Francesco Scanziani – docente di teologia sistematica presso il seminario di Milano e presso FTIS e ISSRM

«Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza». Con queste parole incoraggianti papa Francesco chiudeva l’incontro con la diocesi di Roma all’apertura dei lavori sinodali (18 settembre 2021), indicando nella via del dialogo la strada maestra. Per lui è il metodo, anzi, la natura stessa del processo sinodale: «questo itinerario è stato pensato come dinamismo di ascolto reciproco … condotto a tutti i livelli di Chiesa, coinvolgendo tutto il popolo di Dio».

Sin dal noto discorso per la Commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, il Santo Padre ha precisato che appartiene alla stessa natura del sinodo il coinvolgimento di tutta la Chiesa: «quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola «Sinodo», Camminare insieme – laici, pastori, bescovo di Roma».

L’intento è di coinvolgere l’intera Chiesa, in tutti i suoi membri, secondo la visione conciliare di Lumen gentium 10 e rilanciata in Evangelii gaudium 9, a partire dal fondamento battesimale e nella fiducia verso il sensus fidei, che amabilmente papa Francesco traduce con «il fiuto» del popolo di Dio, infallibile in credendo. Il dialogo, dunque, non esclude nessuno o, meglio, esige la partecipazione di tutti, poiché «tutti sono protagonisti, nessuno può essere considerato una semplice comparsa».

Papa Francesco provocatoriamente invita persino a dilatare l’ascolto anche al di fuori della ristretta cerchia ecclesiale, per non limitarsi al 4 o 5% di chi frequenta. «Permettete a tutti di entrare […] Permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarvi interrogare: che le loro domande siano le vostre domande. Permettete di camminare insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito».

Tutto questo, però, non è ancora sufficiente per descrivere il senso di un percorso ecclesiale, poiché non si tratta di un’indagine sociologica né di una raccolta di opinioni, quanto di una lettura di fede del presente. Per questo papa Francesco insiste nel sottolineare che «tutti dobbiamo stare in ascolto dello Spirito», additando un ultimo – ma non per importanza – protagonista del dialogo sinodale: lo Spirito, «che è il regista di questa storia».

Se il soggetto del cammino sinodale dev’essere l’intero popolo di Dio, nella sua varia composizione, e l’obiettivo la comprensione di ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa, la strada indicata da papa Francesco è la via del dialogo. Appare il metodo concreto per attuare un cammino comune. Come dimensione primaria ed evidente si insiste sull’ascolto che tutti devono esercitare. Correlativo a questo, però, non va dimenticato il coraggio della parola, essenziale perché ci sia un dialogo e non un monologo unidirezionale. Solo così si arriverà alla meta voluta: la costruzione di una scelta o di una posizione condivisa, frutto non della vittoria dell’uno sull’altro, ma esito di un discernimento cristiano, che costituisce un’autentica esperienza di fede.

Il primo e più insistito passo è l’ascolto. Papa Francesco sembra quasi identificare il cammino sinodale con un esercizio di ascolto. La stessa necessità di ribadirlo lascia intuire quanto non sia un passo scontato né spontaneo. L’ascolto delinea un cammino: chiede tempo e passi. Procede per gradi. Chiede di ascoltare, a una a una, tutte le voci della comunità cristiana, suggerendo una certa progressione e gradualità. Ne emerge un processo graduale, paziente e necessario, non solo per la conoscenza reciproca, la costruzione di buone relazioni, ma soprattutto per porsi, insieme, in ascolto dello Spirito.

Nel dialogo non basta l’ascolto. Non si tratta di un esercizio democratico o di rappresentanza. Il presupposto è che tutti siamo chiamati a interagire, sempre nel rispetto della diversità di ministeri e carismi.  Per questo, è necessario da parte di tutti anche il coraggio di prendere la parola, la parrhesia di cui testimonia l’inizio della Chiesa nel libro degli Atti (At 4,13). Non tanto come rivendicazione di una parte sull’altra né, all’opposto, per gentile concessione di qualcuno. Semplicemente appartiene alla natura della Chiesa, a uno stile che voglia essere autenticamente comunionale.

Basti pensare al modo in cui spesso si sviluppano gli incontri nei nostri organi partecipativi: quanto la presenza delle persone risulta effettivamente attiva? Quanto tempo vi si dedica a pensare e preparare – anche con lo studio e la preghiera – gli interventi? Chi si mette pubblicamente in gioco? Senza la pretesa di chiudere il discorso, questa descrizione mostra la serietà del dialogo cristiano. Per questo appare un’arte da apprendere progressivamente. Persino una virtù.

Una delle controprove di un buon dialogo viene dalla meta a cui conduce. Per papa Francesco è una strada attraverso cui si vive e accresce la comunione. Infatti, nell’incontro tra i diversi soggetti può nascere qualcosa di inedito: la maturazione di un passo comune. In questo senso il cammino tra ascolto e parola diventa generativo, poiché produce una scelta nuova.

Evidentemente, poiché il risultato non è scontato, chiede di smascherare alcune forme ambigue del dialogo:

  • quella concorrenziale, ad esempio, in cui uno vince l’altro perde; uno ha ragione l’altro torto; uno prevale l’altro soccombe.
  • l’illusione di un dialogo «unidirezionale»: dal basso in alto o viceversa.
  • la pretesa di fare da soli o – come la definisce papa Francesco – l’«ecclesiologia sostitutiva», espressione di chi «si ostina a prendere il posto di Dio».

In positivo, invece, si tratta di rimanere «in ascolto della parola di Dio e delle sue voci in mezzo a noi». Così si segue quella che il papa definisce una «ermeneutica pellegrina», ossia che resta sempre in cammino con la vita e la cultura degli uomini.

Una volta riconosciuto il dialogo come metodologia coerente con il cammino comunionale della Chiesa, resta condurre il discorso sino al fondamento ultimo di tale scelta. Infatti, non si tratta di una strategia comunicativa o di una tecnica formale, ma di un’autentica esperienza di fede, che si radica nel cuore stesso di Dio. È lui che, per primo, è sceso a colloquio con gli uomini. Si tratta di fare come lui ha fatto in modo esemplare e paradigmatico.

La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con l’umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell’incarnazione e quindi nel vangelo».

Se così Dio ha fatto con noi, la sua Chiesa potrebbe fare diversamente?

 

Tratto da Orientamenti Pastorali n. 6/2022. Tutti i diritti riservati.