Ludwig Monti – biblista, già monaco della Comunità di Bose

Negli ultimi decenni da più parti si ripete, a ragione, che il cristiano e l’essere umano medio della nostra società faticano a comprendere il Simbolo niceno-costantinopolitano, elaborato dalla Chiesa indivisa nei due Concili di cui porta il nome (rispettivamente, nel 325 e 381), che si proclama ogni domenica al cuore della liturgia eucaristica. Ho constatato con stupore che buona parte dei miei stessi studenti di scuola secondaria superiore, novelli analfabeti cristiani, lo conosce ancora a memoria: basta dare loro il “la”, e continuano a ripeterne le formule. Ma essi, come molti altri e altre, capiscono ancora ciò che dicono? «Comprendi quello che leggi?» (At 8,30)[1], come un giorno Filippo chiese all’eunuco etiope?

Ora, a proposito del Figlio, Gesù, il Simbolo afferma, nella sua parte iniziale: «Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza[2] del Padre».

È il modo per affermare che Gesù è vero Dio, lo sappiamo. Ma oggi sono parole eloquenti? Certo, se spiegate. Prima mette conto citare un altro stralcio del Simbolo: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo (cf. Gv 1,14)».

È il modo per affermare che Gesù è vero uomo, e qui le cose sono a prima vista più semplici.

Ma proviamo a spiegare. «E come potrei capire, se nessuno mi apre la via?» (At 8,31), risponde l’eunuco a Filippo. Si può partire da un’intuizione che chiosa la conclusione del prologo del Vangelo secondo Giovanni: «Dio, nessuno lo ha mai visto. Il Figlio unigenito […] è lui che lo ha raccontato [exéghesato]» (Gv 1,18), narrato, rivelato, spiegato. Essa potrebbe suonare all’incirca così: un uomo come Gesù solo Dio ce lo poteva dare. Ma occorre poi andare oltre, in particolare sul versante del «Gesù vero Dio», perché sul «vero uomo» non paiono sussistere, oggi, obiezioni di fondo. Ebbene, cosa possiamo sapere di Dio, in ultima analisi? In ottica cristiana, ciò che Gesù ha detto e fatto: quello che quest’uomo ha detto e fatto per raccontare Dio, possiamo dirlo, farlo e crederlo; quello che non ha detto o fatto, no. Bisogna fermarsi prima, limitarsi a «tenere fisso lo sguardo su Gesù» (cf. Eb 12,2). E già questo non sarebbe poca cosa… D’altra parte, già Giustino, apologeta del II secolo, annotava: «“Dio” non è un nome ma un concetto, insito nella natura degli uomini, per una realtà difficile da spiegare»[3].

E allora si può procedere oltre. Sempre nel Quarto Vangelo Gesù afferma: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Nessuna manifestazione spettacolare, nessun prodigio abbagliante ma un “dare la vita” giorno dopo giorno. In quell’uomo ci è stato detto l’essenziale per andare a colui che continuiamo a chiamare «Dio». Dunque, e con la massima convinzione: se è vero e giusto continuare a ripetere che Gesù è Dio, dovremmo cominciare una buona volta anche a dire che Dio è Gesù Cristo. La vita di Dio si compie e si realizza nella vita di Gesù, il Cristo, il Messia: egli è il regno di Dio fatto persona, l’autobasileía, come ha intuito Origene[4].

Con una precisa conseguenza: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna, […] è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24). Come è avvenuto per quanti hanno incontrato Gesù sulle strade della Galilea e della Giudea, così può avvenire anche per noi, qui e ora: ascoltare Gesù, meditare su di lui e grazie a lui, significa accogliere il volto di Dio da lui disegnato con la sua vita. Questo è già passare dalla morte alla vita, dalle tante nostre paralisi e morti quotidiane a quella vita in pienezza che Gesù ci ha portato, con la sua splendente umanità. Vita divina in quanto pienamente umana, senza alcuno svuotamento. Al contrario, credo, con possibilità di un’insospettata e forse inesplorata pienezza. Apertaci da Gesù, autentico volto di Dio. «In questo si rivela la natura paradossale del cristianesimo: la sua pretesa di raggiungere la vita eterna di Dio a partire da una particolarità storica»[5]. E ancora: «La novità del volto del Dio cristiano è rivelata dall’umanità di Gesù. Su questo punto i primi cristiani non avevano dubbi»[6].

«La Parola si è fatta carne»

Ma proviamo ad approfondire brevemente proprio il prologo del Vangelo giovanneo citato poc’anzi (cf. Gv 1,1-18). Questa pagina teologicamente ricchissima, che contiene in sé una miriade di riferimenti alla rivelazione del volto di Dio presente nell’Antico Testamento e di paralleli a quella presente nel Nuovo, è la sintesi ultima: se Gesù exeghésato, ha narrato in modo definitivo Dio, Giovanni ha narrato in modo definitivo Gesù in questa inesauribile ouverture.

Nello stesso tempo, si rimane colpiti dalla luminosa semplicità con cui Giovanni ha saputo comprendere e ha voluto narrare l’inesauribile mistero del Dio-uomo. Tutto è contenuto, in nuce, nel v. 14: «E la Parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda», ovvero è venuta ad abitare «tra di noi». Ma com’è possibile che la Parola eterna di Dio, quella Parola per mezzo della quale tutto è stato creato ed esiste, quella Parola che Dio è, sia diventata sárx, carne fragile, debole, tentata, mortale, in termini umani un figlio, un uomo che va verso la morte? Follia, diremmo. Sì, follia, ma follia voluta da Dio, libera sua scelta di svuotarsi. E perché? Per uscire da sé ed entrare in relazione con noi. E per quale motivo? Per amore, quell’amore che nel prologo risuona nelle parole «vita, luce, grazia», anzi «grazia su grazia» (Gv 1,16), amore su amore. Se Dio scende dai cieli sulla terra prendendo carne in Gesù, è proprio per questo desiderio di relazione, che l’evangelista non potrebbe esprimere con più chiarezza.

Ecco allora l’altra ottica da cui leggere il prologo, quella di noi umani: «… e ha posto la sua tenda tra di noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14). È il punto di arrivo di varie espressioni disseminate nel prologo: «Nella Parola era la vita, la vita luce degli umani. […] Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni umano» (Gv 1,4.9). Tutto luminoso? No, nessuna illusione, ci sono le tenebre che lottano contro la luce, vorrebbero soffocarla, ma non possono vincerla, sopraffarla. È stato così per Gesù, venuto tra i suoi senza essere compreso, fino alla morte di croce, e Giovanni non lo nasconde: «il mondo non lo ha riconosciuto, […] i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,10.11)! Nessuna ipocrisia, siamo onesti: quante volte le nostre tenebre soffocano la luce di Cristo, soprattutto con quella cattiveria o ignoranza che vorrebbe spegnere la luce in chi ci è accanto. Dobbiamo dunque disperare, oscurarci? No, ma solo accogliere il Vangelo che è Gesù Cristo, più forte, più luminoso, più vita di ogni morte: «A quanti hanno accolto la Parola fatta carne, ha dato potere di diventare figli di Dio. […] Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo accolto grazia su grazia» (Gv 1,12.16).

Ha scritto un “poeta maledetto”, dichiaratamente ateo: «Da qualche parte c’è luce. Forse non sarà una gran luce, ma la vince sulle tenebre. […] Non puoi sconfiggere la morte ma puoi sconfiggere la morte in vita, qualche volta. E più impari a farlo di frequente, più luce ci sarà»[7]. Tutti gli umani cercano luce, vita, amore; nelle forme più diverse e a volte contorte non cercano altro! I cristiani, umani come tutti, dovrebbero fare una sola cosa: cogliere la luce, la vita, l’amore, la bellezza nel Vangelo che è l’uomo Gesù, Parola fatta carne, e nella sua umanità accogliere e donare il racconto ultimo di Dio. Accogliere e donare la luce, la vita, l’amore, la bellezza, fatti carne in un uomo: Gesù. «Ma […] non è sufficiente ripetere “Gesù Cristo”, né riprodurre i discorsi che corrispondono alla pratica e agli impegni di altri cristiani del passato. Ci è necessario cercare cosa questo vuol dire per noi. Le invenzioni di un tempo non ci dispensano dal dover tracciare nella nostra società l’atto di credere. Oso parlare, e vorrei parlare, come credente, sapendo e confessando la debolezza del mio credere»[8].

Forse questa infinita potenza-debolezza (cf. 1Cor 1,18-25) del Vangelo che è Gesù Cristo (cf. Mc 8,35; 10,29) ci chiede di rendere grazie, con la vita, per tale dono luminoso e totalmente immeritato, come la Chiesa fa cantare nella notte di Pasqua: «Luce di Cristo! Rendiamo grazie a Dio!». «Luce di Cristo! Rendiamo grazie a Dio!». «Luce di Cristo! Rendiamo grazie a Dio!».

Nonostante tutto e tutti, nonostante noi stessi. Convinti che, in fondo, possiamo trovarlo nella realtà, perché «la realtà è Cristo» (Col 2,17).

Come dire il Dio di Gesù Cristo oggi?

Quest’ultima affermazione neotestamentaria era molto cara al teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), al quale ci affidiamo per un approfondimento, al contempo teologico ed esistenziale, di quanto visto fin qui. Egli scriveva nelle sue famose lettere dal carcere: «Chi è Dio? Anzitutto, non una fede generica in Dio nella sua onnipotenza ecc. Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. Incontro con Gesù Cristo. Esperienza del fatto che qui è dato un rovesciamento completo dell’essere dell’uomo per il fatto che Gesù, soltanto “esiste per altri”. L’“esserci-per-altri” di Gesù è l’esperienza della trascendenza! Solo dalla libertà da se stessi, solo dall’“esserci-per-altri” fino alla morte nascono l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipare a questo essere di Gesù. (Incarnazione, croce, resurrezione). Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto “religioso” con un essere, il più alto, il più potente, il migliore che si possa pensare – questa non è autentica trascendenza – bensì è una nuova vita nell’“esserci-per-altri”, nel partecipare all’essere di Gesù. Il trascendente non sono i compiti infiniti, irraggiungibili, ma il prossimo che è dato di volta in volta, che è raggiungibile. Dio in forma umana! […] “L’uomo per altri”!, e perciò il crocifisso»[9]. Altrove, sempre nelle medesime lettere, si era espresso come segue: «Ciò che mi preoccupa senza posa è la questione di che cosa sia veramente per noi il cristianesimo o anche chi sia Cristo oggi»[10]. «Cristo afferra l’uomo al centro della sua vita»[11]. E ancora, nella sua Etica, aveva affermato in termini più generali: «In Gesù Cristo la realtà di Dio è entrata dentro la realtà di questo mondo. […] D’ora in poi non è possibile parlare in modo corretto di Dio e del mondo senza parlare di Gesù Cristo. […] In Cristo ci viene fatta l’offerta di divenir contemporaneamente partecipi della realtà di Dio e della realtà del mondo, dell’una non senza l’altra. […] Questo è il mistero della rivelazione di Dio nell’uomo Gesù Cristo. […] Si tratta quindi di partecipare oggi alla realtà di Dio e del mondo in Gesù Cristo e di farlo in modo tale da non sperimentare mai la realtà di Dio senza la realtà del mondo e la realtà del mondo mai senza la realtà di Dio. […] Non esistono quindi due sfere ma solo l’unica sfera della realtà di Cristo, in cui la realtà di Dio e la realtà del mondo sono fra loro unite»[12].

Alla luce di tutto ciò, torniamo a chiedercelo: come dire il Dio di Gesù Cristo oggi? In altre parole: chi è per noi Gesù Cristo, oggi, nel mondo, in questo mondo? È evidente nelle affermazioni di Bonhoeffer lo sforzo di mettere a fuoco un’istanza valida ancora ottant’anni dopo: come si è passati dalla cristologia dei Vangeli a quella così “alta” dei Concili ecumenici? Ovvero, come rendere attuale, quel glorioso Credo ancora oggi confessato dai credenti cristiani, che pure faticano a intenderlo in tutta la sua ricchezza di significati, visto il suo radicamento in categorie filosofiche greche ormai sconosciute ai più?

Una prima risposta ci viene data da uno degli ultimi contributi di Paolo Ricca, teologo valdese recentemente scomparso: «Si possono identificare i contenuti essenziali dell’esperienza di fede in Cristo comuni a tutte le forme di incarnazioni storiche. Questi “contenuti essenziali” possono essere, ad esempio, quelli del Credo niceno-costantinopolitano, fissati dai concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381), però a una condizione: quel Credo infatti presenta una grande lacuna: ignora totalmente la vita e l’insegnamento di Gesù, passando direttamente dalla sua nascita (“nacque da Maria vergine”) alla sua passione e morte (“patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso”). Ora, la vita di Gesù fa assolutamente parte dell’“essenziale cristiano”, [… che] è Gesù di Nazaret, così come lo conosciamo tramite la Sacra Scrittura e, in particolare, tramite il Nuovo Testamento. Essere cristiani è seguire Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Tutto il resto che troviamo nelle Chiese (ed è davvero tanto!), non fa parte dell’“essenziale cristiano”; appartiene a quello che gli antichi teologi chiamavano, con una parola greca, adiàfora, cioè “cose indifferenti”, nel senso di “cose che non fanno la differenza”, “cose trascurabili”, proprio perché non essenziali»[13].

Come dunque esprimere oggi questo “essenziale cristiano”? I due autorevoli pensatori appena citati pongono le basi per affrontare la questione. Per esempio, si potrebbe colmare la lacuna di cui scrive Ricca prendendo in esame gli incontri di Gesù, lungo il suo ministero pubblico: relazioni – a partire da quella fontale con il Padre, non dimentichiamolo – che testimoniano il suo essere il Figlio di Dio nel suo «esserci-per-altri», categoria che unisce in un vincolo inestricabile il suo parlare e il suo agire. Infatti, «il modo in cui Cristo ci ama è qualcosa che egli non ha voluto troppo spiegarci. Lo ha mostrato nei suoi gesti. Guardandolo agire possiamo scoprire come tratta ciascuno di noi, anche se facciamo fatica a percepirlo. Andiamo allora a guardare lì dove la nostra fede può riconoscerlo: nel Vangelo»[14].

Nelle relazioni e negli incontri descritti dai Vangeli si definiscono sia il suo essere Figlio (dunque Profeta e Maestro), sia il suo tenere insieme azioni e parole: il suo agire era di per sé eloquente e il suo parlare era già capace di tradursi in azioni, proprio come la Parola (dabar) di Dio. Del resto lo aveva detto con chiarezza: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,16.19). Frutti concreti che nel caso di Gesù erano strettamente connessi al suo parlare, se è vero che anche delle semplici guardie furono costrette ad ammettere, di fronte alle richieste pressanti dei capi religiosi giudaici: «Mai un uomo ha parlato così» (Gv 7,46). Tale percorso dovrebbe trovare la sua foce obbligata e sempre nuova nella lettura, per accenni essenziali, dei racconti della passione, morte e risurrezione, dove tutto si essenzializza e si fa più denso di significato.

«Ma voi, chi dite che io sia?»

«Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in azioni e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo» (Lc 24,19): così i due discepoli in cammino verso Emmaus, nella loro desolata tristezza, definiscono (al passato, in una sorta di necrologio!) il loro Maestro, parlandone per ironia narrativa proprio a Gesù stesso, il Figlio risorto e in cammino accanto a loro, inizialmente in incognito. Poi, «quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli dialogava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”» (Lc 24,28-32).

Certo, Gesù era molto altro, come i due di Emmaus intuiscono alla fine del loro cammino in sua compagnia: ma anche l’inizio della loro confessione di fede esprime a suo modo, e in termini comunque aderenti al reale e alle Sante Scritture, chi è stato Gesù, «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), «in azioni e parole»[15].

Detto altrimenti, l’analisi di questi incontri umani di Gesù è un punto di partenza, una sorta di mise en abyme, di tutto nel frammento: è da qui che si possono prendere le mosse, per approfondire «in ampiezza, lunghezza, altezza e profondità» (Ef 3,18) la conoscenza di lui. Come ha scritto l’Apostolo Paolo in uno dei suoi passi dai toni altamente lirici, in cui ci svela in certo senso il suo cuore: «per conoscere lui, la potenza della sua resurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendoci conformi alla sua morte, nella speranza di giungere alla resurrezione dai morti» (cf. Fil 3,10-11). Nella consapevolezza che Gesù stesso, ancora e sempre, non si stanca di chiederci: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29).

Tratto da Orientamenti Pastorali 6(2025). EDB. Tutti i diritti riservati.

[1] Utilizzo i testi biblici nella traduzione CEI 2008, ma con mie lievi modifiche, ove necessario per ragioni di fedeltà all’originale greco

[2] Homooúsios, in greco; consubstantialis, in latino.

[3] Giustino, Apologie II,6.

[4] Origene, Commento a Matteo XIV,7,10.17 (su Mt 18,23).

[5] B. Maggioni – E. Prato, Il Dio capovolto. La novità cristiana: percorso di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 2020, p. 201.

[6] B. Maggioni, Era veramente uomo. Rivisitando la figura di Gesù nei Vangeli, àncora, Milano 2001, p. 6.

[7] C. Bukowski, Il cuore che ride.

[8] M. de Certeau – J. M. Domenach, Il cristianesimo in frantumi, Effatà, Cantalupa 2010, p. 61 (parole di de Certeau).

[9] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 2002, pp. 519-520 (lettera del 3 agosto 1944).

[10] Ivi, p. 376 (lettera del 30 aprile 1944).

[11] Ivi, p. 468 (lettera del 27 giugno 1944).

[12] Id., Etica, Queriniana, Brescia 1995, pp. 34, 35, 37 («Cristo, la realtà e il bene. Cristo, Chiesa e mondo»).

[13] P. Ricca, «Quale fede?», in Esodo 2/2024, p. 54.

[14] Papa Francesco, Dilexit nos. Lettera enciclica sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo (24 ottobre 2024), n. 33.

[15] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 2: «gestis verbisque».