Francesco Cosentino – officiale della Segreteria di Stato, docente di teologia presso la Pontificia Università Gregoriana

La verità cristiana non è un contenuto teorico statico, a se stante rispetto al processo travagliato e al contempo affascinante della storia umana; al contrario, cuore del cristianesimo è la rivelazione di un Dio che si presenta come Dio-con noi, che si immerge nell’umano, che ha volto e carne nella storia di Gesù, il Cristo. Ciò significa, però, che il cristianesimo può dirsi e può darsi solo all’interno degli orizzonti culturali e storici in cui si incarna, come proposta che non si conserva fuori dal tempo, bensì prende forma nella relazione con la cultura e con le culture, accogliendone con atteggiamento di simpatia gli aspetti fondamentali e, al contempo, avanzando una critica profetica su quelle realtà che minacciano la dignità dell’uomo e la sua legittima aspirazione a una vita differente, in una società giusta, pacifica e fraterna. Oggi è più che mai urgente una nuova lettura teologico-pastorale della realtà in cui viviamo. Non siamo gli ultimi cristiani e, tuttavia, i cambiamenti culturali degli ultimi decenni mettono in crisi molti dei nostri modelli e dei nostri stili di «dire» e di «fare» il cristianesimo. Mentre si è andata spegnendo l’euforia del mondo moderno e, ancor più, è tramontato il tempo della cristianità, quando tra la fede e l’ambiente circostante sembrava esistesse una maggiore integrazione, si è fatta strada una nuova fase culturale che, almeno in Occidente, si configura come un contesto post-cristiano[1] e al contempo post-ateo.[2]

Dunque, ha ancora senso parlare di Dio? Di quale Dio? Come? O, con le parole di Paul Tillich: «il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».[3]

  1. La fine della modernità

 Bisogna interrogarsi su cosa è cambiato, anzitutto, sulla fine della modernità e sull’avvento della cultura postmoderna. Quando ci si riferisce all’epoca moderna, che può essere situata grossomodo tra il 1600 e la fine del 1800, il pensiero corre veloce allo sviluppo delle scienze moderne, alla crescita esponenziale del progresso in diversi ambiti della vita e della società e all’importanza della ragione umana che diventa protagonista soprattutto grazie al processo dell’illuminismo. I parametri interpretativi cambiano notevolmente: non è più Dio il centro dell’azione e della storia, ma l’uomo con le sue capacità e il suo progresso, capace di trasformare e manipolare le cose e il mondo attraverso la potenza della ragione e l’efficienza del progresso tecnico-scientifico. L’era moderna, dunque, con la sua fede nella ragione e nel progresso e l’euforia dello sviluppo tecno-scientifico, si caratterizza come un tempo trionfante, carico di attese e prospettive, gravido di futuro.

Oggi appare evidente, però, che il progetto euforico della modernità con le promesse di salvezza e le speranze di redenzione, sia in gran arte fallito. L’utopia dell’epoca moderna si è frantumata sotto i colpi di un crescente scetticismo e di un pessimismo disincantato, che affondano le loro radici in particolare nelle tragedie del Novecento, tra cui le due guerre mondiali e nel constatare che la scienza, il progresso, la tecnica e i grandi ideali politici, pur apportando effetti positivi nella società e nella storia, hanno prodotto anche eventi devastanti, hanno mostrato il loro lato ambiguo, spesso sono diventati sistemi totalitari. L’epoca moderna cede il posto al tempo della postmodernità: è il tempo della stanchezza, di un uomo sfiduciato e disilluso, che preferisce abitare il presente senza grandi ideali, senza porsi grandi questioni sulla verità, senza affidarsi a grandi progetti. Così, in una società che, come sappiamo, Bauman ha definito «liquida», l’uomo postmoderno vive identità, valori, stili e pratiche che restano indefinite, aperte, mobili e che, soprattutto, sono contrassegnate dalla molteplicità e dalla pluralità.

Le persone del nostro tempo e le nostre attuali società vivono nell’ottica di una continua ridefinizione del proprio vissuto e della stessa idea di vita e di società, attraverso una vera e propria «contaminazione» di punti di vista differenti e una continua mescolanza di aspetti, idee e valori diversi. In tale contesto, abbiamo bisogno di una nuova interpretazione della cultura in cui viviamo.

 Dio ai confini? Discernere la cultura attuale

Il nostro tempo, proprio per la sua configurazione postmoderna, non è segnato da un ateismo polemico e militante. Tuttavia, una profonda crisi, che assume più i contorni della dimenticanza, segna la fede cristiana, l’appartenenza ecclesiale, i simboli stessi del cristianesimo e lo stesso contenuto del messaggio cristiano. Siamo in presenza di una vera e propria «crisi di Dio», per lo più manifestata da una sorta di abbandono del problema stesso di Dio, di uno spegnimento dell’inquieta domanda religiosa: Dio è semplicemente colui al quale non ci si riferisce più. Per usare una metafora il più possibile eloquente, sembra che Dio sia stato messo ormai ai confini della vita e della società, relegato ai margini delle esistenze e della coscienza; e, tuttavia, proprio questa situazione potrebbe rappresentare un’opportunità da cogliere, dal momento che è la stessa fede cristiana a situare Dio «ai confini»: un Dio che ha lasciato i cieli per varcare la soglia della storia umana, un Dio che abita i confini più fragili dell’esistenza umana e che, morendo fuori dalle mura della città, sul «confine», attraversa il confine della morte e la illumina di vita nuova. Egli, con la sua misericordia e compassione, annuncia al centro della nostra vita e della nostra storia che rinascere è sempre possibile, perché ogni limite è un confine che possiamo superare in quanto luogo abitato dalla sua presenza e beneficato dal suo passaggio. Anche come Chiesa, allora, raccogliendo l’invito che dall’inizio del suo pontificato papa Francesco ci ha rivolto, dobbiamo situarci senza paura lungo i confini: stare sulla soglia, uscire dalle nostre comodità e sicurezze, avviare un processo di trasformazione della nostra mentalità spirituale e pastorale. Il primo compito di una Chiesa che intende «abitare le frontiere» del nostro tempo, senza moralismi o rigidità, è quello di procedere a un nuovo discernimento della cultura. Allo stesso tempo, il cristianesimo non si appiattisce alla cultura del tempo semplicemente accogliendone gli impulsi e le dimensioni; il discernimento implica anche un «giudizio» che il vangelo esprime sulla cultura laddove essa si presenta con visioni antropologiche riduttive o con i segni del male che, in tutte le sue forme più variegate, schiavizza la persona umana e ferisce la sua dignità e la sua libertà. Ciò significa che occorre un cristianesimo ospitale verso il contesto ma, al contempo, capace di creare una nuova cultura, di allargare gli orizzonti della vita, di mettere sotto accusa ciò che degrada l’uomo e i popoli, di inaugurare nuove forme e nuovi stili di convivialità, fraternità e comunione.

Ciò che urge è il discernimento della cultura, cioè la capacità di entrare con gentilezza e rispetto nella storia, interpretare il vissuto dei nostri destinatari, entrare nel campo delle loro immagini, dei loro linguaggi e dei simboli della loro vita, cercando di scoprire il bene nascosto, l’opera silenziosa dello Spirito, la segreta presenza del mistero divino e, al contempo, cercando di elevare questo patrimonio e di trasformare le ombre annunciando la luce del vangelo.

  1. Sfide del nostro tempo

Nel processo di discernimento dell’odierna cultura, possono essere individuate alcune sfide che caratterizzano il nostro tempo. Ci si può chiedere: cosa c’è sulla soglia oggi? Quali sono i confini verso cui come comunità cristiana dobbiamo muoverci e che implicano un rinnovato slancio nell’evangelizzazione? Certamente quello attuale è anzitutto un tempo segnato da una visione secolarista della vita. La secolarizzazione si è spostata da un livello puramente sociologico ed esteriore, al più profondo livello dell’interiorità dell’uomo, della sua visione generale e dei suoi stili di vita. Come afferma Charles Taylor, sono cambiate le condizioni interiori che consentono o ostacolano l’accesso alla fede:[4] a essere in crisi è anzitutto il cambiamento delle condizioni di possibilità del credere dovuto alla secolarizzazione. Il fenomeno, cioè, riguarda l’immaginazione spirituale. La secolarizzazione, infatti, agisce oggi in profondità, restringendo il desiderio dell’uomo, rimpicciolendo le speranze che vanno oltre l’immediato, condizionando il nostro immaginario interiore e quindi la nostra interpretazione della vita. In questo orizzonte si colloca quella nuova forma di assenza di Dio che non è un vero e proprio ateismo ma, come si diceva, una sorta di dimenticanza, una indifferenza religiosa, un’apatia nei confronti della domanda su Dio. Si preferisce semplicemente visitare il mondo, senza domande, assuefatti alla dittatura del consumismo e della fretta, incapaci di spazi di silenzio e di vere relazioni personali e, in tale situazione, per Dio e per la fede non c’è posto.

Questa condizione pone al cristianesimo alcune sfide che andrebbero affrontate sia sul piano più strettamente teologico che su quello ecclesiale. Anzitutto, dinanzi a una simile e complessa evoluzione del mondo della coscienza personale, occorre reinvestire tutte le energie cristiane ed ecclesiali su un rinnovato annuncio del vangelo. L’evangelizzazione va rimessa al centro di ogni azione spirituale ed ecclesiale. Non limitandosi a un qualche aggiornamento dei linguaggi e di altre mediazioni, quanto dell’impegno a riproporre in modo nuovo la vicinanza/prossimità di Dio svelataci in Gesù Cristo, come promessa di felicità per la vita umana e compimento della storia. Si tratta quindi di uno sforzo corale per riproporre la fede stessa non come un contenuto di verità astratte, un insieme di informazioni da imparare o di comandamenti da osservare, ma come l’evento decisivo di un incontro personale con Dio. Ciò implica un rinnovamento dei linguaggi, un totale capovolgimento degli attuali approcci alla catechesi dell’infanzia, una visione generale che liberi l’evangelizzazione dal rischio di ridursi a semplice trasmissione intellettuale/conoscitiva di un contenuto, per diventare «generativa», cioè per «iniziare» alla fede e a relazioni umane fondate sull’amore.

Ciò implica un intenso lavoro di purificazione del nostro immaginario, dei nostri linguaggi e, in particolare, delle immagini e rappresentazioni di Dio che pratichiamo. E qui emerge una seconda sfida intimamente connessa alla prima: purificare e trasformare le nostre immagini di Dio. Evangelizzare sì, ma quale Dio? Tutto ciò che nell’evangelizzazione, nei linguaggi, nelle forme del credere e in quelle ecclesiali si può fare, dovrebbe tendere ad annunciare e manifestare il Dio che si è rivelato in Gesù, Dio della compassione e della tenerezza, Dio della libertà che non si sostituisce all’uomo e non pretende di governare tutto dall’alto, Dio amico dell’uomo. Il tema dell’immagine di Dio è altresì legato a quello dell’immagine, della forma e dello stile di Chiesa. Nella società laica, secolarizzata e plurale in cui viviamo, molte sono le sfide che interessano anche il modo di essere e di vivere la comunità cristiana, a cominciare dalla necessità di una nuova configurazione del rapporto tra parrocchia e territorio, che tenga maggiormente conto dei ritmi attuali di vita nell’odierna. Una Chiesa che si presenti ancora col volto arcigno, come unico e assoluto deposito della verità al di fuori del quale non c’è salvezza e che preferisca il registro della condanna invece che quello del vangelo, non può essere attraente. Vincendo la preoccupazione della rilevanza sociale e politica, la Chiesa dovrà pensare se stessa come comunità in cammino in mezzo ai travagli della vita, pellegrina, che nella storia accompagna i suoi figli alla scoperta del Regno.

Si tratta di mediare l’annuncio del vangelo per farne emergere il suo contenuto di liberazione e la capacità di promuovere anche uno stile di vita alternativo. Allo stesso tempo, un cristianesimo critico verso certi meccanismi di schiavitù diventa anche capace di compassione; è un cristianesimo che si preoccupa di promuovere un pieno umanesimo nella direzione della giustizia evangelica contro ogni economia che esclude, e testimonia nelle opere prima ancora che nelle parole, la compassione di Gesù. Egli, testimone dell’amore di Dio e della speranza del Regno, si coinvolge con viscere di misericordia nella vita delle persone e si impegna a curarne le ferite e guarirle. Dovrebbe essere questa una fondamentale attività della Chiesa: preoccuparsi della sofferenza delle persone e lavorare alla loro felicità, essere cioè una «religione sensibile al dolore»[5] o – per riprendere papa Francesco – un ospedale da campo.

[1] Cf. É. Paulat, L’era post-cristiana. Un mondo uscito da Dio, SEI, Torino 1996.

[2] Cf. J. Vernette, L’ateismo, Xenia, Milano 2000, pag. 1.

[3] P. Tillich, L’irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l’umanità di oggi, Queriniana, Brescia 2021, p. 31.

[4] C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, p. 13.

[5] Cf. J.B. Metz, Memoria Passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralistica, p. 154.

 

Tratto da Orientamenti Pastorali, 6/2023, EDB. Tutti i diritti riservati