Giuseppe Savagnone – responsabile del sito della pastorale della cultura dell’arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu. Scrittore e editorialista

Uno degli aspetti più evidenti della crisi che indubbiamente la chiesa oggi attraversa, in questa delicata transizione dal secondo al terzo millennio, è la frammentazione che la caratterizza sia al livello dottrinale che a quello pastorale – anche per una comprensibile reazione alla unilaterale accentuazione dell’unità dopo il concilio di Trento. Dall’esigenza di identificarsi, di fronte alla Riforma, era venuta, allora, la tendenza a imprimere alla teologia, alle strutture ecclesiastiche e alla pratica spirituale una fisionomia monolitica, sicuramente funzionale a quella situazione storica che però, col tempo, è risultata sempre più rigida e talora soffocante. È accaduto così, che il legittimo pluralismo teologico – e perfino quello filosofico – siano stati sacrificati in nome di una «ortodossia» che però spesso confondeva la fedeltà alla sacra Scrittura e alla Tradizione con gli schemi imposti dal magistero. Emblematico l’esito della riscoperta del pensiero di san Tommaso, alla fine dell’Ottocento, risoltasi alla fine nella imposizione di tesi precostituite, a cui istituti di ricerca e seminari dovevano conformarsi senza poterle discutere. Tradendo in questo modo anche lo spirito dell’aquinate, ispirato alla più grande apertura verso tutte le posizioni tanto da essere, al suo tempo, profondamente anticonformista e perfino rivoluzionario. Non meno rigoroso era il controllo sulla liturgia e sulla pratica pastorale. Quasi tutte le varianti che fin dalle origini avevano diversificato e arricchito i riti della chiesa sono state nel corso dei secoli appiattite sul modello «romano», salvo rarissime eccezioni (come quelle del rito ambrosiano e delle comunità greco-cattoliche). E la pastorale è stata nella grande maggioranza dei casi svolta in base a modelli univoci che tenevano poco conto della varietà degli ambienti culturali e umani a cui si rivolgeva. I tentativi – fioriti per lo più in ambito missionario, soprattutto a opera dei gesuiti – di adottare formule alternative, hanno dato luogo a sospetti e spesso addirittura a censure. Il concilio Vaticano II ha segnato l’inversione di tendenza che tanti si attendevano, rimettendo coraggiosamente in discussione i modelli del passato e aprendo le porte a una concezione della comunità ecclesiale in cui la comunione nello Spirito, e non le strutture giuridiche, costituisce l’elemento unificante dei credenti. E lo Spirito è libertà. Ne è scaturita una fioritura variegata di prospettive teologiche – in parte a confermare tendenze già maturate in precedenza, in parte del tutto nuove –, ma anche una visione diversificata della cattolicità, affidata non all’uniforme sottomissione a un potere centrale, bensì alla profonda sintonia delle diverse chiese particolari in comunione tra loro sotto la presidenza del vescovo di Roma. Anche all’interno delle singole diocesi, peraltro, si sono aperti nuovi spazi di creatività e di originalità. I vincoli disciplinari che legavano il clero a moduli di comportamento rigorosamente definiti sono venuti meno. E il nuovo protagonismo dei laici ha ulteriormente contribuito a moltiplicare i soggetti attivi della pastorale, valorizzando gli apporti dei singoli e dei gruppi ecclesiali, che non a caso in questo clima hanno potuto emergere e far valere il proprio carisma. Tutto ciò non è avvenuto, però, senza un prezzo, che talora è stato molto alto. Da molti il messaggio del concilio non è stato adeguatamente compreso ed è stato scambiato per una indiscriminata liberalizzazione sia sul piano dottrinale che su quello etico e pastorale. In teologia, non sono mancate «fughe in avanti» che hanno finito per mettere in discussione anche il cuore del messaggio cristiano, discostandosi non solo dalla neoscolastica, ma dalla grande tradizione maturata con i padri e nei concili celebrati dalla chiesa indivisa nei primi secoli. Nell’ambito della pastorale alcuni singoli pastori hanno interpretato i riti e la morale da proporre praticamente al popolo di Dio secondo criteri troppo personali, dando luogo in qualche caso a palesi abusi nelle celebrazioni e avallando talvolta scelte etiche in deciso contrasto con l’insegnamento del magistero. Per contrasto a queste derive «progressiste» – ma lo sono davvero? –, si è consolidato all’interno della chiesa un fronte «conservatore», che pretende di salvaguardare la «sana dottrina» e i «sani costumi» bloccandosi sulle posizioni anteriori al concilio, come se la tradizione si identificasse col passato e non fosse, invece, il dinamismo che lo rilegge creativamente – sotto la guida dello Spirito – per tradurlo nelle nuove situazioni del presente e progettare l’avvenire. Da dove una vivace contestazione, all’interno della stessa chiesa, nei confronti di papa Francesco, attaccato spesso, per le sue aperture a posizioni dottrinali e stili nuovi, con toni mai usati da cattolici nei confronti di un pontefice. Ma anche prescindendo dallo scontro frontale fra chi vorrebbe andare oltre il Vaticano II e chi lo vorrebbe azzerare, si assiste oggi a una grande frammentazione all’intro della chiesa attuale. I presbitèri si sono dissolti in una molteplicità di soggetti che non si curano minimamente di conservare l’originaria dimensione comunitaria del loro ministero. Da dove la tentazione di tanti parroci a considerarsi «vescovi» della propria parrocchia e, più in generale, una scarsa propensione dei presbiteri a cooperare a iniziative comuni. Da parte loro, molti laici sono sempre meno coinvolti nella vita delle rispettive comunità parrocchiali, di cui sono, più che membri, frequentatori e praticano una religiosità «fai da te» in cui la dimensione comunitaria è assente o almeno molto marginale. Ci si accosta ancora ai sacramenti – battesimi, prime comunioni, matrimoni, la messa domenicale – ma spesso lo si fa con lo stesso spirito con cui si va al supermercato per acquistare un prodotto. Una forte coesione si trova nei gruppi e nei movimenti ecclesiali, che però operano per lo più in una logica autoreferenziale, senza curarsi troppo di interfacciarsi tra di loro e con gli organismi e le iniziative delle diocesi in cui operano.

In questo contesto, si comprende come sia arduo per i vescovi coordinare questa complessità. I piani pastorali rischiano di restare sulla carta, gli uffici preposti alla loro attuazione si scontrano con la scarsa collaborazione prestata dai loro potenziali interlocutori.

L’eredità dell’individualismo e l’avvento del singolarismo

La verità è che la comunità ecclesiale risente pesantemente di un clima culturale che, in Occidente, ha ormai da tempo decretato il trionfo di un individualismo possessivo in base a cui ognuno pensa e opera, all’interno della sua sfera, senza porsi il problema del bene comune del tutto entro cui è situato. Basta guardare alla sorte di quella comunità primordiale che è la famiglia, in pochi decenni passata rapidamente dal modello patriarcale, che soffocava il singolo sottomettendolo al dispotismo di un padre-padrone, a quello della famiglia mononucleare, a quello, sempre più diffuso, della famiglia unipersonale. Secondo il rapporto Istat del luglio 2022, per la prima volta in Italia le famiglie formate da una sola persona (33,2%) sono più numerose di quelle costituite da una coppia con figli (31,2%). Nel 2000 erano ancora solo il 24,0%. Il fenomeno è dilagante peraltro, anzi in forma più accentuata, in tutti i paesi europei, dove la media delle famiglie unipersonali nel 2021 era del 35,9%, e in singoli Stati, come la Germania e la Francia, raggiungeva il 41%, o addirittura, come in Svezia, il 50,1%. Ormai anche nelle relazioni affettive a predominare è la figura del single, che concepisce i suoi rapporti con un partner come strutturalmente non definitivi – «stiamo insieme finché stiamo bene insieme» – perfino nel matrimonio (tanto più dopo l’introduzione del «divorzio breve») e a maggior ragione nelle convivenze. È l’eredità della tradizione liberale, che ha messo in primo piano l’individuo, sottolineandone i diritti, primo fra tutti quello di proprietà (individualismo possessivo), su cui era modellato anche il concetto di libertà, concepito secondo una logica spaziale e insulare (come la proprietà terriera), che giustifica lo slogan per cui «la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro». Fissando un immaginario confine entro il quale l’individuo non deve rispondere a nessuno delle proprie azioni, purché non lo superi invadendo la sfera di un altro. Come se ciascuno, anche con le sue scelte esistenziali più personali, non influisse inevitabilmente – e a volte in modo decisivo – sulla vita dei membri della sua famiglia, sui destinatari delle proprie attività professionali, sugli altri membri della società politica a cui appartiene. Questa logica domina ormai da tempo la società occidentale, centrata sulla cultura dei diritti e dimentica di quella della responsabilità. Ne abbiamo avuto e ne abbiamo continuamente un esempio in certe battaglie bioetiche, come quella per l’aborto indiscriminato (diverso da quello voluto per seri motivi di salute della madre o del figlio) – «l’utero è mio e lo gestisco io» –, per l’eutanasia («la vita è mia e decido io su di essa») e per la maternità surrogata (dove il corpo della donna diventa un oggetto che si può dare in uso ad altri). Nella post-modernità, davanti alla minaccia della massificazione, di cui l’individualismo si è rivelato solo l’altra faccia, si è sempre più affermata una sua variante: il singolarismo, che considera il single non un semplice atomo irrelato, ma ne valorizza l’unicità in un contesto relazionale e ne rivendica il diritto di essere riconosciuto dagli altri secondo la percezione che egli ha di se stesso. Su questo sfondo, le cosiddette «teorie del gender» enfatizzano unilateralmente questa percezione, a prescindere dal sesso biologico. Resta una profonda continuità del singolarismo con l’individualismo. In entrambi i casi, i legami sono, se non negati, fortemente relativizzati. Dall’individualista, perché per lui sono dei potenziali ostacoli alla sua libertà, e dal singolarista, perché per lui sono importanti, ma solo in funzione della sua persona, fino a ridurre la realtà alla esperienza soggettiva che ne ha. Solo che, inseguendo la propria autenticità e gli stati d’animo che la esprimono, il singolo rischia continuamente di disperdersi nella varietà sincronica e diacronica delle sue esperienze e di non avere più alcuna unità. Così, alla fine, i suoi rapporti con gli altri sono mutevoli e precari perché lo è il suo stesso io, il quale non a caso, secondo un noto filosofo contemporaneo, Daniel Dennett, altro non sarebbe che una società per azioni a maggioranza variabile.

La sfida del Logos

Davanti a questo quadro appare in tutta la sua problematicità l’impresa del sinodo, in corso di svolgimento volta a recuperare un cammino comune, almeno a livello ecclesiale. Si tratta, in realtà, di elaborare e proporre una nuova prospettiva culturale, radicalmente alternativa a quella dominante dentro e fuori la chiesa. Non è una questione che riguardi solo i credenti. È evidente che, se la comunità cristiana non riuscirà ad affrontare e sconfiggere la frammentazione al suo interno, non potrà neppure essere credibile nell’indicare alla società circostante una via in questa direzione. E verrà confermata l’idea, sempre più diffusa, che il messaggio di cui la chiesa è portatrice, vero o falso che sia, non ha più molto di interessante da dire agli uomini e alle donne di oggi. Non è questa la sede, ovviamente, per fare una rassegna dei diversi contributi teologici che, proprio in riferimento alla crisi di unità, potrebbero smentire questa convinzione. Qui ci limiteremo a prendere in considerazione un concetto – quello di Logos – che si situa al cuore del messaggio evangelico e che potrebbe rivelarsi estremamente fecondo per superare quella crisi, prima di tutto all’interno della comunità cristiana e, dietro suo impulso, in tutta la nostra società. «Il principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Logos era Dio», scrive Giovanni all’inizio del suo vangelo (Gv 1,1). Questo Logos – nella traduzione della CEI troviamo «Verbo» – è il Figlio, eternamente uno col Padre. Stando al significato che il termine logos ha in greco, egli ne è la «Parola», ma anche il «Pensiero». Dio pensa eternamente se stesso e il mondo. Il Verbo – scrive Tommaso d’Aquino – è la Parola «in cui il Padre dice se stesso e ogni creatura».[1] Tutto ciò che esiste ha un senso, una intima intelligibilità, perché porta in sé l’impronta del Logos creatore. E gli esseri umani, creati a immagine di Dio, hanno in sé – come già alla metà del II secolo scriveva san Giustino (che poi avrebbe testimoniato col sangue la sua fede) – i «semi del Logos».[2] Vi è, allora, una profonda co-appartenenza di tutti gli uomini e le donne, di qualunque popolo, di qualunque epoca, di qualunque cultura, se fedeli alla loro umanità profonda, a Cristo: «Coloro che hanno vissuto secondo il Logos sono cristiani, pur essendo passati per atei, come presso i greci Socrate, Eraclito e i loro simili».[3] Ma non sono solo le persone, sono anche le loro scoperte, le loro convinzioni, ad avere una relazione intima con il Logos che le ispira. Perciò, dice Giustino, «tutto ciò che è stato detto di vero appartiene a noi cristiani; giacché, oltre Dio, noi adoriamo e amiamo il Logos del Dio ingenito e ineffabile, il quale si fece uomo per noi, divenendo partecipe delle nostre sofferenze, per guarirci da esse».[4] È questa profonda affinità che rende possibile ai credenti di andare oltre i limiti della loro cultura e di valorizzare gli apporti provenienti da ogni direzione, «lieti – come dice il concilio – di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che in essi si nascondono».[5] E qui poggia anche la fiducia della chiesa di oggi – espressa da Giovanni Paolo II – di potere rinnovare questa operazione con le categorie della cultura contemporanea: «Se, nella storia biblica, le culture sono già state giudicate capaci di essere i veicoli della parola di Dio, è perché c’è inserito in esse qualcosa di molto positivo, che è già una presenza in germe del Logos divino. Allo stesso modo, oggi, l’annuncio della chiesa non teme di servirsi delle espressioni culturali contemporanee: così esse sono, per una certa analogia con l’umanità del Cristo, chiamate per così dire a partecipare alla dignità del Verbo divino stesso».[6] Vi è una comunanza profonda che unisce – anche se inconsapevolmente – nel Logos divino, e dunque in Cristo, tutti gli esseri umani. A maggior ragione, i cristiani non possono non avvertire questo legame che, nel loro caso, diventa una esplicita comunione nel Logos fatto carne di cui la chiesa è il prolungamento nella storia.

Il Logos per una comunicazione conviviale

La conseguenza operativa di questa verità teologica, però emerge solo se scaviamo ulteriormente nel significato del termine logos. Perché in realtà il verbo greco da cui questo sostantivo deriva – legein – ha due significati. Uno è quello che abbiamo finora preso in considerazione: «dire», «pensare». Ma ce n’è un altro, apparentemente abbastanza diverso, per cui esso significa «mettere insieme», «raccogliere», «collegare cose diverse». In questo senso, il logos è unione dei diversi, perfino degli opposti, articolazione del molteplice in una totalità che non è monolitica, ma contiene le differenze e le valorizza. In realtà, c’è una intima relazione tra le due accezioni del termine greco. Perché ciò che caratterizza il linguaggio verbale e distingue la parola dal grido dell’animale è che essa articola i suoni in unità senza confonderli; unità del molteplice che si realizza ulteriormente nel discorso, in cui le parole a loro volta vengono collegate per far emergere, dalla loro diversità, un senso unitario. E questo è anche ciò che è proprio della ragione, la quale opera mettendo in relazione dei pensieri e, attraverso di essi, i diversi aspetti della realtà che in essi trovano espressione. La proprietà del logos umano – riflesso di quello divino – è di raccogliere in unità la molteplicità. Già il Logos creatore raccoglie nel suo sguardo tutta l’immensa varietà delle creature. «Poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili» (Col 1, 15). Fatto carne, egli è diventato colui in cui tutto si riunifica, senza per questo essere mescolato e confuso. Infatti «piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1,19-20). Il Padre ha voluto «ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10), non per vanificarle in una massa informe, in una nebulosa indistinta, ma per accoglierle e valorizzarle nella loro varietà e differenza. Troviamo qui il fondamento teologico di un tema che ha strettamente a che fare con il problema della frammentazione, da cui siamo partiti e che ne può costituire la soluzione: la comunicazione. Nel mondo attuale essa ha un ruolo decisivo, ma non sempre positivo. Dovrebbe svolgere, infatti, la funzione di unire, ma spesso finisce per dare luogo a due esiti diversi e opposti tra loro, quello di dividere e quello di omologare. In entrambi i casi, si capisce perché mai come nella nostra epoca il mondo sia apparentemente unificato e, a tempo stesso, conflittuale. E perché in particolare la nostra società e la nostra chiesa – dove computer, smartphone, tablet ci mettono in condizione di comunicare in ogni momento tutti con tutti – vivano in realtà la crisi di incomunicabilità di cui si è parlato più sopra. Ripartire dal Logos divino e dal suo riflesso in quello umano può essere, per i credenti, il modo di recuperare – e di offrire anche ai non credenti – una comunicazione che non sia solo quella funzionale – quella che si realizza in un’azienda o in un ufficio, sulla base degli ordini di servizio, e neppure quella che oggi dilaga nella pubblicità e nei talk show televisivi – di cui constatiamo ogni giorno l’incapacità di unire veramente, ma che venga valorizzata nel suo significato proprio, che non è quello di un mezzo, ma di un fine in sé. Quelle forme di comunicazione – che Habermas chiama «strategiche», funzionali, cioè, a un risultato estrinseco[7] – stanno a quella fondata su logos umano (e, in ultima istanza, su quello divino) che è parola, discorso, come lo spartirsi il cibo per nutrirsi sta al banchetto, in cui i commensali godono innanzitutto della condivisione che si crea, sedendo alla stessa tavola, innanzitutto a livello spirituale. Dalle prime nasce l’efficienza, ma spesso anche il conflitto o l’omologazione; dalla seconda la comunione. Perché solo essa è davvero un «mettere insieme» i diversi. A venire coinvolta nella riscoperta di questo livello di comunicazione dovrebbe essere innanzitutto la chiesa, ispirandosi al modello comunicativo del Logos. Al di là degli estremi opposti ed entrambi perversi dell’unità monolitica del passato e della dispersione del presente, questo dovrebbe impegnare i cattolici a ritrovare una sintonia non malgrado le differenze, ma grazie a esse, come in ogni buona armonia musicale. La frammentazione oggi imperante a livello teologico e pastorale è la negazione del Cristo che è venuto a ricapitolare tutte le cose in unità, e di cui la chiesa è il corpo – immagine anch’essa evocante unità nella diversità. È lo sfondo teologico del Logos che può dare il suo senso ultimo anche all’attuale cammino sinodale, troppo spesso concepito come un processo solo funzionale a uno scambio di esperienze e di vedute, e di cui invece la prospettiva che abbiamo cercato di indicare potrebbe rivelare il significato più profondo. Questa visione esige, piuttosto, una valorizzazione della comunicazione come quel «mettere in comune» che fa nascere la comunione e che non è un mezzo, ma il fine della pastorale. «Communicatio facit domun et civitatem», scrive Tommaso riprendendo Aristotele. «La comunicazione fa nascere la comunità familiare e quella politica». E, potremmo aggiungere, anche quella ecclesiale.

In questa prospettiva, che potremmo chiamare «conviviale»,[8] anche l’iniziativa pastorale di maggiore successo, avulsa da un contesto comunicativo che la coinvolga in un progetto comunitario più ampio, è in realtà un fallimento. Mentre, al contrario, quale che ne sia il risultato immediato, uno sforzo pensato e realizzato in uno stile cooperativo rende presente il Logos nella sua chiesa.

Il Logos nella missione

Alla luce del Logos, anche la dimensione missionaria può essere vista in una luce nuova. La sua crisi attuale deriva dalla falsa alternativa tra una concezione del passato, che la giustificava contrapponendo la verità del vangelo agli errori delle religioni e delle filosofie maturate al di fuori di esso, e quella che si è sempre più fatta strada – rimettendo in discussione l’idea stessa di missionarietà –, secondo cui, annunciando Cristo a chi è al di fuori della chiesa si rischia di compiere un atto di violenza. Da dove la tendenza a rinunziare non solo alla missione «ad gentes», ma anche a quella, sempre più urgente, nei confronti delle società di antica tradizione cristiana oggi quasi interamente secolarizzate. Se si prende atto che dei «semi del Logos» sono presenti in tutte le visioni religiose e filosofiche, si può valorizzare l’anima di verità che si trova in ognuna di esse e da cui anche i cristiani hanno molto da imparare, senza per questo vedere svuotato l’impegno di annunziare colui che è la pienezza di questo Logos fatto carne, non negando la prospettiva altrui, ma aprendole orizzonti nuovi, in cui trovare il proprio compimento. Può trovare qui il suo fondamento il dialogo interreligioso, concepito come ascolto reciproco fondato su un comune ascolto del Logos, che a ciascuno parla attraverso le voci degli altri interlocutori. In questa logica, ogni messaggio religioso può essere valorizzato senza che per questo il cristiano debba rinunziare a credere che questo Logos si è fatto uomo, in modo unico e irripetibile, nella persona di Gesù Cristo.

In questa luce, peraltro, non solo le religioni, ma tutte le espressioni filosofiche, scientifiche, artistiche dello spirito umano, in quanto contengono i «semina Verbi», non possono essere sottoposte al rigido «letto di Procuste» dell’alternativa «vero-falso», ma devono essere viste come aspetti diversi di una Parola troppo ricca per essere racchiusa in un unico punto di vista e bisognosa, perciò, di essere «detta» in molti modi diversi. Ancora una volta, però, ciò non rende vana la consapevolezza del cristiano che questa Parola si è rivelata più pienamente nella storia biblica della salvezza e l’urgenza di portarne la «buona notizia» a chi ne partecipa solo un riflesso. Nella disponibilità, peraltro, ad accogliere il messaggio che da questo riflesso può venire, in un atteggiamento dialogico di rispettoso ascolto. Anche sotto il profilo missionario, come sotto quello pastorale, lo sfondo teologico del Logos come Parola può integrarsi con quello del Logos come unione dei diversi. Il senso del dialogo di cui si è parlato, infatti, è il superamento della perversa alternativa fra intolleranza fanatica e relativismo. Non si tratta di annullare le differenze fra le varie tradizioni religiose e, più in generale, fra le interpretazioni della realtà e della vita, ma di valorizzarle nella loro diversità in rapporto a un unico comune cammino verso il Mistero, attraverso il confronto e l’arricchimento reciproco. Questo in alcuni casi potrà comportare una conversione da parte di persone che scoprano nel vangelo di Gesù il pieno compimento dei germi di verità insiti nella propria religiosità o nelle proprie convinzioni umane. Oppure accadrà che il dialogo confermi ciascuno nella sua prospettiva, arricchendola però comunque di nuovi elementi, offerti da quella altrui. Anche in questo secondo caso, evidentemente, la missionarietà conserva, per il cristiano, la propria funzione, visto che egli sa di partire da una esperienza privilegiata del Logos, presente, ma meno compitamente, anche nelle altre concezioni. Il Logos non è solo l’ispiratore della missionarietà del cristiano, ma anche il contenuto del messaggio che egli è chiamato ad annunciare. Oggi più che mai. Abbiamo visto che la crisi della comunicazione all’interno della chiesa è legata a una frammentazione che colpisce la società e le stesse persone nella loro unità profonda. Oggi si registra in Occidente una fuga verso forme di spiritualità di matrice orientale che cercano superare l’individualismo e il singolarismo attraverso l’annullamento delle identità, considerate di per sé stesse causa di divisione e di sofferenza. Una pastorale missionaria dovrebbe evidenziare, al di là di uno stanco ritualismo, che le immense risorse spirituali insite nella tradizione cristiana offrono una via diversa per superare l’egocentrismo e la logica della sopraffazione reciproca, una via fondata non sulla vanificazione delle differenze bensì su un modo di intendere la comunicazione che consenta la loro comunione feconda. Ma non è questa, ovviamente, la sede per sviluppare questo tema.

Non abbiamo certo la pretesa che queste riflessioni risolvano il problema da cui siamo partiti, quello della frammentazione nella chiesa e nella società. Ma il nostro intento era di mostrare come la tradizione teologica cristiana contenga elementi che possono essere preziosi nello sforzo di superarla. La rivelazione del Logos è uno di questi.

Tratto da Orientamenti Pastorali n. 12/2023 (tutti i diritti riservati)

[1]Tommaso d’Aquino, In Ioannis Evangelium I, lect.4 (Marietti n.118).

[2] Giustino, Apologia secunda pro christianis, 8,1.

[3]Ivi, 4, 2-4.

[4]Ivi, 13.

[5]Ad Gentes, n.11.

[6]Giovanni Paolo II, «Ai membri della Pontificia commissione biblica, 26 aprile 1979», in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II (1979), p. 982.

[7] Cf. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, traduzione di P. Rinaudo, edizione italiana a cura di G.E. Rusconi, Il Mulino, Bologna 1986.

[8] Cr. G. Savagnone, Comunicazione oltre il mito e l’utopia. Pe runa cultura conviviale, Edizioni Paoline, Milano 1997.