Olimpia Tarzia, bioeticista, Presidente del Movimento PER (Politica Etica Responsabilità)

Nell’attuale situazione problematica e preoccupante dal punto di vista sanitario a causa dell’emergenza Covid, il Ministro della salute non trova di meglio che occuparsi dello sdoganamento dell’aborto fai da te, sulla pelle dei bambini e delle donne e attraverso una direttiva annuncia nuove linee guida per l’uso della RU 486 in day hospital senza obbligo di ricovero. Un aborto a domicilio, insomma, in barba alla stessa, ingiusta, legge 194 e fino a 9 settimane dal concepimento, senza alcun controllo medico. Una decisione che, oltre che, naturalmente, sopprimere una piccola vita umana, lascerà la donna ancora più sola di fronte ad una gravidanza inattesa o indesiderata, esponendola oltretutto a gravi rischi per la sua salute fisica e psichica.

La motivazione addotta? «L’interruzione della gravidanza sarà così indolore, semplice, sicura»! Indolore? L’espulsione avviene a seguito di dolorosissime contrazioni indotte dalla sostanza. Semplice? La donna abortisce da sola nel bagno di casa e ha sotto gli occhi la conseguenza del suo gesto: un feto a nove settimane è già formato, con mani e dita, gambe, braccia, occhi, orecchie, bocca. Tutti i principali organi interni, compresi cuore, polmoni, reni, ed intestino, sono già nella loro posizione e si stanno sviluppando, come pure i muscoli. Il cuore è già diviso in quattro cavità. Da sapere che per l’espulsione possono volerci settimane e non si sa quando si verifica.

Sicura? L’aborto chirurgico è 10 volte meno pericoloso: l’insorgenza di gravi emorragie a seguito della RU486 non è affatto infrequente.

Perché allora questo accanimento contro la vita e contro le donne? Un ticket da pagare al furore ideologico delle veterofemministe? O «solo» ignoranza dell’evidenza scientifica?

In un caso o nell’altro è inaccettabile.

Per comprendere meglio come si sia arrivati a questo punto è necessario ripercorrere il nefasto cammino della RU486 e fare chiarezza per squarciare il fitto velo di equivoci, di menzogne e di inganni che la ha accompagnata, come sempre ha accompagnato gli ultimi terribili attacchi alla vita da parte di una certa ideologia utilitaristica,  fortemente presente nel nostro Paese, abile a presentare devastanti derive etiche ed umane come battaglie di civiltà. Tra il 2006 e il 2007 la RU486 già si utilizzava in alcune regioni previo acquisto della sostanza all’estero (Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Puglia, per un totale di 2161 casi) alcune già con protocollo day hospital. L’allora ministro della salute, Francesco Storace, ne fermò l’iter a seguito del caso di una donna che, assunta la prima pillola nell’ospedale S. Anna di Torino, fu mandata a casa per proseguire l’aborto e stava lasciandoci la pelle per emorragia.

Come agisce l’RU486

Innanzitutto, cos’è l’RU 486? La sigla deriva dall’etichettazione della molecola 38486 (sintetizzata dal chimico George Teutsch, direttore di ricerca della Roussel Uclaf) unito al nome della ditta francese produttrice, la stessa Roussel Uclaf.

Vanno subito chiariti gli aspetti terminologici: non è un farmaco, visto che, nella lingua italiana e nella terminologia medico-scientifica, «un farmaco può essere utilizzato o somministrato allo scopo di ripristinare, correggere, modificare funzioni fisiologiche», insomma, anche nel sentire comune, un farmaco, normalmente, si assume per curare patologie: oggettivamente non è il caso dell’RU486. Inoltre, la gravidanza non è una malattia e il figlio non è un virus. Dobbiamo dunque chiamarla col suo nome: una sostanza chimica che ha come scopo, dichiarato e diretto, la soppressione di un essere umano. La sua somministrazione, (posticipata dal ministro Speranza fino a nove settimane, provoca infatti un aborto. Tecnicamente è un contragestativo, cioè esplica la sua azione abortiva quando l’embrione è già annidato in utero. Non va confusa, dunque, con la pillola del giorno dopo (che, come sappiamo, è da anni in vendita nelle farmacie) che è un intercettivo, cioè intercetta l’embrione per distruggerlo nel suo percorso lungo la tuba verso l’utero.

È evidente, comunque, che entrambi, RU486 e pillola del giorno dopo, sono strumenti di morte e per quel bambino l’effetto è identico: non potrà mai nascere! La modalità di azione dell’RU486 è perversa perché studia la logica della vita per trasformarla in logica di morte.

Sappiamo che sin dal concepimento esiste un dialogo, di natura biochimica e ormonale, tra madre e figlio; è grazie a quel dialogo che, appena concepiti, pur avendo un DNA diverso, non siamo stati aggrediti e distrutti dal sistema immunitario materno; è ancora grazie a quel dialogo che al momento dell’annidamento in utero siamo stati guidati verso il sito più adatto e accogliente. Questo dialogo è fitto e costante durante tutta la gravidanza. In particolare, nelle prime settimane, anziché atrofizzarsi, il corpo luteo (che si forma nell’ovaio in seguito alla rottura del follicolo che ha liberato l’ovulo) si conserva e si ingrandisce grazie a un ormone, la gonadotropina corionica umana (HCG), secreto dalla placenta del bambino. Il corpo luteo, in risposta, produce il progesterone, ormone che sostiene e protegge la gravidanza. Tale ormone, però, per attivarsi e svolgere la sua funzione, ha bisogno di fissarsi a dei recettori materni situati nella parete dell’utero materno. Per comprenderne meglio il meccanismo possiamo immaginare le molecole del progesterone come delle chiavi che, per funzionare, devono introdursi in altrettante serrature, rappresentate dai recettori materni. L’RU486 «simula» di essere il progesterone, con la differenza che è molto più veloce e affine ai recettori materni, cosicché, quando il progesterone del bambino raggiunge le serrature, le trova già tutte occupate dalle «finte» chiavi dell’RU486. La conseguenza è il crollo del livello del progesterone, tale da provocare l’aborto.

RU486: un trauma terribile

La verità è che l’aborto chimico non è affatto meno traumatico dell’aborto chirurgico e cercherò di seguito, di portare le ragioni a fondamento di questa affermazione.

Per comprendere meglio dov’è l’ennesimo inganno di chi diffonde queste affermazioni è necessario un approfondimento. Sia la più autorevole rivista medica NEJM, New England Journal of Medicine, che il  New York Times, hanno pubblicato numerosi articoli e inchieste relativamente ai pesanti effetti collaterali della pillola abortiva: le morti da aborto chimico  sono 1 su 100.000, rispetto a quelle per aborto chirurgico registrate nello stesso periodo della gravidanza: 0,1 su 100.000. Una mortalità dieci volte maggiore, quindi, nel caso della pillola abortiva. Ventinove donne nel mondo sono morte a seguito di somministrazione della RU486, forse per i suoi sostenitori non sono ancora abbastanza. Il dato è contenuto nella relazione che l’azienda produttrice della pillola, la Exelgyn, inviò al ministero della salute, il quale a sua volta lo inoltrò al comitato tecnico-scientifico dell’Aifa. Quest’ultimo, come sappiamo, si espresse favorevolmente sulla commercializzazione della RU486… Le morti sono causate dall’infezione da Clostridium sordelli, un batterio che agisce senza dare particolari sintomi premonitori.

Dai suoi fautori l’aborto tramite RU486 viene definito meno traumatico dell’aborto chirurgico (qualcuno lo definisce aborto dolce ….! Una triste consonanza con la dolce morte….) ma non è affatto così. Infatti, a parte i già menzionati rischi per la salute fisica e la vita stessa della donna, sul piano psichico si è rivelata devastante. La modalità di azione è la seguente: la donna assume una pillola di mifepristone (l’RU486) che, bloccando il progesterone, uccide il feto in grembo. Dopo 48 ore assume la seconda pillola, il misoprostol (Cytotec, farmaco normalmente utilizzato per patologie gastriche), che provoca contrazioni molto dolorose (servono gli antidolorifici) tese ad espellere, attraverso abbondanti emorragie, il feto morto.

Parliamoci chiaro: chi afferma che tutto ciò non è traumatico, o non sa di cosa sta parlando o è ideologicamente accecato.

Nell’aborto chirurgico la donna delega, appunto al chirurgo, l’intervento sul suo bambino, spesso è in anestesia totale; ben diverso dall’essere lei stessa protagonista della morte del proprio figlio, ingoiando due pillole che sa essere mortali per il suo bambino, (ma spesso non sa essere dolorosissime e pericolose per se stessa): è proprio lei  che ne procura direttamente la distruzione e la sperimenta sulla propria pelle. Vive l’aborto in diretta, sapendo di averlo procurato con le sue stesse mani. Semplici conoscenze di psicologia elementare evidenziano che questo, dal punto di vista di «elaborazione del lutto», rappresenta un trauma terrificante.

RU486 e violazione della legge 194/78

La decisione del ministro Speranza è in piena violazione della 194, ove si legge chiaramente che al consultorio la donna deve ricevere informazioni attraverso un colloquio teso a rimuovere le cause che la inducono al ricorso all’aborto. In base alla legge 405/’75 istitutiva, i consultori non sono un poliambulatorio, né tanto meno un presidio sanitario!

Già nel 2017 alla regione Lazio fermai un tentativo simile: con un’interrogazione urgente a risposta immediata chiamai il presidente Zingaretti in aula a rispondere della sua decisione di istituire un tavolo per avviare la distribuzione dell’RU486 nei consultori. La maggioranza tentò a lungo di procrastinarne la messa all’ordine del giorno del Consiglio, finché, convincendo l’intera minoranza attraverso la distribuzione di un’accurata documentazione scientificamente e antropologicamente fondata, in capigruppo dichiarai che avremmo fermato i lavori del Consiglio se non si fosse calendarizzata l’interrogazione. Funzionò e in aula Zingaretti dovette fare marcia indietro.

Bisogna dunque accendere un faro su quanto si sta facendo nell’ombra di un agosto impegnato sull’emergenza Covid. Bisogna agire sui presidenti di regione, sui parlamentari, sul governo affinché non si dia seguito a questa scellerata scelta, dettata da ignoranza e ideologia.

E non perché siamo cattolici, ma perché rispettiamo la vita, la scienza, le donne.

La realtà è che l’RU486 si è rivelata sin da subito una pratica non solo di «aborto fai-da-te», chiunque, comunque e dovunque, ma anche di «regione fai-da-te», con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi e non c’è dubbio che l’uso della RU486 presenta diversi punti di incompatibilità con la legge 194/78, che ha legalizzato l’aborto in Italia. Nell’analizzarne i numerosi termini di conflitto, non possiamo però mai dimenticare l’oggettiva, profonda iniquità di tale legge, poiché è sottile, ma reale, il rischio che, evidenziando gli aspetti violativi della norma nell’uso della pillola abortiva, surrettiziamente avalliamo la bontà della legge, che, invece, non possiamo mai smettere di contrastare.

La richiesta di «ricovero ordinario» dell’allora ministro del welfare, Sacconi, all’Aifa, a conclusione dell’indagine conoscitiva avviata dalla Commissione sanità del Senato, ricevette una pilatesca risposta; l’Aifa, infatti, facendosi scudo delle sue competenze «limitate al regime di fornitura/modalità di dispensazione del farmaco» rimandò «alle autorità competenti l’emanazione dei provvedimenti applicativi o specificativi» per garantire «il pieno rispetto della legge 194 nonché l’osservanza sul territorio delle modalità». Di fatto venne rimandato alle regioni «le disposizioni per il corretto percorso di utilizzo clinico del farmaco». Sorge spontanea una domanda: ma non dovrebbe essere proprio l’Aifa, organismo pubblico, ad esercitare, tramite monitoraggi continui, attività di farmaco-vigilanza? E come pensa di svolgere questo compito, visto che lo ha scaricato  alle regioni?

Le affermazioni dell’Aifa insomma non diedero rassicurazioni riguardo al fatto che l’intero iter abortivo fosse ospedaliero, in quanto non fu previsto regime di ricovero ordinario e si comprese subito che, ineluttabilmente, le esigenze economiche delle strutture sanitarie avrebbero  condizionato non poco le procedure: nella prassi alla donna, dopo l’assunzione della prima pillola,  veniva già comunque proposto di firmare un foglio di dimissioni e andarsene a casa, senza ricorrere a un ricovero in ospedale, (che potrebbe durare dai tre ai quindici giorni). In piena violazione  della legge 194.

La legge 194 prevede infatti che l’intero iter abortivo si svolga in ospedale, l’RU486 va esattamente nella direzione opposta: è stata infatti pensata proprio per abortire a casa, senza il ricovero ospedaliero. Nel 2004 in Francia è stato autorizzato l’uso privato della pillola abortiva, acquistabile in farmacia, senza dunque obbligo di ricovero ospedaliero.  Primo passo verso il destino per cui la pillola è stata voluta.

Chi ha voluto la 194 affermava che la finalità (rivelatasi poi assolutamente fallita) era sottrarre l’aborto alla clandestinità, renderlo un problema sociale, addirittura a carico del Servizio sanitario nazionale. Non ancora soddisfatti delle menzogne propinate durante la campagna referendaria sulla fecondazione artificiale, i fautori dell’aborto «fai-da-te» continuando a mentire, affermando che l’RU486 è per la donna meno traumatica dell’aborto chirurgico, hanno aperto di fatto la strada a una nuova clandestinità: la donna abortisce nella clandestinità più atroce: nel bagno di casa. Da sola.

Nella sua profonda ipocrisia, comunque, la 194 specifica che la donna prima di abortire si sottoporrà ad un colloquio «teso a rimuovere le cause che la inducono al ricorso all’aborto» e che verrà invitata a ripensarci per una settimana. Ovvio che questo pur flebile tentativo non è contemplato con l’RU486.

Una vera emergenza educativa

Ripercorrendo l’inarrestabile cammino della RU486 nel mondo, sono, penso, evidenti, oltre che gli aspetti ideologici, le logiche di lucro sottostanti. Sulla pelle dei più deboli: il bambino e la donna, la quale, tra l’altro, è costretta a firmare un foglio di consenso informato per cui, qualora l’aborto chimico non riuscisse (accade nell’8% dei casi per l’assunzione della pillola entro i primi 49 giorni e sale fino al 23% nei successivi 14 giorni) è costretta a sottoporsi obbligatoriamente all’aborto chirurgico. In pratica, per evitare rischi di denunce per nascite di bambini malformati, non le è consentito cambiare idea. E ancora, nessuno dei suoi fautori sembra ricordare che, negli anni Ottanta, si svolse un congresso internazionale dei movimenti femministi per la salute della donna, nel quale fu elaborato un documento in cui si condannava l’utilizzo di sostanze chimiche a scopo abortivo. In nome della tutela della salute della donna.  Che è successo alle femministe? Accecate dall’ideologia hanno dimenticato la salute della donna? In realtà io penso che molte di loro non l’abbiano mai avuta veramente a cuore, perché è un dato inoppugnabile che nell’aborto le vittime sono sempre due: il bimbo e la mamma. (e certo, quando c’è, anche il papà).

Probabilmente questo cammino di morte proseguirà ancora prima di poter essere materialmente arrestato, ma credo che molto potremo fare attraverso la diffusione di informazioni chiare e corrette, di assoluto rigore scientifico, attraverso la formazione e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, risvegliando le coscienze di tutte le persone intellettualmente oneste.

Ogni anno nel mondo si effettuano 53 milioni di aborti: ovvero ogni anno abbiamo annualmente un numero di vittime pari a quelle provocate dall’intera Seconda guerra mondiale. In Europa sono annualmente circa 1 milione e duecentomila le vittime di aborto, in Italia circa 150.000 l’anno (da quando è stata approvata la legge 194, cinque milioni: pari a circa l’intera popolazione residente nel Lazio), nel Lazio ogni anno sono circa 16.000, di cui 15.000 a Roma. Non è un elenco di cifre: dietro ogni numero c’è un bambino, una bambina cui è stato impedito di nascere, una donna che porterà per sempre una tristezza nel cuore, una società che ha smarrito lo spirito di umanità e il senso della solidarietà verso i suoi figli più deboli e più fragili…

Non avrebbe più senso, non sarebbe più umano tentare di fermare questa strage? Con politiche di effettiva tutela sociale della maternità, di sostegno alla famiglia, di vere pari opportunità a nascere e a vivere, anziché, deresponsabilizzandosi, gettare tutto il peso sulla donna e, ancor peggio, di fronte alla sua richiesta di aiuto, mandarla a casa con una pillola assassina in tasca, lasciandola ancora più drammaticamente sola? Penso dovremmo spostare il dibattito da «aborto chirurgico o chimico?» a «come fermare il dramma dell’aborto?». È evidente, infatti, che il problema, oltre che nascondere risvolti ideologici ed economici, investe profondamente gli aspetti culturali, educativi e, fondamentalmente, la questione antropologica. Perché è chiaro che tutte le azioni umane, in ambito giuridico, economico, sociale, culturale e politico scaturiscono da una precisa visione antropologica, da una precisa domanda: chi è l’uomo?

Il valore della sua vita, la sua incommensurabile dignità, possono essere assoggettati a opinioni mutabili nel tempo, a logiche utilitariste, a temporanee maggioranze politiche o rappresentano realmente principi non negoziabili, per tutti, perché profondamente umani e scaturiti dal diritto naturale? Anche questa è emergenza educativa.

«Ci alzeremo in piedi» (Giovanni Paolo II)

Molti avranno letto o sentito dire che viene presentata come la migliore risposta per superare il dramma dell’aborto chirurgico e, soprattutto, che quasi tutti i Paesi «civili» ne consentono l’uso e invece l’Italia, come sempre su questi temi, viene appellata come arretrata, retrograda, integralista, intollerante, medioevale, vaticanista… ( ho scordato qualche epiteto?).

Sulla questione civiltà, bisognerebbe confrontarsi più seriamente su cosa veramente siano civiltà e progresso: siamo immersi in una cultura dominante laicista, che offende la dignità umana, banalizza la sessualità e usa le sue strategie e i suoi attacchi più forti proprio dove la vita umana è più debole, alle sue frontiere: all’alba e al tramonto, alla vita prenatale e alla vita terminale, attacchi sferrati congiuntamente alla vita e alla famiglia. Mai come in questi ultimi anni, infatti, la questione etica del diritto alla vita e della difesa e promozione della famiglia fondata sul matrimonio sembrano essere al centro del dibattito culturale e politico di molti Paesi. In realtà è un dibattito solo apparente, perché culturalmente domina un laicismo assolutista e intollerante, che non ammette di essere contrastato e rifiuta il dialogo, accusando i cattolici di imporre la loro visione, la loro morale a chi cattolico non è.

Si invoca lo «Stato laico», dimenticando che uno Stato laico affonda le proprie radici nei diritti umani, primo tra tutti il diritto alla vita; dimenticando che il riconoscimento della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio non è un’opinione della Chiesa, ma, oltre che appartenere alla legge morale naturale, un’affermazione presente in molte costituzioni, in quella italiana esplicitata all’art.29. Tale diritto, quando ad esempio trattiamo temi come la difesa della vita e della famiglia, in questa nostra epoca viene spesso negato dal laicismo imperante cui facevo prima riferimento, dal quale anzi è spesso considerato una sorta di «fissazione» dei cattolici, in cui viene, per gentile concessione, permesso di credere, purché privatamente, all’interno delle segrete stanze dei conventi.

Ma sono convinta che la questione etica e antropologica del diritto alla vita vada affrontata con serenità ma con determinazione e chiarezza. Il progresso scientifico e tecnologico rispetto ai nuovi scenari, non assume il giusto significato se non si pone al centro l’uomo, la persona umana. A volte ho l’impressione che tra i cattolici vi sia una sorta di «complesso di inferiorità culturale». A volte sembra che le accuse, immancabili, di essere «oscurantisti, medioevali, talebani» che ci vengono rivolte quando parliamo in difesa del diritto alla vita, abbiano sortito il loro effetto intimidatorio. A chi ci accusa di essere antidemocratici perché imporremmo la nostra morale a uno stato laico, bisogna avere il coraggio di rispondere che il diritto alla vita non ha e non deve avere colore né religioso né politico.

Il piccolo bambino concepito non è un «fatto politico» non è un’«invenzione della Chiesa»: è un figlio! Il più piccolo, il più debole, il più indifeso figlio della comunità umana. Ciò premesso, il «popolo della vita», come Giovanni Paolo II ci chiama nell’Evangeli vitae, è chiamato però a una testimonianza più forte. Come rassegnarsi di fronte ai 53 milioni di aborti all’anno nel mondo? Chi, se non il popolo della vita, potrà essere la voce di chi non ha voce, del più piccolo dei nostri fratelli, che, nei Paesi in cui è permesso, rischia di essere vivisezionato, gettato in uno scarico, buttato in un lavandino se, malauguratamente «non perfetto», considerato non degno di vivere, in quanto la sua «qualità di vita» sarebbe inaccettabile?

Mi piace qui ricordare una grande donna: Madre Teresa di Calcutta, la quale, nel ricevere il Premio Nobel per la pace, nel suo discorso a tutti i governanti del mondo, affermò «Quale pace se non salviamo ogni vita? L’aborto è la più grande minaccia alla pace nel mondo, perché se permettiamo ad una madre di uccidere il proprio figlio, chi potrà impedire me e te dal farlo reciprocamente?». I santi hanno sempre le idee chiare, costruiscono le vere civiltà, quelle che non crollano, perché basate sull’amore.

Ecco, questa è la civiltà in cui mi riconosco. Questa è la civiltà che milioni di persone, milioni di donne sperano per i propri figli.