Salvatore Ferdinandi – vicario generale della diocesi di Terni-Narni-Amelia, già responsabile del servizio promozione Caritas di Caritas Italiana

Oliviero Forti – responsabile dell’area immigrazione di Caritas italiana

I costanti flussi di migrazione da vari Paesi verso l’Italia fanno sempre più emergere la rilevanza sociale e culturale che può avere la sovrapposizione di differenti valori e codici di comportamento individuali e collettivi. Questo pone con rilevanza la questione della diversità e dell’integrazione, perché l’accoglienza avvenga nella forma più costruttiva possibile e i processi identitari e di integrazione si realizzino a tutti i livelli, per evitare che ci siano o fenomeni di rigetto o forme di ghettiizzazione. Per di più, sono processi che riguardano aspetti sociali, culturali e religiosi insieme, che hanno bisogno di essere seguiti e accompagnati nel tempo, essendo presupposti necessari ad un’azione di evangelizzazione. Attualmente, la situazione sul nostro territorio ci mette di fronte ad una realtà variegata ed in crescente mutamento che ci interpella come realtà civile ed ecclesiale.

1.Identità e diversità culturale: nuovo paradigma per la missione della Chiesa

Fino a qualche tempo fa, cultura era sinonimo di erudizione, di formazione personale progressiva, attraverso una selezione di «certe conoscenze» più o meno specializzate, acquisite mediante lo studio. Si trattava di un concetto individualistico, socialmente selettivo e discriminatorio, con senso di superiorità, in contrasto con il significato antropologico attuale che per cultura intende il modo di vivere di un popolo o di una società; modo di vivere che si tramanda nel tempo in forme particolari all’interno di un gruppo sociale. L’impatto della globalizzazione, vista come un sistematico incontro tra culture prima relativamente distanti, sta avendo un notevole influsso sulla formazione dell’identità personale. Oggi i confini geografici isolano molto di meno le culture rispetto al passato. L’accelerazione del flusso umano da paese a paese e da continente a continente, l’intensa comunicazione via onde radio, via cavo e via satellite, ha ridotto le distanze fisiche e psicologiche tra le persone che abitano il pianeta. Uno degli effetti importanti di questo fenomeno è l’aumentato contatto reciproco per un numero elevato di persone appartenenti a culture diverse. La questione dell’identità culturale è centrale per una società pluralistica nel contesto moderno e post-moderno in cui ci troviamo. In particolare, noi paesi occidentali dobbiamo affrontare nuove sfide nella misura in cui aumenta l’immigrazione di gente del sud del mondo, portatrici di altre culture e forme di religiosità diverse. Parlare di diversità culturale significa parlare di persone e di comunità umane che, per motivi molto diversi, hanno sviluppato particolari modi di vivere che hanno dato un senso alla loro vita, su un piano materiale e spirituale, individuale e collettivo, che però attualmente si trovano sullo stesso territorio. Per cui, la diversità culturale rivela che nessun paradigma culturale può pretendere di essere unico e di saper spiegare totalmente tutta la realtà, perché ogni cultura è una cristallizzazione della grande avventura umana nello spazio e nel tempo. Ci troviamo dunque di fronte alla necessità di un atteggiamento pluralistico nei confronti delle diversità culturali nel mondo di oggi, considerando che non c’è una cultura superiore alle altre, ma più culture da far dialogare, se vogliamo che il nostro pianeta possa diventare un luogo di giustizia e di pace. A questo riguardo, una certa facilitazione ci viene dai processi di globalizzazione e omologazione tra popoli e culture che sono ormai in corso in maniera estesa da alcuni decenni. Per cui, diventa necessario mettere da parte il senso del primato della propria cultura da parte di chi accoglie, perché diventa causa di pregiudizi verso gruppi diversi dal proprio, con conseguenti fenomeni di discriminazione e intolleranza. Come anche è presupposto indispensabile evitare atteggiamenti di chiusura, legati a immagini stereotipate, che attribuiscono un valore negativo a culture e a concezioni di vita diverse dalla nostra, compromettendo ogni possibilità di integrazione, conoscenza e apprezzamento delle diversità. Questo anche riguardo alle varie forme di religiosità delle persone che si inseriscono sul nostro territorio. A questo riguardo, è interessante ricordare le parole che Mahatma Gandhi rivolgeva ai missionari cristiani presenti in India: «È vero che ognuno di noi ha la sua particolare e personale interpretazione di Dio. È necessario che sia così, perché Dio abbraccia non solo la nostra minuscola sfera terrestre, ma milioni e miliardi di analoghe sfere e mondi su mondi. E anche se noi possiamo dire su Dio le stesse parole, non è detto che esse abbiano lo stesso significato. Ma che importanza ha? Se crediamo veramente in Dio non abbiamo bisogno di fare proseliti, né con i nostri discorsi né con i nostri scritti. Possiamo fare qualcosa soltanto con la nostra vita. La nostra vita deve essere un libro aperto, completamente aperto perché tutti la possano leggere. Oh, se soltanto potessi persuadere i miei amici missionari a vedere così la loro missione. Allora non ci sarebbero equivoci, sospetti, invidie né discordie fra di noi nelle faccende religiose, ma solo armonia e pace».

1.1. Incontrarsi nelle differenze senza perdere la propria identità

L’incontro di persone e culture diverse per lingua, formazione e religione, crea una situazione complessa, ma che dovrebbe tendere a dar luogo ad una nuova cultura multidimensionale. Ormai nelle grandi città europee e non, esistono quartieri fortemente caratterizzati in senso etnico e culturale, ed incontrarsi nelle differenze significa prendere contatto con l’altro diverso da sé per esperienza storica, culturale, etnica e religiosa; cercare di comprendere e accettare le nuove esperienze che si prospettano, ma anche mantenere la propria identità e rispettare le altre identità, perché sia possibile un’integrazione dei modelli che non elimini le differenze, ma rispetti le singole identità armonizzandole fra di loro. Un atteggiamento positivo di una società multietnica e multiculturale dovrebbe essere sostenuto primariamente dal riconoscimento e dall’accettazione dell’altro e della sua identità/diversità. Infatti, l’individuo sviluppa il concetto di sé nel corso del processo di socializzazione, cioè nel rapporto con gli altri e con le realtà presenti sul territorio, in modo che possa conoscere ed essere riconosciuto su un piano personale, relazionale, etnico, sociale e religioso.

2. Alcune prospettive per un’educazione all’accoglienza in un’ottica di evangelizzazione

In risposta alle problematiche sopra accennate, la pastorale non ha il compito di costruire particolari strategie «in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi»,[1] come afferma Benedetto XVI nella Deus caritas est. Anzi, subito dopo afferma che chi opera con amore da parte della Chiesa non deve cercare mai di imporre agli altri la fede, perché è «l’amore nella sua purezza e nella sua genuinità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare».[2] Per questo è necessario vigilare ed essere attenti ai rischi sottesi, per evitare possibili derive. Infatti, nei paesi occidentali, in tempi di gravi tensioni internazionali a causa del terrorismo legato al fondamentalismo di matrice islamica, sono essenzialmente due gli atteggiamenti prevalenti nell’opinione pubblica: da un lato una crescente diffidenza verso l’Islam, dall’altro invece il desiderio di conoscere meglio la religione e la cultura islamica, per cercare di conoscere quali sono gli aspetti dottrinali, storici e culturali che rende presente in modo sempre più determinante la religiosità musulmana. In questi anni sono nati molti movimenti, governativi e non, che si stanno impegnando sul fronte internazionale per promuovere il dialogo e la cooperazione politico-economica tra i paesi ricchi e quelli poveri, per favorire l’integrazione delle minoranze provenienti dai paesi in via di sviluppo, secondo uno spirito di tolleranza e accoglienza. È opportuno a questo punto ricordare quali dovrebbero essere gli atteggiamenti da avere come Chiesa nei confronti delle altre confessioni, cristiane e non: un atteggiamento che sia sensibile al rispetto di tutte le tradizioni religiose, ma nello stesso tempo fedele alla nostra identità da custodire gelosamente, consapevoli della sua originalità. Le incomprensioni che talvolta possono nascere con religioni diverse dalla nostra, possono essere risolte solo attraverso un dialogo che abbia come punti fermi il diritto legittimo di ogni individuo a professare il proprio credo nel rispetto reciproco, senza estremismi e fondamentalismi. Per un cattolico i rapporti con le altre confessioni devono essere fondati sulla fratellanza vissuta nel più autentico spirito cristiano, rifiutando però quella mentalità che dal punto di vista dottrinale tende a porre tutte le religioni sullo stesso piano. Lo spirito degli incontri interreligiosi voluti proprio da Giovanni Paolo II, è un esempio per tutti i cattolici di quale debba essere il giusto atteggiamento che dovrebbe animare il nostro rapporto con le altre fedi. Il dialogo e il rispetto reciproco fra le religioni sono una condizione essenziale alla pace. Una pace che, alla luce dei tragici fatti che stanno accadendo nel mondo, è importante preservare ad ogni costo, oggi più che mai. Stiamo assistendo al compiersi di eventi che costituiscono in sé dei segni dei tempi, eventi che non possiamo sottovalutare. I conflitti e le persecuzioni a sfondo religioso che si stanno moltiplicando nel mondo devono farci riflettere sul significato del tempo che stiamo vivendo in una prospettiva escatologica e di coerente testimonianza. Inoltre, è necessario come cattolici accogliere e credere agli appelli di papa Francesco che costantemente invita alla preghiera e al digiuno, come strategie che possono dare un contributo fondamentale per i futuri destini della pace nel mondo, molto più di qualsiasi azione di forza contro il terrorismo.

2.1. L’atteggiamento che un cattolico dovrebbe avere verso le altre religioni

Certamente, le varie tradizioni religiose contengono e offrono elementi di religiosità che procedono da Dio, e che fanno parte di quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni. Ma con la venuta di Gesù Cristo salvatore, Dio ha voluto che la Chiesa da lui fondata fosse lo strumento per la salvezza di tutta l’umanità (cf. At 17,30-31). Questa verità di fede niente toglie al fatto che la Chiesa consideri le religioni del mondo con sincero rispetto, ma nel contempo esclude radicalmente quella mentalità indifferentista «improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra”».[3] La missione della Chiesa anche nel dialogo interreligioso, conserva in pieno, oggi più che mai, la sua validità e necessità. In effetti, «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Coloro che obbediscono alla mozione dello Spirito di verità sono già sul cammino della salvezza e la Chiesa, alla quale questa verità è stata affidata, deve andare incontro al loro desiderio offrendola nelle forme più diverse. In questo senso la Chiesa è missionaria, come sottolinea più volte papa Francesco, e il dialogo, l’uscire da sé, è parte integrante della sua missione evangelizzatrice. Il Catechismo della Chiesa cattolica al n. 843 indica come la Chiesa, e quindi ogni cristiano, deve essere rispettosa delle diverse religioni, alle quali va riconosciuta la ricerca «di un Dio ignoto» ma vicino, «poiché è lui che dà a tutti vita e respiro», pur «nelle ombre e nelle immagini». Pertanto, viene richiesto alla Chiesa di considerare tutto ciò che di buono e di vero si trova nelle religioni, come una preparazione al vangelo.[4] Il primo contributo che noi cristiani dovremmo saper offrire nell’accoglienza dell’altro, portatore delle più diverse esperienze frutto di cultura, storia, religione da cui proviene, è quello di saper condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, in modo che siano anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e quanto è genuinamente umano possa trovare eco nel loro cuore.[5]  Tutto questo evangelizza è fa sì che concretamente la Chiesa si faccia casa e scuola. Lo ricordava Giovanni Paolo II con questa affermazione all’inizio di questo terzo millennio, nel quale il fenomeno della trasmigrazione dei popoli è diventato epocale. «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo».[6] A questo riguardo, il papa dava anche delle precise indicazioni affermando che però sarebbe sbagliato da parte della Chiesa pensare immediatamente di mettere in campo attività organizzative, perché «Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità».[7] Per esplicitare questa articolata affermazione, il Papa subito dopo declinava come intendere la spiritualità della comunione, in quanto azione specifica della Chiesa nei riguardi delle tante persone che, dalle provenienze più diverse, si rendono presenti sui nostri territori. «Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello come “uno che mi appartiene”, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper “fare spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie».[8] La conclusione con cui Giovanni Paolo II terminava queste interessanti indicazioni, è drastica: «Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione».[9]

2.2. Scommettere sulla carità, la miglior forma di evangelizzazione

A partire dal tema della comunione intra-ecclesiale, Giovanni Paolo II nello stesso documento, allargando lo sguardo a tutta la realtà esterna alla Chiesa, invitava a scommettere sulla carità, partendo dalla contemplazione di Cristo, in modo da caratterizzare il servizio pastorale con l’impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano. E’ questo pertanto l’ambito che qualifica in modo decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e la programmazione pastorale della comunità cristiana in rapporto alla società di oggi.[10] Non solo, ma sulla capacità di manifestare condivisione, vicinanza e prossimità, nei riguardi di chi si incontra, di chi ha posizioni diverse o si trova in difficoltà, la Chiesa misura la sua fedeltà di sposa di Cristo.[11] A questo riguardo, un’ulteriore indicazione veniva da Benedetto XVI che, nella lettera apostolica Porta fidei, sottolineava il binomio fede e carità, per una fecondità dell’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo, affermando che «La fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio».[12] Mentre invece «La fede che si rende operosa per mezzo della carità, diventa un nuovo criterio di pensare e di agire, che cambia tutta la vita della persona, sollecitandola ad assumere sentimenti di tenerezza, bontà, umiltà, magnanimità e perdono».[13] Questo è ciò che permette di compiere alla Chiesa un’efficace evangelizzazione all’interno di una società pluralista, complessa ed in continuo cambiamento come quella che oggi abitiamo. Papa Francesco nella esortazione apostolica Evangelii gaudium, in modo appassionato e in più passaggi, invita tutta la Chiesa a uscire per frequentare le tante periferie esistenziali. Anzi, afferma di preferire «una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze».[14] È interessante questa immagine che rilancia una realtà di Chiesa non chiusa nel cenacolo, ma di frontiera, in cammino sulle strade del mondo; una Chiesa che può sporcarsi, ma che ha la possibilità dell’incontro con le tante persone in cammino sulle strade della storia, alle quali offrire il messaggio di liberazione e di salvezza. In conclusione, l’atteggiamento primo di cui necessita la Chiesa in questo momento storico è quello di una conversione pastorale, assumendo le varie sfide che le tante componenti della società complessa e in continuo cambiamento di oggi le pongono, per essere fedele alla sua missione e sentire «imperioso il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il vangelo».[15]

[1] Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 31c.

[2] Idem.

[3] Dal documento della Congregazione per la Dottrina della Fede «Dominus Iesus», 6 agosto 2000.

[4] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 843.

[5] GS, n. 1.

[6]  Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 43.

[7]  Idem.

[8]  Idem

[9]  Idem

[10] Cf. Ivi, n. 49.

[11] Cf. Idem.

[12] Benedetto XVI, Porta fidei, n. 14.

[13] Porta fidei, n. 14.

[14] Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 49.

[15] Evangelii gaudium, n. 49.