Maurizio Ambrosini – professore ordinario di scienze sociali e politiche, sociologia dell’ambiente e del territorio, Università degli studi di Milano

La percezione di un’immigrazione montante e drammatica è stata per anni un dato di senso comune così potente e comunemente accettato da non essere mai posto in discussione. Lo stesso accade per il rapporto tra immigrazione e povertà. E pochi osano avanzare dubbi nei confronti dell’inossidabile slogan «aiutiamoli a casa loro». In realtà anche chi vorrebbe stare dalla parte degli immigrati o almeno assumere una posizione equilibrata accetta l’inquadramento del fenomeno fornito da un senso comune largamente ostile. Il primo passo per un approccio serio alla questione consiste invece nel conoscere qualche dato fondamentale e interpretarlo adeguatamente.

1. Identificare gli immigrati: una questione non banale

L’immigrazione è antica come l’umanità, ma in epoca moderna è stata definita e regolata in rapporto al concetto di nazione e all’istituzione degli Stati nazionali. La costruzione delle identità nazionali si è basata sull’idea di comunità omogenee, solidali al loro interno e racchiuse entro confini ben definiti. Gli immigrati internazionali hanno sempre rappresentato un inciampo rispetto ai progetti di formazione di società coese sotto l’insegna della bandiera nazionale: sono stranieri, portatori generalmente di lingue e abitudini diverse da quelle localmente prevalenti, che vengono a insediarsi sul territorio della nazione.[1] A partire da questa premessa, possiamo introdurre il concetto di immigrato così come viene definito dall’ONU: una persona che si è spostata in un Paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel Paese da più di un anno. La definizione include tre elementi: l’attraversamento di un confine nazionale; lo spostamento in un altro Paese, a diverso da quello in cui il soggetto è nato o ha vissuto abitualmente nel periodo precedente il trasferimento; una permanenza prolungata nel nuovo Paese, fissata convenzionalmente in almeno un anno. Intende chiarire così che l’immigrato non è un turista, un partecipante a un congresso di pochi giorni, un operatore commerciale che accede a una fiera o viaggia per incontrare dei clienti. Nella vita quotidiana però la definizione assume una declinazione operativa sensibilmente diversa.  Di fatto noi definiamo come «immigrati» solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro Paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma pure statunitensi, giapponesi e coreani, anche quando ricadono nella definizione convenzionale di immigrato prima riportata. Raramente si contesta a un cittadino statunitense o giapponese il diritto di entrare, uscire e circolare nel nostro Paese. Gli si consente senza troppi problemi di portare con sé la propria famiglia. Anche il riconoscimento dei suoi titoli di studio, benché non proprio agevole, gode di un trattamento preferenziale rispetto a quello a cui sono sottoposti i titoli in possesso dei cittadini di Paesi più deboli. Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico (non appartenenti all’Unione europea), diventato invece sinonimo di «immigrati», con conseguenze paradossali: non si applica agli statunitensi, ma molti continuano a usarlo per i rumeni.  Di fatto, il termine ha recuperato la sua valenza etimologica: noi chiamiamo extracomunitari coloro che non fanno parte della nostra comunità intesa in senso lato, di cittadini del nord del mondo: della nostra comunità di benestanti, se la vediamo in una prospettiva globale. Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi soltanto gli stranieri provenienti da Paesi che classifichiamo come poveri, mai quelli originari di Paesi sviluppati. Il concetto contiene quindi un’implicita valenza peggiorativa: in quanto poveri, questi stranieri sono minacciosi, perché potrebbero volerci portare via qualcosa, oppure sono bisognosi di assistenza, e quindi suscettibili di rappresentare un carico per la nazione; e comunque sono considerati meno evoluti e civilizzati di noi.  Detto in altri termini: chiamiamo immigrazione la mobilità umana che percepiamo come problematica. C’è infatti un’interessante eccezione: si riferisce ai cittadini di Paesi di per sé classificabili come luoghi di emigrazione, ossia poveri e arretrati, ma individualmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte, o quanto meno negli affari.  Pensiamo per esempio ai calciatori delle nostre squadre di serie A e B. Neanche a essi si applica l’etichetta di «immigrati»: il loro successo li ha affrancati da quella condizione di povertà che si associa intrinsecamente alla nozione di immigrato. Come ha detto qualcuno, «la ricchezza sbianca». Il calciatore africano o l’uomo d’affari medio-orientale non allarma particolarmente le società riceventi, e anche le sue eventuali diversità, religiose o alimentari, sono ampiamente tollerate. La stessa rappresentazione della diversità, e della sua eventuale minaccia per l’identità culturale della società ricevente, non sembra coinvolgere i benestanti. Possiamo quindi affermare che l’impiego del concetto di immigrato allude alla percezione di una doppia alterità: una nazionalità straniera e una condizione di povertà. Generalmente, quando un individuo o un gruppo riesce a liberarsi di uno di questi due stigmi, cessa di essere considerato un immigrato.

 2. Siamo invasi dai rifugiati?

La guerra in Siria e Iraq ha costretto alla fuga circa cinque milioni di profughi. Solo una modesta minoranza secondo i dati dell’UNHCR,[2] mediamente i più attrezzati e selezionati, arrivano in Europa, ma questo è bastato a scatenare paure e rifiuti. Il numero dei migranti forzati nel mondo, nonostante la pandemia, ha toccato nel 2020 un nuovo picco, con 82,4 milioni di persone scacciate dalle loro case. Contrariamente a un diffuso senso comune, il 48% dei rifugiati sono donne, e il 42% hanno meno di 18 anni (mentre i minorenni rappresentano il 30% circa della popolazione mondiale).[3]  La maggioranza dei rifugiati (48 milioni) sono per la precisione sfollati interni (in inglese IDP: Internally Displaced People), ossia persone che hanno cercato rifugio in un’altra regione del proprio Paese.  I rifugiati internazionali hanno raggiunto la cifra di 26,4 milioni. Ebbene, di questi l’86% è accolto in Paesi in via di sviluppo o intermedi, per lo più quelli confinanti (73%). Popolazioni molto fragili sono in qualche modo accolte in contesti altrettanto fragili, se non ancora più precari di quello da cui sono fuggite. Nell’UE ne arriva sì e no il 10%. In proporzione agli abitanti, il Libano accoglie 128 rifugiati ogni 1.000 abitanti, esclusi i palestinesi, la Giordania 69, la Turchia 43. Nell’UE troviamo al primo posto la Svezia con 25. La Germania si colloca a quota 14, l’Italia in realtà rimane sotto la media, con 3,5. L’elasticità della percezione di accogliere troppi rifugiati è confermata da quanto sta avvenendo in queste settimane: una generosa mobilitazione a favore dei profughi ucraini, senza che nessuno, almeno finora, abbia posto il problema dei numeri e degli eventuali costi da sostenere. È diventata lampante una distinzione tra guerra e guerra, tra profughi e profughi. Provenienza, colore della pelle, religione, risonanza mediatica, hanno prodotto un rovesciamento, questa volta in positivo, degli atteggiamenti della pubblica opinione e delle autorità. Non sappiamo però fino a quando. Considerazioni analoghe valgono per l’immigrazione in generale: il discorso pubblico ripete ogni giorno che siamo di fronte a un fenomeno gigantesco, in tumultuoso aumento, che proverrebbe principalmente dall’Africa e dal Medio Oriente e sarebbe composto soprattutto da maschi mussulmani. I dati disponibili ci dicono invece che l’immigrazione in Italia dopo anni di crescita è sostanzialmente stazionaria, poco sopra i 5 milioni di residenti regolari, a cui va aggiunta una stima di circa 600.000 presenze irregolari.[4] Gli immigrati sono arrivati per lavoro in un primo tempo, poi per ricongiungimento familiare, con circa un milione di minori e 2,4 milioni di occupati regolari. Pochissimi per asilo, va ribadito: meno del 7% del totale. Come se non bastasse, le statistiche dicono che l’immigrazione in Italia è prevalentemente europea, femminile e proveniente da Paesi di tradizione cristiana. La crisi economica sta condizionando le strategie dei migranti, e in modo particolare i nuovi arrivi. Mentre per circa trent’anni il mercato ha assorbito manodopera immigrata, obbligando governi di ogni colore a varare ben sette sanatorie in 25 anni, ora il sistema economico sta comunicando il messaggio che nella fase attuale non ha bisogno di nuovi lavoratori. Persino i ricongiungimenti familiari risentono dell’avversa congiuntura economica e le stesse nascite da genitori immigrati sono calate negli ultimi anni: erano 80.000 nel 2012, sono scese a 59.000 nel 2020. L’immigrazione in Italia nel suo complesso negli ultimi dieci anni ha cercato di resistere alla crisi economica e di mantenere per quanto possibile l’insediamento costruito negli anni precedenti. Solo ora, con la ripresa post-Covid, vede nuove possibilità di occupazione, se la guerra in Ucraina con le sue conseguenze non provocherà nuovi contraccolpi sull’economia. Un problema su cui riflettere è dunque la divaricazione tra realtà e rappresentazione, l’attenzione selettiva verso una sola componente dei processi migratori, quella dei rifugiati (africani e medio-orientali), la confusione tra asilo e immigrazione in generale. Arrivi molto visibili, certo drammatici ma anche drammatizzati, hanno occupato il centro della scena, offuscando le altre componenti, molto più rilevanti, di un universo complesso e sfaccettato come quello delle migrazioni. Il governo italiano per alcuni anni è stato molto attivo nei salvataggi in mare, e le navi della marina militare e della guardia costiera hanno l’indubbio merito di aver salvato migliaia di vite umane, con il contributo di navi equipaggiate da organizzazioni umanitarie, da privati cittadini e dalla marina di altri Paesi: un’attività così notevole da aver innescato le note polemiche sui salvataggi in mare da parte delle ONG. Il punto cruciale consiste invece nelle accresciute difficoltà del passaggio verso Nord, giacché i Paesi dell’Europa centro-settentrionale fanno pressione perché i rifugiati vengano identificati e accolti nei Paesi di primo approdo, anche prelevando forzatamente le impronte digitali presso i cosiddetti hotspot. Gli accordi di redistribuzione faticosamente raggiunti nell’autunno 2015, e non con tutti i Paesi membri dell’Unione europea, sono stati disattesi, con poche migliaia di reinsediamenti, e infine abbandonati. Poi è arrivata la svolta delle politiche governative nell’estate 2017. Il governo italiano, spalleggiato dall’UE, ha messo sotto controllo le attività delle ONG e stretto accordi con lo Stato libico e con le forze locali. Le partenze dalle coste libiche sono diventate più difficili e la guardia costiera intercetta le imbarcazioni costringendo i migranti e richiedenti asilo a tornare indietro. Al riparo dai nostri sguardi, dalle telecamere e dal controllo di organizzazioni umanitarie e testimoni esterni, le persone in cerca di asilo vengono detenute in condizioni che tutte le fonti definiscono disumane. Quello che viene presentato e percepito come un successo nel controllo dell’immigrazione indesiderata è una tragedia dal punto di vista dei diritti umani. Sul territorio italiano, per le persone che una volta arrivate hanno presentato domanda di asilo, la gestione del sistema di protezione ha continuato a oscillare tra l’idea di un’«emergenza» da fronteggiare con interventi straordinari e quella di un fenomeno che va affrontato mediante l’allestimento di un «sistema» organico di accoglienza.[5] Pur con queste precisazioni, l’enfasi sulla necessità di contenere i flussi non è derivata da un’analisi obiettiva dei dati, ma dall’impatto che ha avuto sull’opinione pubblica la visione televisiva dei salvataggi, dei naufragi e degli sbarchi sulle coste delle regioni meridionali. Alcuni attori politici si sono impadroniti dell’argomento, facendone materia di polemica e propaganda. D’altro canto, l’approdo dal mare di persone in cerca di asilo ha tutte le caratteristiche per scatenare le ansie e le preoccupazioni delle società riceventi: si tratta di stranieri che arrivano senza chiedere permesso e senza essere stati invitati, non hanno regolari documenti, e per di più una volta sbarcati chiedono assistenza e non possono essere respinti. Il vulnus nei confronti dell’idea di sovranità nazionale, di controllo dei confini e di sicurezza nei confronti di intrusioni dall’esterno non potrebbe essere più clamoroso. Colpisce tuttavia che l’attuale flusso dall’Ucraina (2,7 milioni di persone nel momento in cui scriviamo, metà marzo 2022) abbia profondamente modificato sia gli atteggiamenti dell’opinione pubblica, sia le politiche europee. L’Unione europea, con una scelta audace e inattesa, ha aperto le porte ai profughi dall’Ucraina in maniera incondizionata. Già potevano entrare senza obbligo di visto, ma solo per soggiorni turistici di durata inferiore ai tre mesi. Ora potranno fermarsi per un anno, prolungabile di altri due, come residenti regolari a tutti gli effetti. Potranno muoversi all’interno dell’UE, saltando i vincoli delle convenzioni di Dublino e le sfibranti discussioni sulle quote-Paese. Saranno abilitati ad accedere al lavoro, all’istruzione, alla sanità, senza filtri o lungaggini.

3. Stiamo per essere sommersi dalla povertà del Terzo Mondo?

Anche l’idea diffusa di un nesso diretto tra povertà e migrazioni è ugualmente approssimativa. Certo, le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa: questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini. Nel complesso però i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: rappresentano all’incirca il 3,6% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 281 milioni su quasi otto miliardi di esseri umani:[6] all’incirca una persona ogni 30. Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra Paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87% nel caso della mobilità dell’Africa sub-sahariana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti. I maggiori Paesi di emigrazione sono nell’ordine India, Messico, Russia, Cina. Nessun Paese africano, nessun Paese poverissimo: Paesi intermedi, e anche in sviluppo. In questo scenario, la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze.[7] Le migrazioni sono processi selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in Paesi lontani, di cui spesso non si conosce neanche la lingua, di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Di conseguenza, la popolazione in Africa potrà anche aumentare, ma senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non arriverà fino alle nostre coste. I migranti, dunque, come regola non provengono dai Paesi più poveri del mondo. Certo, gli immigrati arrivano soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Ma questo miglioramento è appunto comparativo, e ha come base una certa dotazione di risorse. Lo mostra con una certa evidenza uno sguardo all’elenco dei Paesi da cui provengono.  Per l’Italia, la graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania (1.137.000), Marocco (398.000), Albania (381.000), Cina (280.000), Ucraina (223.000).[8] Nessuno di questi è annoverato tra i Paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’indice di sviluppo umano dell’ONU: un complesso di indicatori che comprendono non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitantiPer le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro Paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi. Un caso per certi versi opposto è quello di una categoria di emigranti emersa nel dibattito recente, quella dei rifugiati ambientali. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del sud del mondo. Ora, è senz’altro vero che ci sono nel mondo popolazioni costrette a spostarsi anche per cause ambientali, direttamente indotte come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocate da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque. Ma le migrazioni difficilmente hanno una sola causa, e le crisi ambientali si sommano semmai ad altre cause di fragilità. Inoltre, che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio.[9] È più probabile che i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo Mondo, anziché arrivare in Europa. Va aggiunto che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, in Paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50% dell’occupazione complessiva. Concludendo, vale la pena di ribadire alcuni concetti per intraprendere una seria discussione sulle migrazioni. In primo luogo, non confondere immigrazione e asilo, non mescolare sbarchi e immigrazione. Va ricordato: i richiedenti asilo sono una piccola quota rispetto agli immigrati. Gli immigrati irregolari, i cosiddetti «clandestini» sono perlopiù donne che lavorano presso le famiglie italiane: talmente utili che riusciamo a scordarcene, quando si tratta di verificare la regolarità del soggiorno. Nell’ultima sanatoria (2020), l’85% delle circa 200.000 domande si sono concentrate nel settore domestico-assistenziale, con l’Ucraina in prima posizione tra i Paesi di origine (circa 18.000 domande). Secondo: meglio non parlare di immigrazione in generale, ma di categorie specifiche. Se si segmenta la massa amorfa e temuta dell’immigrazione e si focalizza l’attenzione su gruppi ben individuati, almeno una parte delle ansie tende a sgonfiarsi. È molto più serio discutere di cittadini europei mobili, di studenti, di infermiere, di assistenti familiari dette volgarmente badanti, di investitori, di gente che lavora in occupazioni lasciate scoperte dagli italiani, di familiari ricongiunti, di persone che fuggono da guerre e persecuzioni. Alla fine dell’esercizio, ci si accorgerà che dell’immigrazione incontenibile e temuta resterà ben poco. Da ultimo, se bisogna parlare di rifugiati internazionali, va ricordato sempre il dato ripetuto incessantemente dalle istituzioni che se ne occupano: l’86% trova asilo in Paesi del Terzo Mondo, l’Europa in realtà si difende dai propri impegni umanitari. Almeno lo ha fatto fino alla crisi ucraina, che sta imprimendo una svolta (selettiva) alle politiche di accoglienza.

(Tratto da Orientamenti Pastorali n.3/2022. EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati)

[1] M. Ambrosini, Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza, Vita e Pensiero, Milano 2020.

[2] UNHCR, Global trends. Forced Displacement in 2020, UNHCR, Geneva 2021.

[3] Idem.

[4] Fondazione Ismu, XXVII Rapporto sulle migrazioni 2021. FrancoAngeli, Milano 2021.

[5] C. Marchetti, «Rifugiati e migranti forzati in Italia. Il pendolo tra “emergenza” e “sistema”», in REMHU – Revista Interdisciplinar da Mobilidade Humana, vol. 22, n. 43, 53-70.

[6] IDOS, Immigrazione. Dossier statistico 2021, Roma 2021.

[7] M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni. Il Mulino, Bologna 32020.

[8] IDOS, Immigrazione. Dossier statistico 2021, Roma 2021.

[9] H. De Haas – S. Castles & M.J. Miller, The Age of Migration. International Population Movements in the Modern World, Red Globe Press, London 2020.