolo sul palcoscenico, vi si partecipa di persona come attore. In questo modo, nello spazio di oltre trent’anni, ho potuto conoscere in dettaglio la teoria e la pratica della medicina tradizionale. Una medicina che, a prescindere dalla somministrazione dei rimedi tratti dalla fitoterapia indigena, impone in primo luogo la valutazione del paziente come persona la quale, prima che nel corpo, vive la sua malattia nella mente e nell’anima. E dalla mente e dall’anima il terapeuta indigeno inizia un processo curativo che parte dal malato. Questo fu il primo dei molti doni preziosi che ho ricevuto da quei campesinos. Un dono che, oggi, sono in grado di proporre all’attenzione della nostra ricerca medica impegnata a curare la malattia piuttosto che il malato. Trascorsi diciassette anni dalla mia accettazione come curioso, un maestro ignaro di lettere mi chiese di scrivere qualcosa di quanto mi era stato fino ad allora insegnato prima che se ne perdesse la memoria: non liste di erbe medicinali, precisò, ma il contenuto sapienziale, el corazón della tradizione medica ancestrale. Negli anni, la mia testimonianza, assieme a quella saggia e coraggiosa di colleghi peruviani medici e antropologi, ha permesso di sdoganare la medicina tradizionale andina proponendone lo studio negli ambienti accademici. Non è stato facile superare l’atavico muro di diffidenza e sfatare l’accusa di essere una sorta di «apprendisti stregoni», ma oggi, nella prestigiosa facoltà di medicina della Universidad Nacional Mayor di San Marcos, la più antica d’America, esiste la prima cattedra di antropologia medica. Una cattedra dedicata allo studio della medicina tradizionale andina e amazzonica.

L’altro dono che, da allora, non smette di arricchire la mia vita consiste nell’aver visto realizzata, da parte di persone che vivono con dignità la loro cronica emarginazione e l’endemica povertà, la virtù della solidarietà: virtù splendidamente umana ma d’ascendenza divina. Mi limiterò a qualche esempio: in omaggio alla tradizione, il maestro curandero  ̶  il terapeuta carismatico che per vivere fa come gli altri il contadino e il pastore  ̶  non richiede un compenso per le sue prestazioni, lascia al paziente la facoltà di retribuire a su voluntad. Chi può, dona un prodotto del campo, del pascolo, o del telaio domestico. Oppure, una volta in salute, contribuisce col proprio lavoro. I più poveri usano dire Que Dios se los pague (Che sia Dio a pagarvi) e, in tal modo, s’impegnano a pregare per chi ha fatto loro del bene. L’intima consapevolezza di aver ricevuto da Dio il dono di saper curare, obbliga il terapeuta a condividere il dono ricevuto a prescindere dal compenso. Quando iniziai le mie ricerche, questa era ovunque l’etica professionale; più tardi, con l’aperura di carreteras, specie nei luoghi più facilmente raggiungibili da forastieri nazionali e stranieri, qualcuno tra i curanderos più giovani iniziò a chiedere un compenso in denaro meritandosi il titolo dispregiativo di metalizado: venduto al denaro. Da parte mia, dopo aver tentato di spiegare ai miei contadini di essere «dottore in lettere» e aver sentito rispondermi che è logico che un doctor sappia scrivere e leggere ma non è giusto che non curi chi ne ha bisogno, iniziai a portare con me campioni e medicine regalatimi in Italia dai miei amici (veri) dottori. La medicina tradizionale indigena ha bisogno di secoli di sperimentazione, non è in grado di curare malattie d’importazione, come ad esempio il vaiolo e il colera. In questi casi, si deve ricorrere a rimedi farmaceutici: remedios de botica, farmaci privi di «anima» perché fatti dalle macchine e venduti in cambio di denaro, ma in grado di curare quello che le erbe e le arti dei maestros non possono. Una volta, udii i miei operai dire tra di loro che, purtroppo, Gesù stava per morire. Era una sera d’agosto. Feci rispettosamente notare che nostro Signore era gia da tempo risorto. Obiettarono dicendo che lo sapevano ma chi stava morendo era Jesús el hijo del carpintero: Gesù, il figlio del falegname. Venni così a sapere che si trattava di un ragazzo di nome Jesús (i nativi si azzardano a dare ai loro figli il nome di Gesù) figlio di un falegname che, in un villaggio dei paraggi, stava per morire di colera. Avevo con me una buona scorta di tetracicline: la malattia era ancora all’inizio e la tempra del ragazzo robusta. In poco tempo, Gesù, che ai primi sintomi era stato abbandonato dai familiari nella stalla e giaceva sul fieno, recuperò la salute e io divenni il suo secondo padre, quello che gli aveva salvato la vita ricevuta dal primo. I dettagli dell’intera vicenda mi suggerirono d’interpretare l’accaduto come una sorta di segno inviato dal cielo. Forse pretendo troppo e, in tal caso, me ne scuso. Da allora, però, iniziai a considerare fratelli in Gesù quelli che venivano a chiedermi medicine e a vedere nel loro volto il volto sofferente del Cristo del Getsemani. Inoltre, ringrazio di cuore il Signore di aver permesso a un doctor en letras di alleviare le sofferenze di molti senza danneggiare nessuno.

A proposito della solidarietà nativa, quando qualcuno deve costruirsi casa, come accade ad esempio a una coppia di sposi, l’intera comunidad campesina partecipa gratuitamente al reperimento dei materiali e alla costruzione ricevendo in cambio un pasto quotidiano e, di tanto in tanto, un goccio di aguardiente. Lo stesso accade per la relizzazione di ognuna delle opere di pubblica utilità alle quali, però, ciascuno partecipa portando i propri alimenti. Quando imperversava il colera, il governo aveva distribuito alle comunità rurali latte condensato e, ogni mattina, a turno, le donne lo preparavano e lo distribuivano, iniziando dai bambini per proseguire con le donne incinte, i malati e i più anziani. Ricordo, e il ricordo mi allieta, di aver dato un mio piccolo contributo insegnando a preparare marmellate. So che è difficile crederlo per uno che non fa il mio mestiere, ma in una zona che produce in abbondanza squisito e salutare zucchero di canna e può disporre di quantità ingenti e variate di ottima frutta offerta dalla natura, la confettura era sconosciuta.

Quando qualcuno, per malattia o per la morte di un congiunto, non è in grado di lavorare la terra, la comunità offre a turno braccia adatte al lavoro. Si tratta di una consuetudine ancestrale precedente la diffusione del cristianesimo, una consuetudine naturaliter christiana. In uno dei miei scavi archeologici, bisognava proteggere dalle intemperie delle antiche costruzioni templari: il consiglio degli anziani del villaggio, ritenendo la scoperta meritoria di rispetto perché riguardava la memoria degli avi, mise a disposizione lavoratori locali i quali provvidero a coprire l’intera area tagliando dal bosco il legname e costruirono un’ampia e solida tettoia sin goces de haber: senza richiedere compenso. Mi è anche capitato di sentir chiedere perdono agli alberi prima di procedere al taglio e, tra le etnie amazzoniche del Marañón, di vedere scacciare gli animali dopo che i cacciatori avevano abbattuto con la silenziosa cerbottana e i micidiali dardi al curaro le prede strettamente necessarie alla sopravvivenza del gruppo. «Superstizione» o testimonianza della percezione della sacralità della natura che ha permesso la conservazione dell’ecosistema? Che succederebbe se ai nostri cacciatori fosse permesso l’uso del silenziatore? Un trentennio di partecipazione diretta mi permette di scartare la prima opzione e confermare decisamente la seconda.

Restando nell’ambito del sentimento del sacro, una loro antica legge vieta di vendere appezzamenti di terreno o ricavare denaro dall’affitto dei medesimi: la terra coltivabile, o da adibire ad altri usi purché di pubblica utilità, viene concessa gratuitamente dalla comunità a chi ne fa motivata richiesta. Si tratta, comunque, di un usufrutto temporaneo. Cessato l’uso, la terra torna alla comunità che, mediante il consiglio degli anziani, ne stabilisce il successivo impiego. Uno di loro mi spiegò che il corpo della Pachamama, la nostra madre Terra, non può essere venduto ma concesso ai suoi figli perché ne traggano nutrimento. So che, a latitudini diverse, la risposta di quell’anziano digiuno di lettere può sembrare retorica e retorica la convinzione che tutti gli uomini abbiano una madre in comune, ma chi conosce il loro mondo sa che si tratta dell’autentica espressione d’un sentire oggi a noi ignoto. Anche in questo caso, i nativi (doc) si mostrano diffidenti nei confronti del «progresso».

La concentrazione della ricchezza, sia essa in natura come in beni materiali o forza fisica, oppure il sapere, la ricchezza in denaro nelle mani di uno o di pochi, è considerata una colpa grave nei confronti di Dio e dei più poveri. Gli indios della Sierra Madre del Messico credono che se uno di loro non condivide i propri beni con chi ha bisogno, dopo la morte sarà condannato a scontare la pena in una parte dell’inferno riservata agli «stranieri»: ai bianchi. La demonia del denaro è uno degli aspetti del «progresso» che i nativi (termine che, ai nostri giorni, concerne l’anima prima ancora che l’appartenenza geografica) si ostinano a non accettare. Un antico mito racconta che Wiraqucha, il Creatore, assunte le sembianze di un povero, andava in giro a chiedere qualcosa da mangiare e alloggio per la notte. Ricompensava i generosi (in genere i più poveri) benedicendo la loro casa, i campi, i pascoli, il bestiame. È significativo che il nome del Creatore, nella lingua aymara, significhi «straccione»… Il mito insegna che Dio distribuisce alle creature le sue ricchezze per amore, diventando «povero»; chiede alla creatura di comportarsi in modo simile nei confronti del Creatore, rendendo grazie con la preghiera, l’offerta delle primizie, e nei confronti del prossimo mettendo in comune i mezzi di sussistenza. Dal Perù al Messico, capita di sentirsi ringraziare per aver accettato l’ospitalità perché gradita a Dio e fonte delle sue benedizioni. È capitato anche a me, sulle Ande. Anche i greci ritenevano che gli ospiti, persino i più miseri, fossero mandati da Zeus. Quando qualcuno bussava all’uscio lo si accoglieva, saziava e accudiva. Solo più tardi gli si chiedeva chi fosse.u<QQ In entrambi i casi, il mito rende sacro l’ospite e sacro l’istituto dell’ospitalità. Un migliaio di anni dopo Omero, Benedetto da Norcia insegnava ai suoi monaci ad accogliere l’ospite come fosse Cristo che bussava alla porta.

Per quanto riguarda la solidarietà tra poveri, nella celebrazione delle feste patronali una delle famiglie della comunità s’incarica di provvedere al vitto durante i giorni della festa del santo patrono del villaggio. Per un anno, certi della gratitudine della comunità e della benedizione da parte del patrono, i fiesteros accumulano alimenti lavorando duramente perché la celebrazione avvenga nel segno della gioia e dell’abbondanza. Divenuti i più «ricchi» del villaggio, terminata la festa, la famiglia dei fiesteros diventa la più povera e la più stimata per la sua generosità. Questa innata generosità è stata definita da missionari veterani «el rostro indio de Dios: il volto indio di Dio». Questo è anche il titolo del loro libro, un libro indimenticabile.

A proposito della vita religiosa, vi è da dire che in questa regione andina il sacerdote capita in visita pastorale non più d’una volta l’anno. Viene accolto con gioia dai fedeli: gli presentano figli da battezzare; le coppie celebrano il loro matrimonio religioso; nei camposanti i defunti ricevono la benedizione e la gente l’eucaristia. Quando il sacerdote non c’è, uno del villaggio s’incarica, la domenica, di aprire la chiesuola (dove esiste) e d’invitare la comunità ad ascoltare le letture del giorno. Più d’una volta mi è stato chiesto di recitare la formula di battesimo su un neonato in attesa che il sacerdote impartisse il battesimo canonico. Agua de seguro, si chiama la formula battesimale recitata da un laico nelle primissime ore di vita perché, comunque, permette al piccolo di entrare a far parte della comunità cristiana e lo «pone al sicuro» dalla morte che, impietosa, falcia i più piccoli impedendo ai non battezzati di entrare in paradiso, li difende dall’invidia di quelli che non hanno figli o non li hanno più e, per ultimo, dalle insidie degli spiriti malevoli, gli encantos, che pullulano nei luoghi remoti e potrebbero rapire o danneggiare il neonato. Invano ho tentato di convincerli che chiunque, purché battezzato e credente, può dire Yo te bautizo en el nombre del Padre, del Hijo y del Espíritu Santo. Forse credono che le parole di un doctor arrivino prima agli orecchi del Padreterno, senza sapere che noialtri doctores da lui siamo più distanti di quanto non lo siano gli umili e i semplici d’animo.

La solidarietà «india» si preoccupa di alleviare le sofferenze altrui, ad esempio in caso di malattia. A me è successo di trovarmi sulla sierra privo di medicine e, bisognoso di cure e riposo, ho sempre potuto contare con l’aiuto di qualcuno che mi somministrava erbe, alimenti e mi offriva un giaciglio e un tetto senza chiedere nulla in cambio. La cosa significativa, nel mio caso, era la loro indifferenza nei confronti della mia appartenenza razziale. Un «bianco», tra le comunità native, è sempre e comunque (e spesso a ragione) oggetto di diffidenza; ma solo se il «bianco» giunge a meritarselo, iniziando dalla condivisione della loro vita, del vitto e dell’alloggio, e continuando col rispetto per i loro costumi, viene trattato come uno di loro. Questo è stato, per me, un insegnamento prezioso che mi ha dimostrato come la vera carità non conosca frontiere, sia priva di pregiudizi e carente di interessi secondari.

Della carità fa anche parte la trasmissione del sapere: quando, agli inizi del mio percorso, chiedevo notizie sui miti indigeni riguardanti la creazione del mondo, mi sentivo rispondere che, dato che sapevo leggere, potevo consultare in proposito la Bibbia. Molto tempo dopo, la stessa persona che da anni frequentavo, senza che glielo chiedessi di nuovo, mi raccontò gli antichi miti. Vedendomi interdetto e sorpreso, mi spiegò che non dovevo stupirmi: prima di consegnarmi l’eredità dei padri aveva dovuto sincerarsi che io avessi buen corazón: un cuore puro.

Per quanto riguarda la mia acettazione come forastero-non-forastero e studioso-discepolo, posso affermare che la più difficile e la più importante delle mie lauree, l’ho ricevuta quando il Consiglio municipale di Ayabaca, un centro rurale a tremila metri d’altezza, composto in prevalenza da contadini-pastori, mi ha insignito del titolo di Hijo predilecto, Figlio prediletto. Titolo equivalente alla nostra «cittadinanza onoraria», ma molto più vero, intenso, sincero, ma molto più impegnativo per chi lo riceve in  condizione di «figlio». Quando, cinque anni addietro, fu inaugurata la prima cattedra di antropologia medica, il magnifico rettore mi insignì del titolo di Catedrático honoris causa. Alla consegna del diploma, una delegazione di studenti provenienti dal Cuzco, con addosso i ponchos sgargianti tessuti sui telai andini, diedero fiato alle conchiglie marine per salutare l’avvenimento. Così gli inca salutavano la vittoria. Con gli occhi umidi di pianto, chiesi al rettore se l’università avesse organizzato il huayllay (così si chiama il suono trionfale delle buccine). Confessò di essere rimasto stupito non meno di me del gesto spontaneo di quegli studenti. So che l’orgoglio, anche se legittimo, non fa parte delle virtù cristiane, ma quel giorno mi sentii orgoglioso.

In chiusura di questa manciata di ricordi, che in qualche modo intendono testimoniare il mio vissuto tra i poveri, debbo allontanare da chi legge il sospetto della mia appartenenza alla scuola di chi ancora crede nell’esistenza del «buon selvaggio». L’essere umano è tale, con le sue virtù e i suoi difetti, in ogni tempo e in ogni latitudine. I miei campesinos possono essere avidi, invidiosi, infingardi, mentitori, crudeli come qualsiasi dei nostri connazionali. E a volte ancora di più, per il rancore della loro emarginazione e il peso della povertà. Quello che li distingue da noialtri, tuttavia, è che la maggior parte di loro, anche perseverando nel male, è cosciente di non essere nel giusto. Delinque sapendo di delinquere. Sa, inoltre, che Dio può punire e accetta il rischio del castigo. Sulle Ande, inoltre, la colpa del singolo chiama in causa l’intera comunità: hucha, mal tradotto come «peccato», esprime il concetto di «colpa contaminante». La colpa del singolo contamina la comunità e la espone al rischio dell’ira divina. Sicché, quando non piove, o piove troppo o fuori stagione, quando le piante e gli animali s’ammalano, il saggio del villaggio, il sabio, convoca la gente e chiede se qualcuno abbia fatto qualcosa che ha offeso Dio. A volte, come facevano gli avi, il colpevole dichiara pubblicamente la propria colpa, meritando, con la sua confessione, l’assoluzione e la stima da parte della sua comunità. Quest’ultima, infatti, è certa che, in tal caso, anche Dio abbia assolto il colpevole. In caso contrario, prima di essere consegnato alla giustizia, al colpevole viene impartita una punizione previa che serva agli altri d’esempio e dimostri a Dio la riprovazione della comunità. Un ladro o un assassino che sa di essere ladro o assassino, qualora si penta, ha fatto il primo passo su un possibile cammino di redenzione. Sta a lui proseguire. Dalle nostre parti, invece, molti peccati sono stati sdoganati; la coscienza della colpa è stata pressoché abolita, lasciando al singolo l’eventuale opzione di decidere ciò che appartiene al bene e ciò che appartiene al male. Oppure, senza porsi il problema etico, di stabilire se le sue azioni risultino «politicamente corrette» o passibili della punizione prevista dal codice penale. Del resto, una società «liquida» richiede per sua natura e in vista della necessaria coesione un contenitore rigido …

Tratto da Orientamenti Pastorali n.1-2/2024 (tutti i diritti riservati)