Carmelo Torcivia – docente stabile straordinario di teologia pastorale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – sez. San Luigi, Napoli

 Oggi si fa un gran parlare di discernimento non solo nei termini classici del discernimento spirituale, ma anche in quelli «nuovi» del discernimento pastorale. È ovvio che questa abbondanza di riflessioni sia chiaramente stimolata dal pensiero di papa Francesco, che del discernimento ne è intimamente convinto. Pertanto, all’inizio di questo articolo, conviene partire da un suo brano che esprime l’urgenza della sua pratica e la necessità che a essa si formino in particolar modo coloro che sono chiamati a esercitare il ministero ordinato. «Alcuni piani di formazione sacerdotale corrono il pericolo di educare alla luce di idee troppo chiare e distinte, e quindi di agire con limiti e criteri definiti rigidamente a priori, e che prescindono dalle situazioni concrete: “Si deve fare questo, non si deve fare questo…”. E quindi i seminaristi, diventati sacerdoti, si trovano in difficoltà nell’accompagnare la vita di tanti giovani e adulti. Perché molti chiedono: “Questo si può o non si può?”. Tutto qui. E molta gente esce dal confessionale delusa. Non perché il sacerdote sia cattivo, ma perché il sacerdote non ha la capacità di discernere le situazioni, di accompagnare nel discernimento autentico. Non ha avuto la formazione necessaria. Oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nel discernimento, nella capacità di discernere. E soprattutto i sacerdoti ne hanno davvero bisogno per il loro ministero. […] Bisogna formare i futuri sacerdoti non a idee generali e astratte, che sono chiare e distinte, ma a questo fine discernimento degli spiriti, perché possano davvero aiutare le persone nella loro vita concreta. Bisogna davvero capire questo: nella vita non è tutto nero su bianco o bianco su nero. No! Nella vita prevalgono le sfumature di grigio. Occorre allora insegnare a discernere in questo grigio».[1]

Due sono le idee portanti che fanno da motivazione alla necessità della pratica del discernimento:

1) non si possono far discendere deduttivisticamente soluzioni pratiche da «idee troppo chiare e distinte», perché questo determinerebbe un apriori indebito nei confronti della realtà, un sapere già cosa fare a prescindere dall’ascolto delle situazioni concrete;

2) la vita non prevede situazioni in cui siano presenti distintamente da una parte il bianco e dall’altra il nero, anzi «nella vita prevalgono le sfumature di grigio», il discernimento si deve pertanto esercitare dentro queste concrete sfumature di grigio.

All’interno di queste precise coordinate s’impone così l’obbligo di esercitare il discernimento come unica strada per pervenire a soluzioni adeguate. La vita concreta, infatti, non ha nulla a che fare con i libri di logica. Essa è complessa, contraddittoria, è fatta da «sfumature di grigio». Pensare di far derivare soluzioni concrete da principi universali e astratti è impossibile. 

L’ambito proprio e la natura del discernimento pastorale

Questa riflessione non è affatto nuova. Il discernimento, infatti, è una pratica molto antica, che appunto si poggia sull’impossibilità che decisioni pratiche possano essere fatte derivare direttamente da processi logico-deduttivi, tipici della ragione teoretica. Invece, il luogo proprio del discernimento è quello della ragione pratica e, nell’ambito teologico, della metodologia teologico-pratica.[2] A partire da ciò e raccogliendo sia le riflessioni che papa Francesco ha offerto nel brano sopracitato che l’impostazione data da K. Rahner a un capitolo importante della sua Teologia pastorale, inerente al rapporto tra principi e imperativi,[3] si possono indicare tre precise tappe di riflessione teologico-pastorale:

  1. il discernimento pastorale prende decisamente le distanze da ogni ragionamento che, originato da «idee chiare e distinte», deduca conclusioni astratte, che non tengono conto dello spessore della realtà;
  2. il discernimento pastorale considera la realtà non nell’astrattezza del tutto bianco o tutto nero, ma piuttosto nella concretezza delle varie gradazioni di grigio;
  3. il fondamento antropologico del discernimento pastorale è dato dalla struttura di ente spirituale, che caratterizza l’ontologia dell’essere umano;[4] ciò permette da un lato di considerare il singolo essere umano come un valore in sé e dall’altro di considerare la libertà dell’uomo – e di conseguenza la libera decisione dell’uomo – come una vera e propria mediazione in ordine alla verità, il cui contenuto non è raggiunto solo con un approccio cognitivo-razionale.[5]

Il tipo di antropologia filosofica, qui in gioco, non vede la singola persona umana come una sorta di terminale che si pone in mera esecuzione dei principi universali. La natura di ente spirituale del singolo uomo implica anzi che l’accesso alla verità non avvenga solo per via intellettiva, ma coinvolga intrinsecamente la libertà personale, che nell’assunzione del rischio della propria decisione può anche anticipare il futuro. Come ben si comprende, vi è qui un’impostazione olistica e globale della persona umana che è tutta protesa nella tensione verso la verità. La ricerca fattiva della verità, infatti, non può avvenire solo attraverso l’esercizio delle facoltà intellettive né, come si è già visto, è possibile parlare di dignità della singola persona umana se questa è intesa come mera esecutrice di deduzioni pratiche di principi universali. La connaturale tensione dell’uomo verso la verità implica allora la messa in gioco di tutte le sue singole componenti, unitariamente comprese e interconnesse, perché emerga in pienezza l’assunzione di responsabilità che ogni libera decisione comporta. Dal punto di vista poi della pratica cristiana del discernimento pastorale, vale la pena ricordare la natura spirituale (cioè, nello Spirito Santo) di tale discernimento. Innanzitutto, per una sua propria dimensione interpersonale. Il discernimento pastorale, infatti, può essere inteso come quel processo «che si sviluppa nel dialogo tra una guida (presbitero, religioso/a o laico/a) e una persona o una coppia che è accompagnata spiritualmente».[6] In questo senso, il discernimento pastorale, sia nella sua duplice forma della interpersonalità e della comunitarietà che in quella del discernimento personale-esistenziale,[7] «sono espressioni di un processo spirituale, poiché è un processo che avviene nel dono teologale della fede e in ascolto dello Spirito Santo, che è sempre il protagonista del discernimento».[8] Poi, perché si discerne sempre l’intervento rivelativo di Dio all’interno delle coordinate storiche del qui e ora, interpretate dalla fede. Questa seconda notazione è molto importante, perché non sempre se ne ha contezza. Il compito del teologo pastorale – già secondo il padre Liégé[9] – è di rintracciare dentro tutto l’agire della Chiesa la parola di Dio, che ivi si manifesta. Analogamente, va ricercata la stessa Parola dentro i segni dei tempi. Dio non smette mai di parlare. Tutta la pastorale, sia nella sua dimensione ad-intra – ecclesiale – sia in tutto ciò che si può individuare al di fuori della vita e della compagine ecclesiale, ricerca la Parola gestis verbisque. E così l’evento rivelativo – considerato nei suoi singoli «frammenti» e nel complesso dispiegamento della sua processualità – può e deve essere rintracciato all’interno dei cammini di fede che la Parola dispiega nella sua Chiesa (dalla liturgia alla lectio divina, dalla testimonianza al servizio…) e nella capacità da parte della stessa Chiesa di saper leggere i segni dei tempi nelle dinamiche della storia, laddove è possibile rintracciare i segni della pasqua di Cristo e le connessioni messianiche di eventi e processi della storia degli uomini.[10] 

Alcuni oggetti dell’attuale discernimento pastorale

Alla luce di quanto affermato ci si chiede quali possano essere oggi gli oggetti di un serio discernimento pastorale, che investe sinodalmente tutta la Chiesa. Ovviamente, sono tanti e rivestono interessi oggettivi e soggettivi. Senza quindi alcuna pretesa di essere completi ed esaustivi, di seguito se ne riportano quattro.

  • Nell’ambito della trasmissione/comunicazione della fede ci si pone il problema se sia opportuno affrontare la complessa problematica della non-credenza alla luce solo di notazioni critiche ecclesiali ed ecclesiologiche, che fungerebbero da cause per l’attuale ateismo, o se invece si debba riconoscere che la questione è molto più complessa e inerisce principalmente al problema di Dio piuttosto che alla Chiesa sia nei termini del cosiddetto ateismo «pacifico» e non ideologico delle nuove generazioni sia nei termini del posto che non è riservato a Dio nelle attuali società. Il discernimento pastorale su queste due ipotesi risulta decisivo non solo per l’individuazione del problema, che in ogni caso risente delle riflessioni che si possono fare a partire dalle due ipotesi formulate, ma soprattutto per le scelte pastorali che le comunità cristiane devono compiere in ordine alla trasmissione/comunicazione della fede. A uno sguardo generale che si può dare alle nostre comunità, si ha l’impressione che il motivo prevalente a cui si ricorre per spiegare la non-credenza sia individuato nelle diverse responsabilità ecclesiali, soprattutto nei campi della non-testimonianza dei cristiani e degli scandali del clero. E, tuttavia, bisogna porsi la domanda fondamentale se, oltre alla giustezza di queste riflessioni, ci sia soprattutto in gioco la questione di Dio. Di un Dio che è ormai ritenuto un problema superato, per il quale non vale neanche la pena offrire motivazioni per affermare la sua non-esistenza.[11] Si potrebbe, a tal proposito, parlare di un post-ateismo. A fronte di tutto ciò, si ha l’impressione che le nostre comunità cristiane siano poco attrezzate per queste situazioni.
  • Nell’ambito delle problematiche inerenti alla figura di Chiesa, che oggi si vuole disegnare, occorre percorrere i temi che invocano una nuova riforma ecclesiale oppure vale la pena considerare che ci si trova davanti a qualcosa di più ampio, all’occasione epocale della creazione di una nuova inculturazione della fede occidentale?[12] A ben vedere, seppur con diverso linguaggio – non «inculturazione» ma piuttosto «aggiornamento» –, il problema era stato affrontato da Giovanni XXIII ed è diventato il motivo principale della convocazione del concilio Vaticano II e la chiave di lettura ermeneutica dell’impostazione conciliare.[13] Se oggi si continua a discernere che si è di fronte alla sfida epocale di una inculturazione occidentale della fede cristiana, è ovvio che bisogna attrezzarsi per realizzarla accettando complessità e tempi lunghi e inserendo i temi della riforma dentro questo più ampio contesto. Perseguire il raggiungimento dei risultati di questi singoli temi della riforma ecclesiale senza aver chiare le coordinate fondamentali di una nuova inculturazione occidentale, dentro le quali incastonarle, è operazione miope.
  • Nell’ambito del cammino sinodale delle Chiese italiane e della celebrazione del sinodo universale, occorre discernere sulla fecondità o meno della tensione che s’instaura tra sinodo/concilio[14] e sinodalità, intendendo per sinodo la celebrazione di un convenire ecclesiale per affrontare gravi problemi che ineriscono a tutta la Chiesa, e per sinodalità un nuovo modo di governare i processi ordinari ecclesiali che superi la plurisecolare deriva monarchica. Malgrado «sinodalità» derivi da «sinodo», tuttavia vale la pena considerare che non sono esattamente la stessa cosa. All’interno dell’impostazione monarchica che ha caratterizzato la Chiesa del secondo millennio, sono stati celebrati sinodi/concili per affrontare problemi ritenuti gravi per la Chiesa del tempo. Questo però non ha implicato la messa in gioco dell’impostazione monarchica. Pertanto, la vita ordinaria della Chiesa è stata condotta secondo uno stile monarchico. Oggi, grazie all’introduzione del concetto di sinodalità, si vuole un cambiamento del modo di governare le chiese e le comunità cristiane in ordine al vissuto ordinario e concreto. E ciò implica il tentativo di ridisegnare la «geografia» dei ministeri nella Chiesa. Le attuali questioni inerenti ai laici e alle donne vanno intese allora fino alle loro ultime determinazioni, che sono quelle ministeriali.[15] Nel ridisegnare però la geografia ministeriale della compagine ecclesiale occorrerà curare, oltre che la concreta interazione tra i vari ministeri, la delicata problematica del «potere». È ben noto, infatti, che per amore di verità bisogna andare oltre alla estesa retorica ecclesiastica del «servizio», che, se resta vero dal punto di vista ideal-normativo, tuttavia non è ciò che comunemente si riscontra dal punto di vista fenomenico nelle variegate prassi ecclesiali, laddove il termine più adatto per dare il nome agli atti e ai processi ecclesiali risulta appunto quello di «potere». La preziosa prospettiva evangelica del «tra voi non è così» (Mc 10,43) impegna la Chiesa intera a uscire dalla logica del potere. L’esercizio concreto della sinodalità può sicuramente aiutare questo importante processo che dal potere conduce al servizio e al servizio di tutti (Mc 10,44).
  • Nell’ambito dell’azione pastorale delle Chiese locali e delle comunità parrocchiali ci si chiede se ci si può «accontentare» di una pastorale ordinaria, che accoglie alcune istanze missionarie, o se invece bisogna decisamente andare alla creazione di una pastorale kairologica[16] che, senza contrapporsi a quella ordinaria-missionaria, sviluppi però percorsi da questa distinti, già a partire dalla individuazione degli obiettivi. La pastorale kairologica è una pastorale di accompagnamento di persone e/o gruppi – nella doppia direzione del ricevere e del dare – che vivono la loro vita al di là dell’appartenenza ecclesiale, nella quale chi accompagna si pone alla ricerca di quanto Dio stia operando in chi è accompagnato. Gli obiettivi e le metodologie di questa pastorale non sono simili a quelli della pastorale dell’evangelizzazione né ad altri attuali modelli pastorali. Fondamentalmente sono tre questi modelli presenti in Italia: la fede popolare, il cattolicesimo popolare, la pastorale di evangelizzazione.[17] I tre modelli, pur nella loro diversità, hanno in comune il radicamento forte alla Parola, ai sacramenti e alla Chiesa. Il modello kairologico, invece, non fa riferimento a questi radicamenti, perché si situa in una situazione pastorale di accompagnamento di persone non-credenti o in ogni caso alla ricerca.

Tratto da Orientamenti Pastorali 9(2023), EDB, tutti i diritti riservati

[1] Francesco, «Dialogo con un gruppo di gesuiti polacchi» (30 luglio 2016), https://bit.ly/44gW2XN, cit. in F. Zaccaria, «Discernimento e accompagnamento pastorale. Verso nuovi paradigmi formativi per gli operatori pastorali», in R. Massaro (a cura di), Sui sentieri di Amoris laetitia. Svolte, traguardi e prospettive, Cittadella editrice, Assisi 2022, p. 254.

[2] Se si considera la «geografia» delle discipline teologiche, ci si accorge che esse utilizzano diversi metodi. All’interno di questa pluralità alcune discipline assumono la metodologia teologico-pratica: teologia pastorale, catechetica, teologia morale, diritto canonico, liturgia. Pertanto, sarebbe da riconsiderare l’uso ormai invalso di utilizzare «teologia pratica» come sinonimo di «teologia pastorale» per riservarla invece all’ambito dell’appartenenza metodologica. Una teologia pratica è così una qualificazione di una disciplina teologica che afferisce all’ambito metodologico teologico-pratico. In questo senso la teologia morale, per fare un esempio, è una teologia pratica.

[3] Cf. K. Rahner, L’elemento dinamico della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1970, p. 16. Per una sintesi in ordine a questo rapporto tra principi e imperativi cf. B. Seveso, La pratica della fede. Teologia pastorale nel tempo della Chiesa, Glossa, Milano 2010, pp. 826-830; C. Torcivia, La Parola nel regno. Un percorso di teologia pastorale, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020, pp. 91-94; Id., «La ricerca dell’essenziale frutto del discernimento pastorale», in Orientamenti pastorali 10-11(2021)69, pp. 13-15.

[4] « L’ente singolo concreto è anzitutto, quindi la libera decisione concreta personale e spirituale non è mai, pur rispettando tutta la vera validità dell’universale, un mero caso numerico di essenze universali né è mai deducibile adeguatamente, in linea di principio da principi generali […] la singola decisione concreta, nella sua necessità o non necessità etica, non si può mai adeguatamente risolvere nell’enunciato universale, di un principio, purché non dimentichiamo che anche il “più concreto” dei principi singoli è e rimane sempre un principio universale. La decisione concreta rappresenta anche e sempre un principio universale […] Ma la libera decisione singola e la sua essenza concreta e individuale sono qualcosa in più di un mero caso dell’universale» (K. Rahner, «Problematica teologica di una “costituzione pastorale”», in Nuovi saggi, III, Edizioni Paoline, Roma 1969, pp. 698-699).

[5] Questa affermazione presenta una forte analogia con il tema dell’assoluta centralità della coscienza morale per la vita del credente. 

[6] Zaccaria, «Discernimento e accompagnamento pastorale», op. cit., p. 257 (cf. anche pp. 261-266). Già dal punto di vista pedagogico l’accompagnamento «lontano dall’essere dispositivo di etero-direzione, diventa stile di prossimità, capacità di affiancamento e di supporto, spazio relazionale di confronto, di consapevolezza, di riconoscimento delle fatiche e delle risorse, di rilancio e ripresa del cammino» (P. Triani, «Accompagnare la vita: possibilità e sfide», in A. Montanari – C. Stercal (a cura di), La forma evangelica della fede. Relazioni, itinerari e discernimento, Glossa, Milano 2019, p. 170).

[7] Pur apprezzando lo sforzo d’individuare tre tipologie di discernimento nel discernimento personale, pastorale e comunitario (cf. Zaccaria, «Discernimento e accompagnamento pastorale», cit., p. 257; Id., Chiesa senza paura. Bussola teologico-pastorale per l’annuncio del vangelo nella città plurale, EMP, Padova 2021, pp. 129-139), si ritiene tuttavia che esistano solo due tipologie di discernimento: personale-esistenziale e pastorale. Il discernimento personale-esistenziale (da preferire rispetto a «discernimento spirituale», perché la caratteristica di spirituale – intesa come «nello Spirito Santo» – è condivisa con quello pastorale) ci è consegnato in primis dalla tradizione monastica e, in continuità, dalla tradizione dei gesuiti. Quello pastorale affonda le sue radici nella virtù della prudenza pastorale, che ha accompagnato per tanti secoli la formazione sacerdotale. Oggi è rivisitato con categorie nuove e arricchito anche dalla «conversione pastorale». Le forme concrete con cui il discernimento pastorale – ma anche quello personale-esistenziale – si articola, sono personale, interpersonale e comunitario.

[8] Zaccaria, «Discernimento e accompagnamento pastorale», cit., p. 257.

[9] Cf. P.-A. Liégé, «Position de la théologie pastorale. Une théorie de la praxis de l’Église» in Institut catholique de Paris, Recherches actuelles, I, (Le point théologique 1), Beauchesne, Paris 1971, pp. 62-64. Per uno sviluppo di questa sua idea cf. Torcivia, La Parola nel Regno, op. cit., pp. 71-75.

[10] Per una sintetica ricognizione di alcune prospettive teologiche sui segni dei tempi cf. Ibidem., pp. 19-25.

[11] Cf. F. Cosentino, Dio ai confini. La rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (MI) 2022.

[12] Quando si parla d’inculturazione, sembra che questo termine debba riferirsi sempre ad altri continenti ma non all’Europa e all’Occidente. Bisogna però rivedere questa impostazione e rendersi conto che oggi più che mai c’è bisogno di una nuova inculturazione occidentale, così come quella che è avvenuta storicamente grazie al concilio di Trento e al modello tridentino da esso generato (cf. P. Prodi, Il paradigma tridentino: un’epoca della storia della Chiesa, Morcelliana, Brescia 2010).

[13] Cf. Torcivia, La Parola nel regno, op. cit., pp. 13-18.

[14] I due termini «sinodo» e «concilio» sono fondamentalmente sinonimi.

[15] Cf. S. Dianich, La Chiesa cattolica verso la sua riforma, Queriniana, Brescia 2014; G. Ruggieri, Chiesa sinodale, Laterza, Bari 2017; C. Militello, Sinodalità e riforma della Chiesa. Lezioni del passato e sfide del presente, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (MI) 2023.

[16] Cf. P.M. Zulehner, Teologia pastorale. 1. Pastorale fondamentale, Queriniana, Brescia 1992, pp. 141-247; Id., Teologia pastorale. 4. Futurologia pastorale. La Chiesa in cammino verso la società di domani, Queriniana, Brescia 1992, pp. 33-131; S. Currò, Giovani, Chiesa e comune umanità. Percorsi di teologia pratica sulla conversione pastorale, elledici, Torino 2021.  

[17] Cf. C. Torcivia, L’aggiornamento pastorale in Italia. Modelli di pastorale verso una nuova inculturazione della fede, il pozzo di Giacobbe, Trapani 2022.