Paolo Benanti – docente di teologia morale Pontificia Università Gregoriana

Sembra che la nostra società abbia perso il senso del pudore: i mezzi di comunicazione propongono immagini sempre più esplicite e dirette. Il nostro secolo, con un apice negli anni Sessanta e Settanta, ha sperimentato mutamenti radicali negli atteggiamenti e nei comportamenti in materia di sessualità che hanno spinto verso la detabulizzazione e la liberazione sessuale e hanno prodotto – anzi si sono già lasciati alle spalle – una rivoluzione sessuale che sembrerebbe aver portato a una nuova morale la cui unica norma, fa ciò che vuoi, ha generato una pansessualità sociale. Tuttavia, questa liberazione da norme morali, che alcuni hanno voluto indicare come coattanti e frustranti, non sembra aver prodotto i risultati di felicità sperati. Le riviste scientifiche hanno additato una nuova sindrome che affligge l’Occidente: la sex addiction epidemic (epidemia di dipendenza da sesso), per cui sembrerebbe che questo abbia generato non una società libera da costrizioni in ambito sessuale ma una società malata di sesso. Nel saggio «Gli usi postmoderni del sesso»,[1] Zygmunt Bauman sottolinea come nell’età postmoderna l’erotismo si sia svincolato tanto dalla funzione della riproduzione quanto dall’amore, sin qui cardine dell’esperienza umana. La ricerca del piacere sessuale, secondo Bauman, è assurta a norma culturale come un tempo accadeva per l’amore, dai provenzali ai romantici. L’ansia di cui soffre una gran parte della popolazione occidentale, secondo numerosi studiosi, con punte di depressione endemica, è uno degli effetti di tutto questo. Come educare e accompagnare le giovani e meno giovani generazioni in quella ricerca del senso autenticamente umano della sessualità (una richiesta che di fatto è una domanda morale, essendo la riflessione etica la riflessione per eccellenza sul senso)? Come è possibile far sperimentare la sessualità nella sua verità, cioè un qualcosa di armonico orientato verso una promessa scritta nel nostro essere, cioè la possibilità di amare? Quale pastorale può far percepire quel mistero del dono e del compito (Gabe e Aufgabe in tedesco) che Israele ha imparato a riconoscere come proveniente dall’agire salvifico di Dio e che simultaneamente sgorga anche dalla prima forma di azione del Signore, cioè la creazione? Come trasmettere la promessa che Dio, Creatore, ha dato alla nostra sessualità, cioè la capacità di essere strumento di amore, di comunicare l’amore che diviene il compito di ciascuno di vivere la sessualità al servizio dell’amore? Per cercare di dare un’idea di come la pastorale possa rispondere a queste questioni proveremo a compiere un percorso scandito in tre tappe.[2] In un primo momento affronteremo la questione culturale connessa al discorso educativo, chiedendoci a che livello si ponga la necessità di una educazione della sessualità. In un secondo momento proveremo a delineare alcune caratteristiche che dovrebbe assumere tale pastorale per confrontarsi con le sfide che abbiamo delineato. Infine, in una breve conclusione, ci soffermeremo sulle sfide pastorali che presenta una sessualità che non si dà alla persona tutta in una volta ma pian piano, attraverso le diverse stagioni della vita.

1.C’è bisogno di un’educazione sessuale?

Da un punto di vista biologico l’uomo appartiene alla classe dei mammiferi a cui è accomunato per le caratteristiche di omeotermia, viviparità e cure parentali che prevedono anche l’allattamento della prole: siamo accomunati a molte specie animali per il funzionamento del nostro apparato riproduttivo con una sessualità che si conforma come maschile o femminile ed è ordinata alla procreazione. Da un punto di vista delle abitudini sessuali dobbiamo notare che per i mammiferi gli accoppiamenti avvengono solamente durante il periodo fertile della femmina e la coppia maschio-femmina rimane insieme solo per questo tempo. Va rilevato che la sessualità nel regno animale è orientata all’accoppiamento: dal più generico significato di abbinamento, congiungimento, il termine è passato a indicare prevalentemente l’unione sessuale di animali e indica le modalità, precedute dai preliminari del corteggiamento, della fecondazione della femmina da parte del maschio. Sebbene anche l’uomo appartenga ai mammiferi, la sessualità assume per la nostra specie forme peculiari rispetto all’accoppiamento: l’atto dell’accoppiamento ha implicazioni enormi per tutte le istituzioni umane, lungo l’intero corso della storia e in ogni società che sia stata studiata. Coinvolge religione, mito, etica, morale, medicina, igiene, legge, educazione e norme sociali di ogni cultura, incluse quelle che determinano la distribuzione delle eredità e delle ricchezze. I mammiferi hanno rapporti sessuali solo quando la femmina della specie è fertile, mentre l’uomo ha la possibilità di avere rapporti sessuali quando lo desidera. Se nei mammiferi la sessualità si esprime secondo meccanismi ormonali, nell’uomo è soggetta alla libertà. Anche sulla relazione con il partner l’uomo ha una sua peculiarità rispetto agli altri mammiferi. Mentre le femmine delle altre specie subiscono evidenti trasformazioni fenotipiche nel periodo di fertilità, la donna non ha segni esterni visibili: l’uomo deve mantenere una relazione stabile se vuole avere possibilità di procreare con la propria partner. La maggior parte dei mammiferi diurni si accoppia durante il giorno, mentre le specie notturne lo fanno di notte. L’uomo invece, pur essendo diurno, si accoppia prevalentemente di notte. Questa può essere una conseguenza dell’organizzazione sociale: laddove tutti gli altri mammiferi si accoppiano in pubblico senza imbarazzo, in tutte le società umane, con poche eccezioni, l’uomo e la donna che si accoppiano ricercano la privacy, e tanto i preliminari quanto l’atto sessuale risentono di disturbi esterni anche di poco conto. Ulteriore peculiarità dell’uomo è il parenting. Se nelle altre specie di mammiferi la relazione tra genitori e neonato dura il periodo dello svezzamento, cioè fintantoché il cucciolo non raggiunge l’autonomia e la maturità sessuale, nell’uomo la relazione parentale non termina ma caratterizza tutta l’esistenza umana. La relazione padre-figlio e madre-figlio non termina perché si rimane genitori di quel figlio e figli di quei genitori per tutta l’esistenza umana. Volendo riassumere queste caratteristiche possiamo dire che nell’uomo la sessualità si dà profondamente connessa alla libertà – non è meccanicamente legata alla fertilità della donna – ma proprio lì dove si dà il massimo della libertà la natura umana genera il massimo del legame – legame nella coppia e parenting. Allora se per il mondo animale per parlare di sessualità basta l’etologia – la disciplina scientifica che studia il comportamento animale nel suo ambiente naturale – per la sessualità umana, essendo questa una questione di libertà e responsabilità, c’è bisogno di un’etica – la ricerca dei fondamenti e dei criteri che consentano alla persona di gestire adeguatamente la propria libertà riconoscendo i comportamenti buoni e giusti: la sessualità umana è intrinsecamente una questione etica, cioè di bene capito e voluto, di scelte, di criteri e di progetto di vita. Da quanto fin qui emerso appare evidente come la sessualità umana, da un punto di vista meramente biologico, sia descritta in maniera incompleta perché si presenta con una certa plasticità e questo le fa assumere forme disomogenee nelle diverse culture e nei diversi periodi della storia. In ogni tempo, comunque, si registrano processi di comprensione culturali – cioè di natura collettiva – che orientano e normano l’esercizio della pratica sessuale verso il bene capito. Questo processo non è mai un qualcosa lasciato all’arbitrio del singolo individuo ma segue le dinamiche proprie dell’ethos: la sessualità ha sempre fatto parte dell’etica (nel senso proprio e nel senso etimologico di costumi di un popolo). Nella cultura occidentale nel corso dei secoli iniziano a formarsi riflessioni via via più complete e approfondite sulla sessualità. Anche la fede partecipa di questo processo e non è mai ritenuta estranea o incompetente nel fornire indicazioni riguardo ai costumi. Appare altresì evidente come sia necessario sviluppare una corretta antropologia morale per parlare correttamente della sessualità. Questa antropologia deve essere illuminata dalla comprensione teologica. La riflessione morale non è, come sosteneva Reich,[3] una sorta di sovrastruttura nata dalle nevrosi sociali che vogliamo applicare all’ambito della sessualità; è, invece, necessariamente richiesta dalla costituzione umana del fenomeno sessuale. La morale sessuale è l’espressione più umana che la persona ha per orientare la plasticità sessuale verso l’attuazione concreta del bene possibile in un concreto contesto storico. Allora l’uomo, per sua stessa costituzione, ha bisogno di sviluppare una antropologia sessuale per comprenderne le plurime valenze antropologiche e ha bisogno di una morale sessuale per orientare la libertà sessuale verso il bene capito e voluto: una sessualità al servizio dell’amore. Il compito, non automatico e non univoco, di vivere la sessualità nell’amore è allora la ragione che ci fa a rispondere alla domanda sottesa a questa sezione: «Sì, è necessaria un’educazione alla sessualità». Poiché la sessualità è soggetta a un’evoluzione non solo biologica, ma anche psichica, psicologica e spirituale, è resa partecipe di quel processo culturale di perfezionamento della persona che prende il nome di educazione. L’educazione è quell’attività, influenzata nei diversi periodi storici dalle varie culture, volta allo sviluppo e alla formazione di conoscenze e facoltà mentali, sociali e comportamentali in un individuo. Dobbiamo precisare che nella lingua italiana il suo utilizzo, rispetto a termini come istruzione o formazione, è talvolta equivoco: infatti la parola educazione è spesso ritenuta complementare di insegnamento o istruzione anche se quest’ultima voce tende a indicare metodologie più spiccatamente trasmissive dei saperi e non di autorealizzazione delle potenzialità e delle attitudini uniche della persona. Il fatto che la persona sia chiamata a compiere un processo autoeducativo comporta una responsabilità e un impegno di natura morale: il pieno sviluppo della maturità sessuale e la capacità di saper vivere la sessualità al servizio dell’amore è affidata alla responsabilità umana. Questo compito è, come in ogni altro campo del processo educativo, affidato in primo luogo alla famiglia che, però, da sola non basta. La pastorale deve saper offrire occasioni di supporto e integrazione alla famiglia nel processo educativo.

2.L’educazione della sessualità è il luogo dei no?

La sessualità abbraccia tutta la persona, in ogni tipo di espressione che essa ha. Potremmo dire che la persona, in tutta la sua altezza o da cima a fondo o a tutti i suoi livelli è sessuata: a livello fisico-biologico, a livello psichico-psicologico e a livello spirituale. La sessualità è capace di intercettare valori e di avere significati che arrivano fino alla parte più profonda, al centro, per così dire, della persona. Si tratta chiaramente di una potenzialità che, proprio per la natura personale che assume la sessualità, non si configura mai come un automatismo. In generale, quindi, possiamo dire che i gesti della sessualità possono essere più o meno profondi: spetterà alla persona interrogarsi sul significato dei gesti sessuali che compie e su come la sessualità stessa chiami in causa, nelle diverse circostanze, il darsi di libera e consapevole responsabilità. Se accogliamo le istanze più profonde che la sessualità offre all’uomo, i suoi gesti e le sue manifestazioni avranno la stessa densità e profondità della persona. Come la persona si esprime a diversi livelli di profondità, così la sessualità può essere vissuta più o meno profondamente, coinvolgendo la persona nella sua realtà più profonda. A una primissima analisi potremmo dire che il sesso, la sessualità vissuta solo a livello genitale, rappresenta la forma più superficiale; l’attrazione fisico-sentimentale che impegna in una relazione rappresenta una forma più profonda che trova il suo complimento nell’agape, nel porre la sessualità al servizio dell’amore nella sua forma oblativa. Un’analisi più approfondita ci spinge a riconoscere nella sessualità umana una dimensione precipua. L’uomo è un essere di linguaggio in un senso globale: non si tratta solo della forma verbale ma di tutte quelle forme espressive che, in modi diversi e complementari, rientrano nel fenomeno della comunicazione umana quali i sovra-linguaggi gestuali e oggettuali, gli infra-linguaggi che, in modo più o meno inconscio, accompagnano le nostre comunicazioni e tutti quei linguaggi collaterali mediante cui ci esprimiamo in molteplici modi. La struttura linguistica della persona deriva dalla sua identità radicalmente relazionale e propria della sua costituzione di spirito-nel-mondo. La struttura fondamentale dell’essere umano è quella di essere aperto all’altro, per l’uomo esistere è coesistere: l’uomo non si percepisce e si realizza in modo pienamente umano che nel rapporto d’incontro (fatto di accoglienza e di dono) con l’altro/altri. Di tale struttura relazionale, in forza della sua capacità di mediare anche i significati più profondi, partecipa in maniera simbolica la sessualità: questa può essere simbolo rappresentativo e realizzativo della persona solo in quanto si rende capace di esprimere una manifestazione consapevole dell’io spirituale. La sessualità è una forza che serve per edificare la persona e aprirla verso l’esterno. Per questo è da considerare fattore di crescita, di identificazione e integrazione personale, fattore di apertura verso la relazione interpersonale. La sessualità cresce con la persona, si fa larga, si espande quanto la persona. In qualità di comunicazione interpersonale deve essere capita come un linguaggio e, intesa come funzione biologica, ha come scopo la riproduzione e la conservazione della specie. Occorre notare, però, che sempre, presso ogni popolo e ogni cultura, in tutti i tempi, la sessualità non ha svolto semplicemente la funzione biologica della riproduzione, ma è stata ed è il luogo privilegiato della forma di comunicazione e di incontro interpersonale dell’amore. Particolarmente significative sono le osservazioni fatte da Xavier Lacroix nel suo studio «Corpo di carne»,[4] in cui esprime molto efficacemente cosa vuol dire che la sessualità sia linguaggio dell’amore. Ci sembra opportuno riproporre qui brevemente, a complemento di quanto emerso, una sintesi della sua analisi. L’unione sessuale non è fatta solo di sensazioni ma anche di gesti che non sono semplicemente dei mezzi per giungere a un obiettivo determinato già in anticipo (orgasmo), ma sono essi stessi degli atti, cioè hanno per se stessi un senso. La persona, ciascuno di noi, abita i suoi gesti (simbolo): essi non sono semplicemente i nostri delegati o i nostri strumenti, ma sono noi stessi o, meglio, ciò in cui noi siamo incarnati e agiamo. Applicando questa consapevolezza all’ambito della sessualità, possiamo così intravedere una semantica dei gesti di tenerezza che può divenire linguaggio d’amore. Proviamo ad analizzare alcuni di questi gesti.

La carezza. La carezza non è solamente contatto o tentativo di appropriazione (mettere le mani sul corpo dell’altro): nella sua radice più profonda (autentica) è celebrazione del corpo dell’altro, gesto che lo plasma. È una esperienza di spossesso nella forma più grande di prossimità. La carezza è desiderio o, meglio, è il linguaggio stesso del desiderio. Si può vedere la carezza, parafrasando Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, anche come un reciproco addomesticarsi. Un far sentire l’altro e il suo corpo come luogo. Un luogo che non esiste come mero strumento di piacere ma di intima alleanza, di incarnazione, di creazione.

L’abbraccio. Abbracciare primariamente significa cingere con le braccia. Esistenzialmente vuol dire che, come soggetto, ho prima aperto le braccia per accogliere l’altro e poi le ho richiuse per riceverlo realmente nello spazio che mi è proprio, nel mio intimo. È riservare un posto all’altro nella mia intimità. L’abbraccio è un gesto di tenerezza in cui ci si può riconoscere vulnerabili attendendo la salvezza dalla confessione della propria debolezza.

Il bacio. Posare le labbra sulla pelle o sulle labbra dell’altro, non è divorare l’altro ma venerare (adorare nel suo etimo viene dal composto latino ad e orare denominativo di os, al genitivo oris, che significa bocca). È un gesto di prossimità ancora più grande della carezza o dell’abbraccio.

La penetrazione. È un atto di ospitalità in cui ospite è tanto chi accoglie che chi è accolto. È un gesto che sembra realizzare un desiderio profondo in ciascuno di noi di essere incluso. È necessario però portare l’analisi oltre l’orgasmo. Fermarsi all’unione lascerebbe l’analisi mutilata. Si dimenticherebbe che l’atto sessuale è anche, e inseparabilmente, l’atto mediante il quale la procreazione è, è stata o potrebbe essere possibile. È un atto simile a quello da cui hanno avuto inizio gli stessi protagonisti dell’atto. La loro memoria profonda, l’inconscio per gli psicanalisti, ne conserva traccia (la scena primitiva della psicanalisi). La possibilità della fecondazione fa parte dei dati costitutivi dell’unione. L’integrazione della prospettiva della fecondità fa parte del senso pieno della sessualità: non è qualcosa che le si è aggiunto in più, ma è in continuità con essa. Il senso dei nostri gesti, come visto, non viene solo dalle nostre intenzioni, ma anche dal loro essere radicati nel biologico, nel nostro organismo.

Da questa incursione semiotica nei gesti sessuali appare evidente come l’etica dell’amore non sia esterna all’autentica esperienza della sessualità, non sia una sovrastruttura aggiunta dalla società per il controllo del piacere, ma sia una caratteristica dell’umano in coerenza profonda con ciò che i gesti della sessualità possono significare. Tuttavia, il senso dei nostri gesti non è mai limpido. Guardando al compiersi degli atti, resta sempre l’ambiguità, tanto dei gesti in quanto tali, quanto del desiderio che li sottende. Non ce ne è uno che non possa essere interpretato in doppio senso, non ce ne è uno la cui faccia luminosa non nasconda una faccia più oscura. Così: la carezza può essere tentativo di possesso o manovra di seduzione; cingere con le braccia può essere accerchiare o assediare, come appendersi all’altro in cerca di un salvagente; il bacio con la sua oralità può significare divorare, il primo senso della bocca; la penetrazione può aver luogo al di là del reciproco consenso, fino allo stupro. Oltre al contesto immediato, la sessualità può diventare interpersonale, cioè rendere effettiva l’unione di due persone solamente se integrata in una dinamica più globale con un certo numero di opzioni di fondo tra i partner e se vissuta in modo da essere intellegibile. Tutto questo rende evidente come la sessualità spinga a un cammino di attaccamento ma che necessita, per essere linguaggio privo di ambiguità, di una opportuna integrazione nel tempo e di un adeguato cammino educativo che renda in grado la persona di far parlare alla sessualità il linguaggio dell’amore.

3.Le sfide pastorali

La sessualità necessita di un cammino per poter essere vissuta come trasparenza dell’amore. Questo cammino è tanto individuale, come percorso di discernimento del singolo sul reale significato degli atti sessuali che pone, quanto di coppia, come capacità di comunicazione che si acquisisce nell’insieme e nel complesso della vita affettiva e relazionale. L’educazione alla sessualità nell’uomo e nella donna si deve inserire a questo livello. In questo contesto culturale che percepisce la semplice trasmissione delle norme morali come un qualcosa di culturalmente muto, bisogna proporre cammini che sappiano porre la persona di fronte a questa capacità della sessualità di essere linguaggio autentico dell’amore. Più di un insieme di no, l’educazione alla sessualità deve presentarsi come un cammino positivo che permetta alla persona di esprimere quel profondo desiderio d’amore che la anima in un modo sincero e trasparente nel linguaggio dei gesti della sessualità perché siano autentici espressione d’amore. L’educazione alla sessualità è quindi un’alfabetizzazione all’amore della persona sessuata. Per affrontare questa sfida la pastorale dovrà creare dei luoghi ove poter far fare esperienza di senso e di crescita umana che consentano alla persona di vivere la sua natura sessuata nell’amore. Nel campo della sessualità emergono esigenze nuove di approfondimento e di una giusta ricollocazione della sessualità nella vita umana. Questo compito, affidato in primo luogo alla famiglia, ha oggi quanto mai bisogno di sostegno ecclesiale per vincere la presente sfida culturale e sociale di una sessualità vista come mero strumento di piacere. Ciò vale soprattutto per il confronto con quella fase critica che è la pubertà e l’adolescenza. La pubertà è quella sta­gione della vita in cui la persona, maschio o femmina, va incontro a tutta una serie di trasformazioni ormonali, psicologiche e fisiche che la con­durranno ad assumere la fisionomia tipica della personalità adulta e la propria identità sessuale. L’adolescenza (dal latino adolescentia, derivato dal verbo adolescĕre, «crescere», il cui participio passato, adultum, significa «cresciuto») è quel tratto dell’età evolutiva caratterizzato dalla transizione dallo stato infantile a quello diindividuo adulto. Questa fase dello sviluppo della persona è stata individuata nel tardo Ottocento, quando l’espressione adolescente si usava per indicare i giovani e le giovani sessualmente maturi ma che socialmente ancora non erano considerati capaci di essere autonomi e di formare una famiglia. Quando si parla di adolescenza, è molto importante ricordarsi che essa è un tema di carattere prettamente psicologico, e darle limiti fissi è un’impresa molto ardua. Guardando al nostro tema è importante considerare che lo sviluppo psicologico-emozionale non procede sempre di pari passo con lo sviluppo fisico; le società occidentalizzate stanno provocando un ritardo sempre maggiore dello sviluppo psicologico; più tardi si verificherà lo sviluppo puberale, più tardi finirà l’adolescenza; oggi sempre più certi tratti psicologici considerati tipici dell’adolescenza permangono oltre la prima giovinezza per certi individui. L’adolescenza è quindi quel periodo di attesa tra un già di una sessualità biologicamente matura e un non ancora di una non piena capacità di viverla nell’amore. È il tempo, per utilizzare le parole di Saramago citate all’inizio di questo articolo, di ricerca di quell’isola misteriosa che sarà l’adultità vissuta nella maturità sessuale e nell’amore. È il tempo della completa definizione della propria identità sessuale. È il tempo fragile e incerto che la nostra azione pastorale dovrà saper accompagnare con maggiore attenzione e cura. Questi luoghi della pastorale dovranno avere il compito etico di mostrare vie di senso di una sessualità vissuta nell’amore. Dovranno essere luoghi del magis dove non si vive semplicemente la sessualità nel tentativo di evitare il peccato, ma come un modo per vivere nell’amore e per l’amore. Si dovranno abbandonare alcuni silenzi in materia di sessualità che sono solo il retaggio di passati tabù in ambito sessuale, per farsi accompagnatori dei ragazzi e delle ragazze che ci sono affidati in questo cammino verso la pienezza dell’amore con un linguaggio franco e che sappia indicare la bellezza creazionale posta nel nostro essere sessuati. Infine, come luoghi ecclesiali, questi spazi pastorali dovranno essere in grado di trasmettere un’indicazione di bene che non sia espressione di un arbitrio individuale ma di una comunione ecclesiale nella fede: saper indicare l’amore alla luce dell’amore.

[1] Cf. Z. Bauman, Gli usi postmoderni del sesso, Il Mulino, Bologna 2013.

[2] Vista la natura di questo contributo ci sembra impossibile andare oltre alcune semplici linee prospettiche. Per chi desiderasse approfondire il tema rimandiamo a P. Benanti, Amerai!, Cittadella, Assisi 2014.

[3] Cf. W. Reich, La rivoluzione sessuale, Feltrinelli, Milano 1963.

[4] Cf. X. Lacroix, Il corpo di carne. La dimensione etica, estetica e spirituale dell’amore, EDB, Bologna 1997.