Testo di G. Ruggeri (Meditazione nelle Lodi)

Professore di Teologia pastorale e digitale all’Istituto Teologico di Pordenone

Facoltà Teologica del Triveneto – itapn.it

 

 

«Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione». (2 Cor 1, 3-5)

 

Consolare. Per 6 volte in tre versetti san Paolo sottolinea questa parola. Una parola che 100 anni dopo diventa il centro della missione e del ministero di Ireneo di Lione, di cui oggi facciamo memoria, morto martire nel 202 d.c.

Il gesuita Francesco il 21 gennaio 2022 dichiara Ireneo Dottore della Chiesa con il titolo di Doctor unitatis. «Sant’Ireneo di Lione – così scrive nel decreto Francesco – venuto dall’Oriente ha esercitato il suo ministero episcopale in Occidente: egli è stato un ponte spirituale e teologico tra cristiani orientali e occidentali».

Le migrazioni del tempo attuale non sono da considerarsi un fenomeno, ma sono strutturali. Le parrocchie di città come le parrocchie di montagna sono la mappa in tempo reale della risignificazione del mondo in miniatura nei nostri territori, con le proprie etnie dense di spiritualità, cultura, tradizioni, stili di vita. Oriente e Occidente non sono più un binomio geopolitico, né culturale, né teologico: sono pane quotidiano nelle nostre vie, nei nostri supermercati, negli oratori, nei grest, nelle consegne dei corrieri amazon.

Ireneo di Lione è morto nel dare la sua vita per l’unità, la riconciliazione, la pacificazione tra i popoli. L’alto tasso di solitudini sta generando altrettanti elevati tassi di tossicità nelle parole come nelle azioni. Frederick, 43 ghanese senza fissa dimora, ucciso mercoledì scorso (21 giugno 2023) a colpi di calci in faccia da due sedicenni a Pomigliano d’Arco è la reiterata prova di come la tossicità si trasforma in normalità per futili motivi. Gli inquirenti hanno arrestato i due ragazzi grazie al successivo raffronto con i contenuti multimediali pubblicati dai medesimi sui propri profili social network, dove, cito, «emerge la presenza di contenuti che esaltano la violenza, con immagini di coltelli e bastoni retrattili».

La cronaca è diventata la nuova agenda tematica dalla quale trarre argomentazioni di riflessione e confronto per un insegnante a scuola, per un educatore al grest, per un catechista ai sacramenti, per un parroco alla sua gente, per un sindaco alla sua cittadinanza, per un vescovo al suo presbiterio.

La tribolazione di cui parla san Paolo può essere, oggi, la tribolazione che si trasforma in frustrazione in un laico impegnato in parrocchia che tocca con mano la pastorale del take away (prendi e porta via) nei giovani genitori con i figli della prima comunione e della cresima. Può essere la tribolazione che si trasforma in rassegnazione in un parroco di 6-8 parrocchie che tristemente si paragona al suo collega corriere amazon: se questo consegna pacchi, lui consegna Messe.

Per decenni le generazioni dei nonni hanno trasmesso ai figli l’assioma: Messa uguale credere. Nei decenni successivi i loro figli, sposandosi o convivendo, si sono sganciati da questo assioma come un abito che va stretto e per il quale non poche generazioni di parroci hanno contributo ad alimentare. Ireneo di Lione è partito dall’Oriente ed è venuto in Occidente, lasciando una terra sicura per una terra ignota.

Le periferie indicate da Bergoglio, calamitanti di interrogativi nei presbiteri e nei presbitèri, ci costringe nel tempo attuale di un cristianesimo afono, a ricollocare la stessa eucaristia nel significato che la storia, questa nostra storia, ci sta consegnando. Se Eucaristia è rendere grazie, la nostra gente – giustamente – ci sta dicendo che il luogo in cui ringraziare Dio come comunità è certamente la chiesa, come luogo di culto, ma non può essere racchiudibile solo al suo interno.

Preparando il corso teologia pastorale per il prossimo anno accademico all’ITA di Pordenone, centrato sulla pastorale nel magistero di papa Francesco, ho definito uno dei tratti della metamorfosi della pastorale in questi dieci anni di pontificato, ed è quello che chiamo la simmetria testimoniale evangelica.

In Italia e in Europa per decenni hanno avuto lunga vita i cosiddetti modelli a-simmetrici: io Chiesa ho un messaggio da portare a te persona, inoculando nel contempo il messaggio: io ho qualcosa che tu non hai o hai poco (la fede) e se vuoi averla ti aspetto in chiesa per la Messa! In questo lungo arco temporale quando, come dice san Paolo nella lettura breve, abbiamo incontrato persone «in qualsiasi genere di afflizione» la nostra risposta nella prassi pastorale è stata, prevalentemente, di partecipare ai riti liturgici, come se il rito fosse l’unica mano tesa.

La gente, però, ha un fiuto superiore e negli anni è iniziata la migrazione – senza ritorno – portando le persone a uscire dal binomio fede-rito per non farvi più ritorno, se non nelle occasioni legate ai riti di passaggio, specialmente quello delle esequie l’unica occasione nel tempo attuale che il parroco ha per dare bocconi di Vangelo a persone che han scelto il digiuno rituale.

A mio avviso Bergoglio, vedendo le molteplici forme emorragiche nella Chiesa, particolarmente quella italiana, ha chiesto indistintamente al popolo di Dio di esercitarsi in quella che ho poc’anzi definito simmetria testimoniale evangelica: non c’è un qualcuno che ha rispetto a chi non ha – rafforzando il ruolo come scampolo di significatività sociale – ma c’è un sensus fidelium del popolo santo di Dio che è simmetrico, paritario. Ed è qui che entra nel vivo concreto e quotidiano «con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio».

Il vicolo cieco, pertanto, dal quale queste giornate del COP ci aiutano ad uscire è che Ru. Ed è questa che sarà il potenziale che farà tenere viva una porzione di persone in un piccolo centro, nelle baracche del post terremoto di Amatrice, nelle vallati delle nostre montagne. Non serve un corso teologico per affidare a una coppia di famiglia le chiavi del tabernacolo per ritrovarsi assieme come borgo e fare rendimento di grazie come popolo di Dio.

Quello che invece servirà in prospettiva, a breve, è l’avvio di scuole teologiche che preparino laici a guidare comunità non tanto in assenza di presbitero – concezione questa che rafforza il concetto di mancanza – quanto invece laici che guideranno comunità con la ricchezza della propria esperienza di fede e di un far trafficare la consolazione di Dio. In tal senso ho apprezzato la scelta di Roberto Repole arcivescovo di Torino, di aprire un Istituto teologico finalizzato alla formazione di laici che guideranno comunità per un arco iniziale di 5 anni, vedendo in itinere il suo evolversi.

Concludo questa meditazione offrendo al tavolo di riflessione del COP e alla riflessione delle nostre diocesi e realtà dalle quali proveniamo, e oggi ritorneremo, a ripensare e ridefinire – laici e preti insieme come popolo santo di Dio – i tanti luoghi presenti nel territorio dove, di fatto, ogni giorno si sta rendendo grazie a Dio con delle ritualità non con codici linguistici liturgici, ma con una ministerialità casalinga (e nella pandemia si è persa una svolta sostanziale).

I luoghi di culto sono sempre meno abitati e vi sono luoghi di vita feriale rassomiglianti a quanto ci raccontano gli Atti degli Apostoli.

Non è la fine del culto liturgico, ma è la sua metamorfosi. Per questo, come dicevo ieri, assenza e mancanza non determinano la fine, ma aprono la strada ad uno dei 4 criteri di Bergoglio in EG 231: la realtà è più importante dell’idea.

Lo è anche quando delle famiglie di un piccolo centro si mettono insieme per aiutare un bambino del paese, con una grave distrofia muscolare, a raggiungere ogni giorno la scuola nel paese vicino perché i suoi genitori non ci riescono più. Questa è Eucaristia, questo è rendimento di grazie vissuto e celebrato da persone alle quali non è chiesto se credono in Dio, perché già ci stanno dicendo, con questi gesti, che credono nella vita e nella dignità che va data e restituita ad ogni persona.

L’eucaristia celebrata nel rito liturgico e il rendimento di grazie espresso dai mille risvolti e celebrato nella ferialità vanno tenute assieme, vanno sostenute, vanno accompagnate perché sono il terreno dove Dio Padre si fa consolazione nel suo popolo.

La domanda non è se avremo preti che celebrano, ma se vogliamo credere a quell’abbondanza che ci dice san Paolo che è già presente in tante donne e uomini, giovani e adulti che, di fatto, in città e in montagna, nel quartiere e nel piccolo centro stanno «consolando quelli che si trovano in qualsiasi genere». E lo fanno da figlie e figli di Dio.