Domenico Sigalini – presidente del COP

Il punto di osservazione da cui mi colloco è quello dell’esperienza che mi ha offerto la molteplice attività svolta nell’Azione Cattolica, l’esperienza decennale a servizio delle chiese locali alla Conferenza Episcopale Italiana e l’osservatorio speciale che è la rivista Orientamenti Pastorali del COP. Il punto di vista da cui ci poniamo è il rapporto tra vescovo e diocesi, tra autorità e obbedienza, come purtroppo sempre si pensa, invece tra padre e figli in una sinodalità, oltre che naturale, anche spirituale e sacramentale, non tra uno che dirige e altri che gli obbediscono, ma tra chi serve e chi cresce vicendevolmente.

La sinodalità parte da lontano

Osserviamo un vescovo che inizia il suo servizio pastorale in una diocesi. Come è nata la sua missione? Un vescovo in genere nasce da una consultazione allargata, riservata e ponderata, portata alla conoscenza del papa, poi comunicata e proclamata. Già a questo punto occorrerebbe, con tutta la grande riservatezza che è necessaria per la persona, avere un maggior coinvolgimento del popolo di Dio, anche se è sempre meglio mantenere il massimo di riservatezza e libertà da parte del papa di decidere. Ricordo che per il mio avvicendamento all’Azione Cattolica papa Francesco ha consultato almeno due volte, in sette lunghi mesi, il Consiglio permanente della CEI, che a sua volta ha consultato le conferenze regionali. La sinodalità è in genere il primo problema che si pone un vescovo quando entra in diocesi: appena eletto riceve la visita ufficiale di un gruppo di persone, talora solo di presbiteri, spesso anche di laici del consiglio pastorale, da cui viene informato dello stato della Chiesa che è chiamato a presiedere nella comunione con il papa. Quando giunge nella nuova diocesi, trova un collegio di consultori, presbiteri rappresentanti del presbiterio e da loro eletti, trova un gruppo di persone responsabili dell’economia, che deve accettare. Sono fatti di grande portata simbolica, oltre che effettiva, che già collocano in una prospettiva interessante il nuovo vescovo, quasi a dire: «Tu sei stato chiamato dal papa a svolgere il tuo servizio di comunione in questa diocesi, ma ricordati che la Chiesa in cui sei chiamato a fare il pastore è precedente a te e continuerà anche dopo di te. Lì ci sono persone, credenti, uomini e donne, famiglie e aggregazioni, che sono chiamati da Dio a passarsi ogni giorno, ogni generazione, il testimone della fede. Tu vai a tenere viva la apostolicità della Chiesa e a continuare la presenza di Gesù pastore, ma sappi che la Chiesa diocesana che vai a presiedere ha una sua continuità con le generazioni che l’hanno preceduta, proprio perché è la comunità di Cristo presieduta lungo i secoli dai successori degli apostoli. Tu arrivi e passi; la comunità rimane se sarai capace sempre di rinnovare e rigenerare la loro fede. Essa è stata forgiata dalla Parola ascoltata e vissuta, è stata guadagnata alla fede dal sangue di Cristo e di tanti martiri che ti hanno preceduto; in essa lavora lo Spirito Santo che testimonia la fecondità e mantiene operante la presenza del Risorto. È tuo compito dare voce a tutte le espressioni di ascolto e di conformazione a Cristo che lo Spirito già sta facendo crescere e sta da sempre delineando. Non sei né sopra, né fuori da questo popolo, ma con esso a fare da guida per tutti loro, per tutti gli uomini del territorio in cui vive la tua Chiesa particolare e del mondo intero. A fare da guida ti devi far aiutare da una esperienza di popolo, di condivisione della sua vita. Papa Francesco direbbe: devi avere addosso l’odore delle pecore. L’ascolto delle persone, dei presbiteri, della vita intera ti è necessario come l’ascolto della parola di Dio».

La sinodalità non è una strategia, ma un dono di Dio alla Chiesa

Si potrebbe pensare che avere persone che si fanno carico col vescovo della vita della Chiesa sia una strategia intelligente per ottenere di più, per avere più forza, per essere più efficienti. Non è sempre vero dal punto di vista dei risultati o della speditezza del lavoro. Si può dimostrare che in alcuni casi una conduzione manageriale sia più produttiva, ma la Chiesa non è una azienda, è prima di tutto una comunione, e comunione significa che è più importante accogliere e servire questa nuova relazione tra doni, carismi, vocazioni che Dio regala alla Chiesa che organizzare sforzi umani per tenere assieme una comunità impossibile. Significa soprattutto che, non essendo opera di concertazione attorno a chissà quale tavolo, ma «sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità», la si serve con la contemplazione prima che con l’azione, con la preghiera, con la pressante invocazione allo Spirito, con la docile attenzione alle sue ispirazioni. È frutto insomma di una paziente opera formativa, ed è in questa direzione che si deve sbilanciare l’azione di un vescovo, prima che determinare strategie, pur necessarie, di consultazione, convocazione, proposta e nomina.

Ci si mette quindi in punta di piedi nel solco dell’aiutarci a vicenda a fare in modo che la comunità maturi a una fede adulta e pensata, come base necessaria per una assunzione di corresponsabilità, che non sarà quindi alla fine l’improbabile risultato di un necessario richiamo a un dovere, ma l’invocazione e la conformazione a una grazia di Dio. Il soggetto che chiede e cresce e accoglie è la comunità cristiana. Non si pone fuori da sé, non fa un altro servizio oltre a quelli che già offre, non sta affinando il marketing, ma sta dicendo di sé, si vuole ridefinire, convertire e di conseguenza offrire a tutti in novità di vita.

L’operazione da compiere è centrale per la vita di una comunità cristiana; non stiamo parlando di superfluo, di aleatorio, di secondario. Si tratta di far crescere una coscienza cristiana che configura una esistenza cristiana di comunione. Creare la mentalità della sinodalità non significa tenere legate delle persone con appartenenze sociologiche, con tradizioni, con abitudini, anche buone e gratificanti, con automatismi, ma volere, a partire da noi, decidere di noi e della nostra vita secondo il vangelo, perché tutti coloro che ci incontrano decidano di sé e della loro vita secondo il vangelo.

Si tratta di prenderci in carico some soggetti, che vivono in condizioni di debolezza e fragilità, che fanno fatica a ritrovare in Gesù, nel vangelo, ogni giorno, il riferimento, il legame costituito che presiede a guida l’esperienza umana verso una comunione nuova e profonda. La fede o è centrale per la vita dell’uomo o non è fede. La fede è centro polarizzante della coscienza.

L’uomo e la donna che noi siamo e che incontriamo, è un uomo e una donna che fa esperienza della sua incompiutezza, che nasce segnato dal desiderio di compimento. La formazione alla comunione cui ci applichiamo non è solo un compito dovuto alla solita «nequizie dei tempi», frutto di una constatazione di impotenza dovuta alla confusione culturale, all’egoismo imperante, ma è una necessità, una invocazione scritta nello statuto antropologico dell’umanità. È una sete che viene dal profondo della coscienza, ed è a questo livello che va affrontata.

Le forme di sinodalità

Sinodalità nella missione e nel primo annuncio

Mi piace partire da una scelta generale che deve stare davanti a tutto; può rischiare di essere vista solo come una strategia, invece ne è l’anima. Faccio riferimento, per farmi capire, a un caso concreto. Se voglio proporre all’insieme delle parrocchie di una cittadina un minimo di unità pastorale, almeno quindi nella progettazione, devo necessariamente rifarmi alla missione della Chiesa. Infatti ogni gruppo di fedeli, con a capo i presbiteri, ha un suo modo di pensare la parrocchia: ha la sua messa, le sue processioni, i suoi riti e tradizioni popolari, i tempi ormai consacrati dall’uso. Alla mia domanda: quanti giovani partecipano a tutto questo? Silenzio. Quante delle persone che non fanno parte del nostro giro partecipano a tutte le nostre proposte? Altro silenzio. È giusto che noi possiamo offrire anche ai giovani e a tutte queste persone la bellezza della vita di fede? Come no! Ma i giovani hanno altri modi di vivere, altri tempi, altre domande cui rispondere. La gente che non passa più dalla nostra chiesa ha altri ritmi, che non i nostri. Se vogliamo aprire loro le porte della comunità occorrerebbe fare una proposta in un’altra direzione. Se su questo si è abbastanza d’accordo, comincia allora la comunione, si può pensare di fare qualcosa assieme agli altri, alle altre parrocchie. Della serie: la comunione è la prima condizione della missione per diventarne anche lo scopo stesso, se è comunione con Dio e con i fratelli. Ne deriva che una forte mentalità missionaria spesso motiva passi di comunione e attiva sinodalità molto più che sedute infinite di analisi pastorale. Lo stesso emerge tutte le volte che si parla di primo annuncio, cioè di quella necessaria proposta di fede, quasi ex novo, che si deve fare a molti ex credenti che si aprono di nuovo alla vita cristiana e che vengono aiutati a compiere i primi passi, proprio a partire da relazioni umane ricche e quotidiane con i credenti. E questa sinodalità «naturale» non ha bisogno di nessun mandato: essa è un dono e un compito di ogni battezzato, di ogni credente che si apre alla sequela di Gesù, che assume nella sua vita la stessa missione di Gesù. È guardando alla sete di Dio che c’è nella gente che scatta la forza della comunione, la sinodalità del percorso e la scelta della corresponsabilità.

Sinodalità con i presbiteri: il consiglio presbiterale

La prima sinodalità da promuovere è quella tra il vescovo e i presbiteri. Questo percorso comune è definito anche da alcuni canoni, per certi atti di governo è necessario, per tutti è auspicato. La tensione spirituale che oggi ci si trova a dover provocare è l’humus su cui si sviluppa la condivisione dei doveri di missione e di guida del popolo cristiano: la comunione tra i presbiteri e dei presbiteri col vescovo. Esistono in Italia molte diocesi piccole, a misura d’uomo, dove il vescovo conosce singolarmente ogni prete, li incontra mediamente ogni mese, ha la possibilità e dà l’opportunità di avere contatto diretto telefonico, senza passare da appuntamenti faticosi e spesso incomprensibili in curia, conosce i familiari. Tale comunione, che è sempre dono di Dio, occorre però che abbia lo stesso gradimento che si ha per tutti i doni che ci vengono fatti. Infatti il nostro gradimento e apprezzamento del dono della comunione è proporzionale al desiderio di essa. L’assoluta estraneità di un dono al nostro desiderio renderebbe assolutamente irrilevante e indifferente il dono stesso. Si tratta allora certamente di pregare e invocare comunione, ma anche di mettere in atto momenti che la fanno desiderare, la rendono aspettativa umana comune. Tali aspettative esistono, occorre portarle a coscienza. Gesù ha invocato la comunione coi suoi proprio nell’imminenza dell’abbandono, quando il desiderio umano di compagnia era drammaticamente invocato e atteso. In molte diocesi la presenza di presbiteri di etnie, nazioni, culture diverse rende ancora più necessario costruire un consiglio presbiterale in cui si sperimenta veramente desiderio di rapporto, di complementarietà, di costruzione di campi semantici comuni, di rispetto e stima vicendevoli. Da qui si accende il desiderio e la presa in carico di un percorso comune di una sinodalità che sembra solo l’accordo su iniziative concrete, ma che è profondamente dono di comunione, e per questo molto più profondo e veritativo. La partecipazione del presbiterio è necessaria per il governo della diocesi. Non è assoluta, né la sola, ma è un momento fondamentale di espressione della continuità ecclesiale della diocesi. Sinodalità a partire dal consiglio presbiterale significa moltiplicare attraverso di esso i dialoghi tra i preti, l’approfondimento di tematiche fatte seriamente e tenute in conto come nei famosi circuli minores del sinodo della Chiesa universale. Le vicarie possono essere questi circuli minores che si assumono responsabilità di ricerca, di sperimentazione, di confronto con l’opinione pubblica. Il salto di qualità che deve fare il consiglio presbiterale è quello di tutte le forme di consultazione, di rinnovare il suo rapporto con la base che lo ha eletto, corresponsabilizzando tutti i preti al suo compito di dialogo, decisione, proposta al suo vescovo, e nello stesso tempo il vescovo deve stabilire un rapporto con il consiglio presbiterale che non lo faccia diventare un filtro con tutto il clero.

Sinodalità con l’intero popolo di Dio: il consiglio pastorale

Ma se vogliamo attuare a fondo il concilio dobbiamo assolutamente operare un salto di qualità nella assunzione di sinodalità col mondo dei laici e della loro corresponsabilità.

La sensazione che si coglie è che in Italia esistano moltissime forze laicali di evangelizzazione, generose, geniali, ripensate anche in termini ecclesiali corretti, di cui la Chiesa non si accorge, che però sembrano avere le ali tarpate, e da non si sa che cosa. Sono movimenti e associazioni di evangelizzazione, laici collegati a religiosi e religiose, scuole cattoliche rinnovate, forti e radicate tradizioni popolari, centri di studio e riflessione culturale, editrici cattoliche, insegnanti laici di religione, capillari strumenti di comunicazione di massa, impianti potenti di pagine web in internet…e, non ultimi, ma decisivi, molti laici non aggregati che fanno della loro vita quotidiana un atto di lode a Dio e una testimonianza anche eroica di fatti di vangelo. Il territorio è un pullulare di gruppi laicali che offrono spazi di preghiera, di ascolto del vangelo, di voglia di vangelo. La ricchezza delle energie di nuova evangelizzazione in Italia è molto alta. Se fossero collocate in un paese di missione, verrebbe da dire, farebbero miracoli. Ma l’Italia è paese di missione, sia per i cattolici di vecchia tradizione, sia per gli immigrati che premono alle porte delle nostre chiese. Come mai non è possibile offrire a tutti la consapevolezza e il sostegno di lavorare entro l’unico regno di Dio che trova nella Chiesa il segno e sacramento dell’intima unione con Dio e degli uomini tra loro? Perché non si avverte un soprassalto di forza evangelizzatrice nelle nostre parrocchie? È chiusura in se stessi? È palingenesi che qualcuno si arroga perché crede di aver trovato lui solo la soluzione? È paura del nuovo? È timore da parte del clero o della organizzazione ecclesiastica di perdere il controllo non tanto veritativo, ma pastorale? Certo, gli strumenti oggi a disposizione per creare sinodalità entro un progetto di missione, e non entro un coordinamento o una organizzazione che cerca l’efficienza, non sono molto adatti a far scattare consapevolezza di comunione e dignità di corresponsabilità. Le varie consulte non sempre sono spazi di vera sinodalità. Forse il desiderio di coinvolgere tutti spesso burocratizza. Credo che una strada percorribile sia quella di offrire progetti concreti di servizio, di evangelizzazione, di primo annuncio, cui le forze disponibili diano il loro contributo libero, intelligente e specifico. Lavorare per progetti entro un continuo confronto ‒ che fa crescere assieme ‒ e un piano pastorale, che abbiano un inizio, una fine e una seria verifica, aiuta di più la sinodalità di quanto possano fare le grandi convocazioni di tutti a celebrare opinioni che non diventano mai realtà. Lo stesso consiglio pastorale, assise necessaria per creare anche una opinione e conoscenza di tutti, raramente diventa luogo in cui ciascuno diventa costruttore di verità, accoglienza e ricercatore di essa e disponibile al principio di autorità, luogo dove acquisire spazi di corresponsabilità entro un progetto pastorale. Non abbiamo ancora trovato formule che vadano oltre una sorta di democrazia pseudo parlamentare. Il modello vissuto e difeso strenuamente dal papa è un esempio formidabile che ci deve continuamente mettere in discussione. Qui non si tratta di democraticismo, ma di assunzione di responsabilità di guida non prima di aver fatto crescere la comunità in un cammino comune.

Sinodalità nella conduzione della amministrazione delle risorse e per investire in formazione e cultura

Spesso ancora la gente ritiene che la Chiesa sia una banca o una azienda da sfruttare per far soldi o per fare contratti favorevoli alla propria attività lavorativa. Questo dipende sicuramente dal ruolo sociale che essa può aver svolto lungo i secoli, con le sue proprietà, i benefici, i possedimenti, le mezzadrie. Oggi, anche grazie al complesso di leggi che ha attribuito agli istituti di sostentamento del clero molte delle proprietà della Chiesa, si è fatta un po’ di distinzione tra curia diocesana e amministrazione dei beni dell’istituto. Al riguardo, sarebbe anche molto utile che l’Istituto per il sostentamento del clero non avesse sede negli ambienti della curia, proprio per fare una netta distinzione tra la conduzione dei beni e le attività di pastorale, come è appunto in realtà.

Resta però il fatto che l’amministrazione delle attività della Chiesa sia ritenuta di competenza solo dei preti, o addirittura solo degli incaricati di curia, sia nella conduzione che nel reperimento di risorse necessarie per le nuove urgenze della pastorale, a partire dalla spese necessarie per la formazione, la preparazione degli operatori pastorali, le sperimentazioni nella catechesi, l’educazione dei giovani, la proposta di esperienze di forte spiritualità, la costituzione di associazioni, le scuole cattoliche, l’assistenza, per la comunicazione e la cultura.

La ricerca di percorso comune, di proposte molteplici messe al vaglio della autorità, di coinvolgimento responsabile nella conduzione della vita concreta della Chiesa a partire dalla carità e dalla cura delle strutture di servizio, diventa il banco di prova di una effettiva sinodalità, sia da parte di chi fa la proposta, sia da parte di chi ne è oggetto. A questo riguardo i laici sono molto attenti e sono in grado di mettere a disposizione le competenze specifiche della loro professione. Il coinvolgimento dei singoli e delle associazioni di categoria permette non solo di appianare problemi economici, ma soprattutto di inscrivere nelle stesse competenze il messaggio del vangelo e un modo nuovo di vivere la professionalità anche nelle aziende private.

Molte istituzioni educative, come scuole o centri giovanili hanno chiuso proprio per la mancanza di coinvolgimento di laici nella loro conduzione, di mancanza di un cammino di crescita comune. Il finanziamento alle scuole cattoliche in Italia non è ancora passato nella mentalità della gente, perché è una questione di cambiamento di mentalità: la sinodalità è una forma molto efficace per arrivare a questo, altrimenti sarà sempre ritenuto un privilegio. Associazioni di famiglie sarebbero molto contente di poter contribuire con la loro intelligenza e passione educativa a creare spazi nuovi, cristianamente ispirati, per l’educazione dei figli. Occorre lavoro paziente, continuo scavo nelle vere motivazioni che sono tutte rapportate alla scelta missionaria della Chiesa, sostegno e guida, e anche la capacità di correre qualche rischio. La sinodalità ne è capace, e per la corresponsabilità ne vale la pena.

Una nuova sinodalità allargata: la collaborazione col territorio

Non rientra forse nei nostri canoni ma, è evidente che oggi di fronte alle domande di un territorio che diventa spesso selvaggio, o per lo meno abbandonato dalle politiche sociali, la Chiesa si senta non autosufficiente nel vivere la sua stessa missione e abbia bisogno di collaborare con le istituzioni civili per il bene vero delle persone. Rischiamo, per esempio, nella nostra attività catechistica di stendere veline di nozioni cristiane su voragini di umanità, perché i ragazzi che frequentano la parrocchia provengono da situazioni familiari e sociali in cui è assente un minimo di umanità. Nessuno è autosufficiente, per esempio, nel campo della educazione dei figli, del rispetto della vita, della attenzione al povero, della attenzione alla famiglia. È certo che ciascuno deve fare la sua parte, e che la Chiesa deve sempre annunciare Gesù Cristo, ma ci si può ben mettere assieme a tutti gli uomini di buona volontà attivando responsabilità e vivendo momenti comuni di impegno. La sinodalità con il territorio potrebbe mettere in campo una costituente educativa necessaria per i giovani, un luogo cioè in cui tutti coloro che hanno a che fare coi giovani offrano le loro disponibilità per il bene di tutti, entro progetti e proposte di grande spessore culturale e spirituale. È un altro concetto di sinodalità, ma è utilissimo per farla diventare modo di vivere comune anche nella Chiesa.

Conclusione

Una diocesi così, a mio avviso ‒ e lo provo sulla mia pelle ‒, sarebbe già una piccola realizzazione del sogno di papa Francesco di decentramento dei poteri dalla curia vaticana, sempre molto utile, ma estremamente lontana dalla vita della gente, soprattutto dalla cultura del popolo o dei popoli. E potrebbe essere anche aiutata a ridefinirsi nella sua specializzazione: non nell’entrare nei fatti piccoli e concreti destabilizzando anche le buone prassi ‒ perché non ha gli occhiali giusti per vedere, e nemmeno i metodi giusti per intervenire ‒, ma nell’affrontare i problemi con un orizzonte vasto, mondiale, sui bisogni dell’umanità.

 

Tratto dal n. 12/2015 di Orientamenti Pastorali. Tutti i diritti riservati