Brunetto Salvarani – docente di teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna di Bologna

Cristo e la pace, tema persino desueto, in questo nostro tempo incerto.[1] C’è «un tempo per la guerra e un tempo per la pace», dice Qoèlet (Qo 3,8b): e questo sembra proprio un tempo di guerra, purtroppo. Un tempo in cui il senso di Dio – inteso come percezione diffusa di una rilevanza vitale della sua presenza o assenza – si presenta, con rare eccezioni, del tutto esterno all’attuale paesaggio culturale occidentale, certamente a quello europeo.[2] Un tempo in cui, peraltro, di Dio si straparla, intervenendo a suo nome nei contesti più improbabili (e non di rado blasfemi). Ma di quale Dio si tratta? Il Dio bendisposto a giustificare guerre sante e l’uccisione dei nemici, che compare a più riprese in libri biblici quali Giosuè e Giudici, o il Dio che si esprime per bocca del profeta Isaia, assicurando che – in un futuro imprecisato – gli uomini «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4b)? La domanda è cruciale, nell’odierna congiuntura storica: quale Dio si starebbe prendendo la rivincita (secondo la fortunata metafora ideata da Gilles Kepel[3]) oggi? Quello utilizzato come tappabuchi per la conclamata crisi della politica mondiale nel post-1989, ambiguamente invocato dal cristiano reborn Bush jr. per giustificare al mondo benestante la sua guerra preventiva e infinita, o dal musulmano risvegliato Bin Laden per chiamare le plebi della terra a uno jihad assassino? Quello svenduto a basso prezzo dai trafficanti del supermarket del sacro che sfruttano l’ansia postmoderna come occasione insperata per incamerare facili guadagni e intercettare depressioni, angosce e bisogni diffusi? Quello radiografato dalla sociologia, che scorge nuovi e sorprendenti protagonisti del religioso quali nomadi dello spirito, pellegrini e convertiti, cogliendovi nel contempo la decadenza di chiese e comunità tradizionali? Quello nel cui nome Giovanni Paolo II e i leader religiosi mondiali hanno pregato il 27 ottobre 1986, ospiti del Povero d’Assisi, invocando pace su un pianeta diviso e dilaniato, parallelo a quello richiamato a quattro mani nel Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune da papa Francesco e dal grande imam del Cairo al-Tayyeb, che uniscono le loro voci «in nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera»?[4] Difficile rispondere. In ogni caso, il quadro che ne deriva è evidente: se le chiese e il loro assetto istituzionale arrancano e battono in testa, il sacro sta bucando lo schermo, e non è sempre agevole distinguere fra messaggi sinceri, provocazioni e penose strumentalizzazioni.[5] E guardare alla storia delle chiese o ai loro testi santi ci aiuta, ma fino a un certo punto: vi abbondano le contraddizioni, e a ogni frammento di narrazione incentrato sull’esaltazione della pace se ne potrebbe contrapporre un altro, votato alla violenza. Al Dio della mitezza si può accostare, in un impressionante corto circuito, il Dio degli eserciti e dello cherem, lo sterminio sacro, la caccia alle streghe, il rogo degli eretici e l’antigiudaismo eretto a sistema; al sollievo della tregua di Dio e a voci profetiche come quelle di Francesco d’Assisi o Erasmo da Rotterdam, le guerre infracristiane che hanno insanguinato per decenni l’Europa.[6] Ecco perché è necessario interrogare al meglio la Bibbia, per cogliere la valenza squisitamente cristologica di una teologia per la pace, di cui abbiamo estremo bisogno. Nella consapevolezza che siamo di fronte a un argomento sì delicato e controverso, ma anche decisivo in vista di una qualsiasi credibile testimonianza cristiana al mondo attuale, nonché – appunto – di un’efficace teologia per la pace.

  1. Nel segno della violenza

 Si può affermare, senza esagerazioni, che tutto, nella Bibbia, è nel segno della violenza: di volta in volta inscritta nell’ordine imposto al mondo creato, consegnata alla natura creaturale dell’uomo, comandata e permessa da Dio, attesa e sperata come liberazione e redenzione…[7] In effetti, nessun altro tema antropologico o esperienza umana sono menzionati quanto la violenza: vi si possono contare oltre seicento passi riferiti a popoli, sovrani o singoli individui che hanno attaccato o ucciso; un migliaio in cui divampa l’ira di Dio; e oltre cento in cui YHWH ordina tout court di uccidere qualcuno. Certo, la testimonianza delle Scritture non risulta uniforme: non esiste, infatti, a dispetto delle frequenti letture in tal senso, un’unica linea, magari ascensionale, di evoluzione progressiva, che partendo dalle voci più antiche d’Israele giunge, come al suo vertice, a Gesù e alle prime comunità cristiane. Mentre le differenze fra libro e libro, corrente e corrente, autore e autore, e persino all’interno dello stesso libro, sono rilevanti. Ecco perché il criterio evoluzionistico, cui appunto spesso si ricorre, non appare adeguato a cogliere, nella sua globalità, la testimonianza biblica, tutt’altro che priva di posizioni contrastanti: ed «è lo scontro tra diversi punti di vista e diverse prassi che emerge a uno sguardo spassionato, non velato da preoccupazioni apologetiche o giustificazionistiche».[8]

L’estrema frequenza degli appelli alla violenza nel Primo Testamento, del resto, non è scoperta recente. Si veda il caso del vescovo e teologo Marcione (85-160), che proclamò la radicale diversità fra il Dio del mondo ebraico e quello conosciuto attraverso la predicazione di Gesù e i vangeli. Il primo avrebbe richiesto sì la giustizia, ma manifestandosi come despota incostante, eccitato, selvaggio e bellicoso; il secondo sarebbe stato dunque un Dio nuovo, prima sconosciuto, amorevole e misericordioso. Per questo, egli aveva escluso dal suo canone il Primo Testamento, selezionando dal Nuovo solo gli scritti nella direzione da lui sostenuta. Di Marcione, in realtà, conosciamo le posizioni tramite le confutazioni dei suoi avversari, come Tertulliano, che nel 207 scriveva: «Marcione stabilisce due entità diverse tra loro, l’una giudaica, feroce, guerriera, l’altra mite, placida e solamente buona e ottima».[9] La chiesa, a partire dal concilio di Nicea (325), non accolse le opinioni di Marcione.

Eppure, il tema della violenza, fino a pochi anni fa, non era quasi presente negli studi biblici scientifici. Intuitivamente, giocavano al riguardo «certi meccanismi inconsci, che rimuovono dalla ricerca tutto ciò che ha a che fare con la violenza»;[10] tanto che spesso gli esegeti vi si sono accostati soltanto in modo indiretto: «ma evitarlo veramente non possiamo in alcun modo».[11] Tanto più dopo l’uscita, nel 1972, del fondamentale volume dell’antropologo René Girard La violence et le sacré[12] e la sua conferenza, edita nel ’75, su Les malédictions contre les pharisiens et la révélation évangélique, che apportarono stimoli decisivi al dibattito relativo, a proposito – in particolare – del sacrificio rituale e del capro espiatorio.

  1. Monoteismi violenti?

 La storia, si accennava, racconta che l’esperienza religiosa ha portato spesso, lungo i secoli, a comportamenti individuali e di massa contrassegnati da violenza e sopraffazione, non di rado a vere e proprie guerre, dette appunto «di religione».[13] Dovremmo pertanto concludere che le religioni – in particolare quelle monoteistiche – sono necessariamente fonti d’intolleranza e di violenze? Va notato che, di fatto, fra il Cinquecento e il Seicento si comincerà a discutere di tolleranza e intolleranza proprio in riferimento alla credenza religiosa. Sul banco degli imputati, ebraismo, cristianesimo e islam. Perché questi effetti del monoteismo? Si tratta di una loro caratteristica intrinseca e ineliminabile, o di un effetto indotto in cui altre cause sono in realtà decisive?

Certo, il monoteismo manifesta una comprensione della sfera del divino in chiave di totalità ed esclusivismo; e l’esclusivismo monoteistico si è spesso tradotto in un vocabolario espressivo di rigida intolleranza mentale verso altre divinità e credenze (si pensi, per esempio, alla polemica anti-idolatrica, frequente nella Bibbia). A ben vedere, peraltro, l’intolleranza religiosa e le conseguenti violenze nascono esattamente laddove avviene un processo, più o meno conscio, di identificazione tra soggettività del credente e oggettività del Dio creduto. Quello si appropria della ricchezza di questo: se Dio è verità, verità è ritenuta e vissuta la propria credenza religiosa. Si tratta tuttavia di un’appropriazione indebita: se Dio è per definizione la Verità, altra è la sua percezione soggettiva da parte dell’uomo; se quello esclude di diritto altri dèi, non ne consegue che una credenza debba forzatamente escludere altre credenze, proprio a causa della sua storicità e parzialità. Il cammino verso l’Oggetto immenso ammette per sé stesso pluralità e diversità di strade, di approcci e comprensioni. L’attuale teologia del pluralismo religioso sta lavorando in questa direzione.[14]

  1. Guerra, pace e violenza nella Bibbia ebraica

È il cardinal Ravasi ad ammonirci che «le pagine dell’Antico Testamento sono spesso striate del sangue delle battaglie e si affacciano su rovine e devastazioni causate da eventi bellici», e che anche il Nuovo Testamento, «che pure inalbera il vessillo dell’amore ed eredita l’aspirazione messianica biblica allo shalom pace, non ignora questa realtà aspra che costella la vita dei popoli».[15] Nella Bibbia, dunque, si parla continuamente di violenza. Il dato, più che scandalizzare, spinge a riflettere: se la Scrittura, che descrive ogni aspetto della relazione fra Dio e l’umanità, trascurasse quell’aspetto fondamentale della storia che è la violenza, non finirebbe per nascondere un dato che attraversa da sempre le vicende umane? In fondo, la violenza non è mai tanto pericolosa come quando la si nasconde: presentandola nelle sue più varie espressioni, la Scrittura costringe il lettore a guardarla in faccia, a considerarla nei minimi dettagli e nelle modalità più subdole.[16] In tal modo, essa gli svela le sue radici nascoste, mostrandogli i moventi personali o collettivi, ed esponendogli senza falsi pudori gli aspetti letali; consentendo così di comprendere sia la violenza che lo circonda sia quella che subisce, ma anche quella che avverte in sé o causa agli altri. In questo scenario, non c’è dubbio che l’orizzonte della pace rappresenti costantemente l’obiettivo e la speranza degli uomini (e delle donne) della Bibbia. Si discute molto attorno al termine ebraico per pace, shalom: la sua radice è šhlm, che sta per restituire, rendere, pagare, retribuire, vendicare, e si utilizza anche per adempiere un voto. Da questo punto di vista, shalom sarebbe lo stato risultante da un equilibrio restituito, caratteristico di chi è soddisfatto, appagato, pieno, integrato. Del resto, «è difficile trovare nell’Antico Testamento un termine così trito e comune nella vita quotidiana, e tuttavia non di rado carico di pregnante contenuto religioso e capace di elevarsi al di sopra del piano delle immagini comuni, come shalom».[17] Ed è, ancora oggi, il saluto comune in lingua ebraica, la forma elementare di incontro. Una prospettiva che rende naturale la convinzione che lo shalom, nel suo senso profondo, sia opera del Signore, trova ripetute conferme nelle pagine bibliche e nelle preghiere d’Israele. Nella benedizione sacerdotale del libro dei Numeri (6,24-26), ad esempio, cara a Francesco d’Assisi, si guarda allo shalom come dono di Dio per il suo popolo: «Il Signore ti benedica e ti protegga! Il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!» Sì, la pace sta al centro della rivelazione biblica giudaico-cristiana, e lo shalom del Primo Testamento contiene e sintetizza in sé tutti i beni messianici: non rimanda semplicemente a un’assenza di guerra, ma a una pienezza di vita, ed è possibilità storica concreta che Dio concede all’umanità intera; e non un elemento accessorio, ma essenziale, dell’alleanza con Dio, che è berit shalom (Nm 25,12).

  1. Gesù agnello mansueto in una società violenta

 Naturalmente, anche nel Nuovo Testamento c’è violenza. Gesù, che si proclama «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), non può astrarsi dal suo mondo e dalla sua società, profondamente lacerati. Egli nasce in un contesto determinato in un paese schiacciato dal brutale giogo romano, in cui l’ingiustizia è realtà radicata e quotidiana, tanto da accompagnare l’intera sua esistenza, a partire dalla cosiddetta strage degli innocenti (Mt 2,16-18). Certo, Gesù non predica la violenza, tutt’altro, e tanto meno la pratica, ma con essa deve fare i conti ripetutamente. È infatti a partire dalla sua venuta che il regno di Dio fa irruzione nel mondo, e una tale irruzione suscita una violenza che egli non intende affatto mascherare, cercando semmai di farla emergere. La sua pace, in effetti, non è come la pace di questo mondo, e lui stesso non mancherà di dichiararlo esplicitamente ai suoi amici la notte prima di essere inghiottito da una spirale di violenze: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Evidenziando situazioni d’ingiustizia e di violenza strutturale e istituzionale, tanto religiosa quanto civile, egli ne rende esplicita la radicale inconciliabilità con il regno. Nonostante non pochi insegnamenti successivi abbiano puntato ad attenuare tale dato cruciale, spingendosi a dichiarare che esiste una violenza necessaria, una guerra giusta (con Agostino di Ippona) e persino una guerra santa (con Bernardo di Chiaravalle), i cristiani sanno che da allora non esiste nessuna violenza che possa essere innocente.

Gesù si distanzia dagli oppositori al regime politico romano, anche armati, dell’epoca, temendo gli equivoci che potevano sorgere dal titolo di Messia, inteso spesso come sovvertimento di poteri temporali stabiliti, se si è lasciato – sulla scia dell’isaiano Servo di YHWH – condurre al macello con la mansuetudine di un agnello. Quando Pietro mozza l’orecchio del servo del sommo sacerdote la notte del tradimento di Giuda, Gesù condanna subito il suo gesto (Mt 26,52-53). Tuttavia, nei vangeli compaiono sia proclamazioni di una mitezza che rifiuta ogni violenza, ma anche episodi, affermazioni e atteggiamenti che si potrebbero classificare come violenti. Ad esempio, Gesù dichiara che solo i violenti s’impadroniranno del regno: «La Legge e i profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi con la violenza» (Lc 16,16); «Dai giorni di Giovanni il Battista fino a ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 1,12). E ancora: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34): una spada che Luca interpreta come divisione (Lc 12,51), perché la parola di Dio obbliga tutti a prendere posizione. E c’è chi crede, e chi non crede… La sequela di Gesù è in effetti divisiva per la radicalità che impone, fino a vietare di recarsi a seppellire il proprio padre o di congedarsi dai familiari prima di andare con lui (Lc 9,57-62). Il vangelo, del resto, consiste nell’annuncio della pace che si è compiuta in Gesù Cristo, resa possibile dalla sua presenza fra gli uomini. È lui che, con la sua morte in croce, subendo la violenza che il mondo intero gli scarica addosso effonde il suo spirito che è spirito di pace: «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne» (Ef 2,14).

  1. Il discorso della montagna, la rivoluzione di Dio

 Il racconto evangelico ha il suo cuore bruciante nella parola e nell’azione, la vita e la passione di Gesù: perseguitato e ucciso brutalmente non è ricorso alla violenza per difendersi. Dio l’ha risuscitato dai morti, si è messo dalla sua parte e così, attraverso la comunità dei suoi discepoli, ha mostrato la possibilità di un inizio di vita comune priva di violenza, in un mondo dove le società umane ne sono invece segnate. Non si può sottrarre questo dato dal vangelo. Correttamente la tradizione cristiana ha considerato il discorso della montagna (Mt 5-7), che dedica ben due beatitudini alla celebrazione della mitezza, come la magna charta di questa rivoluzione di Dio: in esso ci viene offerta, secondo la concezione matteana, l’interpretazione messianica definitiva della Torah sinaitica e della profezia, dove definitiva deve intendersi come suo adempimento, sua piena realizzazione, non come abolizione della Torah mosaica. Gesù non porta una nuova Torah (magari diversa e contrapposta a quella di Israele); egli offre ai suoi discepoli la chiave per interpretarla fino alla fine. Purtroppo però, in larga misura, la tradizione cristiana ha dimenticato le proprie origini giudaiche, e – in nome di una presunta superiorità e contrapposizione – ha spesso interiorizzato e spiritualizzato il messaggio evangelico, come se esso potesse essere vissuto solo dai singoli e, considerandolo come del tutto utopico, impossibile da vivere se considerato come messaggio sociale e comunitario.

Sta di fatto che, come nota Timothy Radcliffe, se i cristiani sposassero la nonviolenza radicale di Gesù, il mondo ne sarebbe impressionato, anche perché «il rifiuto di ogni violenza risultava per i contemporanei di Gesù ancor più incomprensibile di quanto non lo sia per noi».[18] In ogni caso, egli non viene come il Cristo davidico, come Messia annunciato dai profeti e atteso dal popolo; né come re che ricostruirà Gerusalemme. Viene come servo e sacrificato, ucciso e sepolto con ignominia fuori dalle mura della città santa. È, per così dire, un Messia fuori dal messianismo: paradossalmente, Dio in lui è vinto dagli uomini, e la sua guerra si conclude in una tomba. Tanto che la croce sembra riassumere in sé il fallimento sia della guerra santa sia della guerra messianica. La risurrezione, infatti, non abolisce la croce, ma piuttosto la predica come la sola convincente forma di vittoria di Dio sul mondo, e per un mondo a venire, un olam-ha-bà, in cui il nuovo Adamo potrà finalmente vivere in pace con Dio, con il creato e con sé stesso.

  1. Una conclusione aperta

 Potremmo dire che, considerata globalmente, la Bibbia invita i lettori a un attraversamento: attraversamento delle immagini di Dio suscettibili – a volte subdolamente – di alimentare la violenza, pur pretendendo di combatterla; attraversamento delle violenze umane dai molteplici volti, certo ripugnanti, ma a volte anche affascinanti e seducenti; attraversamento delle deformazioni del volto di Dio e degli esseri umani, quando la morte ha il sopravvento, ma anche delle loro trasfigurazioni, quando la violenza si trasforma in forma di vita e di vita condivisa.[19] Emerge qui, evidentemente, una cruciale questione ermeneutica. Perché la Bibbia – e i suoi vari canoni – non rappresentano l’affermazione di un’unica idea, un’unica concezione di Dio, del cosmo e dell’uomo, ma un campo di tensioni non di rado lacerante, al cui interno diverse teologie e svariate antropologie si confrontano, talvolta si scontrano ed entrano in vicendevole relazione. Ciò significa che la verità biblica, se bene intesa, ha carattere sinfonico e plurale. E solo in questo orizzonte assume finalmente un adeguato risalto la fede nella risurrezione di Gesù Cristo, e della nostra, che ebraismo e cristianesimo annunciano, come intuì felicemente Dietrich Bonhoeffer: «Solo quando si ama a tal punto la vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla risurrezione dei morti e a un mondo nuovo».[20]

Tratto da Orientamenti Pastorali n. 3/2024. EDB. Tutti i diritti riservati.

[1] Rielaboro qui alcune tesi presenti nel mio contributo al volume R. Mancini – B. Salvarani, Oltre la guerra, Effatà, Cantalupa 2023.

[2] Cf. R. Mancini, La nonviolenza della fede, Queriniana, Brescia 2015, pp. 5ss.

[3] G. Kepel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991.

[4] Papa Francesco – Ahmad Al-Tayyeb, Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Paoline, Milano 2019. Per una lettura del documento si veda A. Mokrani – B. Salvarani, Dell’umana fratellanza e altri dubbi, Terra Santa, Milano 2021.

[5] Per un’analisi del quadro qui accennato, rinvio al mio Senza Chiesa e senza Dio, Laterza, Roma-Bari 2023.

[6] Esemplare è P. Naso, «Le religioni sono vie di pace». Falso!, Laterza, Roma-Bari 2019.

[7] Si vedano le classiche considerazioni di N. Lohfink, Il Dio della Bibbia e la violenza, Morcelliana, Brescia 1985, in particolare le pp.15-17.

[8] G. Barnaglio, Pace e violenza nella Bibbia, EDB, Bologna 2011, p.10.

[9] Tertulliano, Adversus Marcionem, 1, 6, 1.

[10] N. Lohfink, cit., p. 16.

[11] Ivi, p. 17.

[12] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 e Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987.

[13] Seguo qui l’analisi di G. Barbaglio, op. cit.

[14] Al riguardo rinvio a M. Dal Corso – B. Salvarani, Molte volte e in diversi modi, Cittadella, Assisi ²2018.

[15] G. Ravasi, La santa violenza, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 9-10.

[16] Per un’analisi originale del tema della nonviolenza nella Bibbia si può vedere P. Lombardini, «I fondamenti biblici della nonviolenza», in B. Salvarani (a cura), Violenza e nonviolenza nella tradizione ebraico-cristiana, EDB, Bologna 2021, pp. 101-180.

[17] G. Von Rad, «Shalom in AT», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1965, p. 205.

[18] T. Radcliffe, Accendere l’immaginazione, EMI, Verona 2021, p. 228.

[19] Per una valutazione complessiva sull’argomento, si veda J.-D. Causse – É. Cuvillier – A. Wénin, Violenza divina, EDB, Bologna 2012.

[20] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa,  a cura di A. Gallas, Queriniana, Brescia 2002, p. 225.