Testo di G. Ruggeri (Meditazione nelle Lodi)

Professore di Teologia pastorale e digitale all’Istituto Teologico di Pordenone

Facoltà Teologica del Triveneto – itapn.it

 

 

«O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte». (Is 55, 1)

 

Senza prete residente. Una frase che ci accompagna in questa settimana del COP qui a Lucca edizione 2023. Una frase carica di tanti significati, una frase che va interpretata con fine saggezza e intelligenza pragmatica. La seconda frase che intreccia le relazioni, le nostre riflessioni e i nostri pensieri è piccoli centri.

Senza e piccoli. Due modi di affrontare la vita, come laici e come preti insieme. Due criteri per riconoscere l’agire di Dio in ciò che è senza e in ciò che è piccolo.

Il profeta Isaia apre i lavori di questa seconda giornata dicendoci, senza giri di parole, che quegli assetati siamo noi. Essere assetati in profondità ma senza sentire il bisogno della sete di Dio perché questa è mitigata dalle fontanelle che sgorgano h24-7/7 dai nostri cellulari, dandoci l’illusione di dissetarci a qualcosa di vago e neutro nell’immediato.

Venite, dice il profeta. I piccoli centri, invece, vedono andare via mese dopo mese, anno dopo anno presenze significative, servizi utili, relazioni vitali. Vescovi e parroci dicono ai fedeli dei piccoli centri: venite nella parrocchia vicina per la celebrazione della Messa, mentre i sindaci dei piccoli centri dicono agli stranieri: venite e acquistate ad 1 euro la casa del borgo.

Ed è qui, credo, uno degli snodi e dei nodi della teologia pastorale nella Chiesa che è in Italia e che interpella anche il servizio prezioso del COP: riprendere ago e filo per rammendare relazioni dove Cristo è già presente, perché non lo porta il parroco non residente e ambulante. La storia attuale presenta il conto di una teologia pastorale italiana che ha fondato il suo essere, e con essa la prassi nelle comunità, in una progettazione accelerata di attivismo, specchio di decenni economici che rincorrevano il benessere attraverso il motto più produco, più vendo e più sono contento. E il parroco, da parte sua declinava: più fedeli, più fede, più Dio. Ma lo scontrino della storia, oggi dice tutta un’altra cosa.

Oggi il profeta Isaia ci sbatte in faccia quella parola nuda e cruda: senza.

La Chiesa delle parrocchie italiane al tempo del sinodo è senza più di quei tanti punti di forza che hanno caratterizzato la stagione ecclesiale dei decenni passati: poco serve elencare i numerosi senza perché sono visibili anche ai ciechi, mi limito al termine pastorale: senza più una incisività come Chiesa nelle scelte quotidiane e importanti delle persone, limitandosi – quando va bene – alle attività elencate nel foglietto parrocchiale.

Nelle mie parole, e tanto meno nei miei pensieri, non vi è alcuna rassegnazione, né tanto meno desolazione (tipica del nemico, questa, ignazianamente parlando).

Nei giorni scorsi, concludendo il corso di teologia pastorale sulla sinodalità all’Istituto Teologico di Pordenone, dicevo agli studenti di fine triennio prossimi all’ordinazione diaconale: “Alle parrocchie e ai parroci dove sarete inviati dal Vescovo come cappellani parlerete con la vostra testimonianza feriale prima ancora che con le prime trepidanti omelie che farete. La gente vi misurerà in umanità; il 30 e lode che avete nel libretto a poco serve se non immerso nella carne del vissuto delle persone che incontrerete lì come sono e non come voi vorreste. La pastorale vi verrà incontro nelle pieghe e nelle piaghe della vita feriale dove il buon Dio vi sta aspettando fuori dalla canonica e al di là della soglia del sagrato”.

Ci fa bene, dunque, sentirci dire come Chiesa al tempo del sinodo che non abbiamo più denaro, ovvero come comunità che celebrano riti reiterati non abbiamo più valore incisivo nelle persone e nella società. Ed è qui l’astuzia del profeta alla Chiesa, a ciascuno di noi: proprio perché sei senza hai buone possibilità per ritornare alla tua essenza.

Quell’indicazione bergogliana dell’avviare processi va declinata secondo una pluralità di forme, di stili, di concretezza che non ha più, come in passato, una indicazione da Roma (la Cei) né dalla Curia (il Vescovo). Bergoglio, con stile tipico della Compagnia di Gesù, non uniforma la prassi, ma diversifica le esperienze. Il vino e il latte di oggi sono la sete di relazioni alla pari, di relazioni di ciccia, di guardarci in faccia e sentirci umani prima ancora che referenti di ruoli.

dirci buongiorno, come va, di cosa hai bisogno, che progetti hai, perché tutto questo è anestetizzato dalla città curva sugli schermi: sempre più social e sempre più soli.

Nel piccolo centro non c’è il parroco residente, ma il profeta Isaia ci dice che c’è quel vino e quel latte nella presenza di donne e uomini che, per la prima volta, sono la generazione di una pastorale capovolta: non dal parroco alla gente, ma da persona a persona dove anche prete, diacono, seminarista saranno, gioco forza, i primi ad essere assetati di vita fraterna con la gente, in quell’espressione del profeta «o voi tutti», essendo stati depotenziati dalla storia nel loro ruolo.

La scorsa settimana partecipando all’aggiornamento annuale delle diocesi del nord Italia per coloro che lavorano nella formazione permanente del clero, ritrovandoci a Seveso, negli scambi a tavola, tra un piatto e l’altro, ognuno condivideva il boccone amaro – nella propria diocesi – dell’abbondono del ministero di giovani preti con 1 e mezzo di ordinazione, o di qualche anno in più. Facile sparare contro il Seminario e i suoi formatori, senza chiedersi: ma io che cosa ho fatto per lui?

L’attuale teologia del ministero ordinato impatta, senza mediazione alcuna, con un’antropologia che fa del motto Dio-a-modo-mio il suo riferimento. Le categorie teologiche che fondano il ministero ordinato, come quella di popolo di Dio, alla gente che fa la spesa al supermercato non dicono nulla perché la privatizzazione della religiosità ha silenziato tali categorie. Dalle aule di teologia serve aprire sentieri trasfusionali dove anche il quartiere di una grande parrocchia di città può fare esperienza di relazioni dei piccoli centri. Fuggire in montagna per ritrovare pace e silenzio, merci rare queste, ci farebbe diventare tutti fuggiaschi permanenti.

È la relazione nell’avvio di buone pratiche casalinghe da condominio a condominio, da via a via, da balcone a balcone che attiverà esperienze di vita dove il vangelo e Cristo non sono i primi ad arrivare (leggi il proselitismo denunciato da Francesco), ma semmai arrivano per confortare, consolare, rafforzare con la testimonianza e la narrazione che ciascuno saprà fare, con semplicità. E il Dio che abita questi luoghi, bisognosi di uscire dall’anonimato, è il Dio dalle numerose confessioni religiose provenienti da tutto il mondo dove i nostri nipoti crescono, ritrovandosi nel banco vicino nella scuola del quartiere.

La croce di Cristo, per noi cristiani, è presente nella chiesa della grande parrocchia di città, come nella cappella del piccolo centro. Al parroco residente e a quello non residente è chiesto di aprire il tabernacolo e lasciare che il Signore esca e cammini per le strade con i passi dei giovani papà e delle giovani mamme delle generazione Dio-a-modo-mio, dei nonni e delle nonne del Dio-di-una-volta, dell’impiegato e dell’operaio del Dio-ognuno-il-suo ma per dirsi tutti insieme reciprocamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri per ritrovare il profumo dell’umano e il gusto della fraternità spicciola, prima ancora che sia un’alluvione a imporlo.

I piccoli paesi spopolati, perciò, non sono solo quelli geografici, ma nell’inedita antropologia sono anche, e soprattutto, i grandi quartieri spopolati di prossimità. Alla domanda del sottotitolo di questo convegno la risposta sarà affermativa se ripartiamo, da qui, con un’inedita sensibilità ecclesiale, teologia inclusa, e vedendo nei tanti senza che la storia ci sta consegnando una benedizione, una ricchezza, un’opportunità.