Pasquale Bua – direttore dell’Istituto Teologico Leoniano (Anagni)

La convocazione della XVI Assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi, il 7 marzo 2020 (dunque nel bel mezzo della prima concitata fase della pandemia da Covid-19) ha suscitato sentimenti misti di trepidazione e timore. Un sinodo sulla sinodalità appariva a molti una specie di tautologia. La sinodalità, sosteneva qualcun altro, è un metodo più che un contenuto. Per altri ancora, invece, un contenuto c’era, eccome, benché non esplicito: in ballo sarebbe la democratizzazione delle strutture ecclesiastiche, appena evocata dal termine inusuale «partecipazione», che compare nel titolo del sinodo tra le parole «comunione» e «missione», queste sì più abituali e rassicuranti.

Un sinodo sulla sinodalità – nel quale, inevitabilmente, il sinodo è sia soggetto sia oggetto del riflettere – pone una domanda, semplice e decisiva al tempo stesso: perché il sinodo? O meglio ancora: perché questo sinodo? Dato il grande dispendio di energie e di risorse che la macchina sinodale sta già comportando, è lecito chiedersi – come fedeli, come teologi, come pastori – a che cosa serva il sinodo e se, di fronte a quelle che sembrano essere le vere urgenze dell’attuale ora ecclesiale, questo sinodo non finisca per diventare un fattore distraente, se non proprio destabilizzante.

Perché la Chiesa vive di sinodi, essendo sinodo essa stessa

Un’incursione sia pure veloce nella storia della Chiesa consentirebbe, forse, di ribaltare la domanda sul perché si celebra il sinodo, trasformandola nel suo contrario: può la Chiesa vivere senza sinodo? Stando alle fonti, in effetti, pare che il problema non sia celebrare sinodi, bensì smettere di celebrarli. La Chiesa vive di sinodi, e dunque vive di sinodo, al punto da poter esclamare – con l’ormai celebre formula di Giovanni Crisostomo – che «Chiesa e sinodo sono sinonimi».[1]

La prassi sinodale è venuta rarefacendosi almeno a partire dal XIX secolo, di pari passo con l’affermazione di un modello sempre più assolutistico dell’autorità ecclesiastica, in risposta agli attacchi al potere papale provenienti d’oltralpe, all’incipiente cedimento del tradizionale tessuto cristiano della società (denunciato da Pio IX con il Syllabus) e alle spinte eversive della «nuova» teologia (combattuta da Pio X sotto il nome di modernismo). La stessa dottrina del concilio Vaticano I sul primato di giurisdizione e l’infallibilità magisteriale del vescovo di Roma contribuisce ad accreditare l’immagine di una Chiesa rigidamente assoggettata al potere di uno solo.

Né si deve pensare che il Vaticano II abbia determinato una limpida e immediata inversione di tendenza. È vero che, dal punto di vista statistico, la stagione post-conciliare ha restituito vigore all’antichissimo istituto del sinodo diocesano, ma è anche vero che i sinodi diocesani degli ultimi decenni si sono concepiti come assemblee ecclesiali più che come avvenimenti decisionali. Le decisioni importanti hanno sovente continuato a essere prese altrove, complice anche l’irrigidimento che ha connotato la seconda fase della recezione del concilio.

Il XXI secolo si è aperto, per tutte queste ragioni, con una Chiesa in deficit di sinodalità, in cui il moltiplicarsi esponenziale di convegni (parrocchiali, diocesani, nazionali, internazionali), fatti per ascoltare relazioni e produrre carta stampata, ha spesso celato il timore di avviare autentici processi di discernimento, dove l’elaborazione delle decisioni pastorali chiami in causa, a diversi livelli, tutti i soggetti ecclesiali. È in questo contesto che Francesco ha lamentato una recezione insufficiente dell’ecclesiologia conciliare e ha affermato expressis verbis che «proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».

Potremmo dire, semplicemente, che una Chiesa più sinodale è una Chiesa più Chiesa: cioè più fedele alla sua identità.

Perché la domanda di partecipazione è un segno dei tempi

La modernità non è solo, come qualche volta si sente ancora tuonare dai nostri pulpiti, un coacervo di incredulità, consumismo, rilassatezza dei costumi. Come ogni altra epoca storica, la stagione che viviamo porta con sé frutti cattivi, seminati dallo spirito maligno, e frutti buoni, suscitati invece dallo Spirito Santo, che in tal modo viene misteriosamente preparando il mondo, e la Chiesa al suo interno, al compimento escatologico.

Tra questi segni occorre annoverare il «senso acuto della libertà», la coscienza della «mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà» (GS 4), la nuova percezione della dignità degli individui e dei popoli, la ricerca della parità tra uomini e donne «non solo di diritto, ma anche di fatto», il desiderio di quelli che prima venivano tenuti ai margini di «sviluppare la loro personalità col lavoro, anzi [di] partecipare all’organizzazione della vita economica, sociale, politica e culturale» (GS 9). Mai come oggi una gestione elitaria della sacra potestas è percepita come contraria alla soggettualità del battezzato, fondata antropologicamente sul suo essere persona oltre che teologicamente sul suo essere figlio di Dio. C’è dunque tutta un’«antropologia della sinodalità» da sviluppare, e per la quale la Chiesa può trovare facile sponda in innumerevoli organizzazioni della società civile.

L’attuale processo sinodale offre insomma l’opportunità di integrare nel vissuto ecclesiale le legittime aspirazioni di tanti credenti (uomini e forse soprattutto donne), non per cedere alle indebite richieste di democratizzazione della Chiesa, ma per riscoprire i diritti e i doveri nativi dei battezzati, che una mentalità clericalista non ha finora saputo riconoscere, e per promuovere il protagonismo dei christifideles nell’opera dell’evangelizzazione, che oggi più che mai non può essere appaltata ai soli ministri ordinati.

Un ultimo fondamentale motivo che giustifica questo sinodo, e più in generale l’ormai insistente domanda di sinodalità nella Chiesa, è legato alla vicenda drammatica degli abusi, che ha sconquassato interi Paesi e che anche in Italia è attualmente sotto le lenti di un’apposita commissione d’inchiesta.

A rendere possibile quanto è accaduto per lunghi decenni è stato pure, drammaticamente, quel deficit di sinodalità di cui più sopra abbiamo parlato.

Non ha dubbi al riguardo il famigerato studio MHG, relativo al caso tedesco: «L’abuso sessuale è sempre anche un abuso di potere, e questo può essere facilitato dalle strutture autoritarie e clericali della Chiesa cattolica». Né sorprende che il Documento preparatorio del processo sinodale 2021-23, facendo eco alla Lettera al popolo di Dio indirizzata da Francesco alla Chiesa tedesca nel 2018, dedichi ampio spazio all’argomento: «La Chiesa tutta è chiamata a fare i conti con il peso di una cultura impregnata di clericalismo, che eredita dalla sua storia, e di forme di esercizio dell’autorità su cui si innestano i diversi tipi di abuso (di potere, economici, di coscienza, sessuali)» (n. 6).

A ben guardare, per sgominare una mentalità clericalista che sembra essere il naturale terreno di coltura degli abusi, non basterà intervenire dall’alto, sottoponendo vescovi e preti a un rigido controllo vaticano. Occorrerà intervenire anche dal basso, promuovendo quell’interazione virtuosa tra pastori e fedeli, nonché dei pastori tra loro, che è al cuore della sinodalità ecclesiale.

[1] Explicatio in Psalmum 149: PG 55, 493.

Tratto da Orientamenti pastorali 7/8(2022). Tutti i diritti riservati