Domenico Sigalini- presidente del COP

Mi immagino due uomini che stanno in attesa: una sentinella e un becchino. Una sentinella ha lo sguardo vigile, aspetta, scruta, è proteso a qualcosa che può capitare, di cui deve rispondere a qualcuno. È attento a tutto, sa che c’è una pandemia che lo imprigiona, ma si difende da tutto, non abbocca a facili avvicinamenti. A lui è affidata la salvezza della sua famiglia, la protezione di un gruppo, il controllo di un evento ed è pronto a tutto. Il suo futuro è mantenere coscienza e libertà. Aspetta il futuro per condividere ancora con tutti vita e compagnia, per andare oltre la solitudine laboriosa che lo ha visto attento tutta notte. Si è allenato a star sveglio, conosce le insidie delle ultime ore prima dell’alba, è scaltro.

Il becchino invece aspetta che arrivi la bara, ha preparato tutto, ha preso le misure, s’è fatto aiutare dagli amici, ha fatto le prove, ha scavato la buca, ed il suo futuro è riempirla. Attende solo per sotterrare. Non aspetta nessun mattino, anzi preferisce lavorare di notte, così nessuno lo vede.

Chi siamo noi rispetto alla vita? Siamo sentinelle o becchini? Abbiamo un futuro da aprire o una buca da riempire? Questa pandemia, questo abitare in zone rosse ci fa sentinelle o becchini? Abbiamo smesso di sperare? Siamo scaltri, guardinghi o disperati e fatalisti? Siamo legati, ma non immobili; siamo confinati, ma non congelati; abbiamo sempre un cuore, un ideale, un amore, una generosità, un altruismo, una speranza, una professione, una saggezza e una esperienza che ci può aiutare a mettere in circolo attesa e non disperazione.

Attendere un compimento, una completezza è la caratteristica più comune della nostra vita umana. Siamo crepacci assetati di infinito, inquietudini in attesa di appagamento, terre assetate, in attesa di una sorgente, notti che attendono l’alba, nebbie che invocano il sole. Attendono i genitori la crescita e l’esplosione della vita dei figli, attendono i prigionieri la libertà, attende il giovane la persona cui donare il suo amore, attende il bambino il ritorno della mamma e del papà, attendono gli esuli e i profughi di tornare in patria. Sulle carrette del mare, vittime dei predoni di speranza, si attende l’approdo per una vita almeno possibile; nei letti dell’ospedale si cerca di intuire nei tratti del volto del medico una soddisfazione, almeno di non vederlo rassegnato; attende giustizia chi si vede continuamente defraudato dei suoi diritti; attende un salario più giusto chi lavora; si aspetta gratitudine e compagnia l’anziano che ha speso la vita per i suoi; è in attesa di una giusta pensione chi ha lavorato una vita… Siamo proiettati verso qualcosa che ci viene incontro e non siamo felici finché non è avvenuto il contatto. Sappiamo che le nostre attese non si portano dentro la risposta piena, non c’è niente che ci appaga definitivamente.

Ogni attesa ne ha in grembo un’altra, ogni desiderio è stato fatto per scavarne un altro; ogni aspettativa ne nasconde una successiva. E la nostra vita si snoda di attesa in attesa. Quando sarà compiuta l’attesa? È il supplizio senza fine di Tantalo, assetato e affamato, che vede giungere alla sua bocca l’acqua e il cibo e allontanarsene appena prima di toccargli le labbra in un eterno continuo inganno oppure c’è qualcuno che appaga i nostri desideri? Perché nel nostro cuore è inscritta una attesa inappagabile? Perché, arrivati a un orizzonte, se ne aprono davanti sempre di nuovi, raggiunti i quali se ne aprono ancora?

“Siamo fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te!”. L’attesa non sarà mai una delusione o un inganno se saprà veramente orientarsi al nuovo, al sorprendente;  il compimento non è una botola su un tombino, una pietra per chiudere una buca, ma una nuova apertura della vita. Chi attende veramente è pronto a lasciarsi sorprendere, a predisporsi a una nuova configurazione di sé. Se il papà o la mamma aspettassero il loro figlio come un ingranaggio di una loro ruota già predeterminata e finita, lo soffocherebbero. Ma se lo aspettano come una sorpresa, come un dono, ribalta loro l’esistenza. Tutte le nostre più belle attese non ci hanno appagato, ma ci hanno ribaltato, ci hanno aiutato a dare alla nostra vita un’altra prospettiva, proprio perché le abbiamo accolte come un dono, come una vita. Anche i cimiteri sono pieni di loculi che attendono di essere colmati. Ma lì ci metteranno cadaveri. Noi spesso nella vita attendiamo come i loculi. Incaselliamo le persone, le vicende, le professioni, le speranze per cambiare tutto in delusioni, oggetti, scheletri.

Ci sarà nella vita qualche altro modo di attendere? Come si può attendere Dio? Come Erode con la spada per ucciderlo? Come il potere per combatterlo, come il miscredente per metterlo alla prova o come Maria che ha messo a disposizione tutto: vita, pensieri, affetti, progetti, sogni, amore?

Noi cristiani in questi giorni iniziamo l’Avvento. Non è una operazione commerciale, non abbiamo neanche il pericolo quest’anno di farci scippare il Natale dal commercio, che pure non ci scandalizza, ma vogliamo mantenere fermo il senso della nostra attesa, del nostro futuro, che è sicuramente più bello delle nostre previsioni, così l’Avvento ci prepara alla vita nuova che ci porta Gesù.

Vivere l’Avvento è allenarsi ad aspettare il nuovo, a bruciare i vecchi cassetti in cui collocheremo anche quest’anno Gesù; è mettersi di fronte all’imprevedibile e costringere la ragione, la vita, le cose, i nostri programmi, i piccoli e grandi progetti a lasciarsi ribaltare. Come fa l’amore, del resto. Ridiciamoci che crediamo, che ci affidiamo a una verità sempre nuova e che continuamente aspettiamo. Non lasciamoci rubare dalla pandemia la nostra attesa, perché si trasformi sempre in una speranza.