Vito Mignozzi – preside della Facoltà Teologica Pugliese e docente ordinario di ecclesiologia e teologia dei sacramenti

Non c’è dubbio che la questione della sinodalità, nell’attuale stagione ecclesiale, abbia recuperato un posto di rilievo non solo nella riflessione teologica, ma anche nei dibattiti e nelle prassi delle comunità cristiane. D’altro canto, è piuttosto evidente quanto sia esposto a non pochi rischi un utilizzo del termine e dei suoi significati che non tenga conto di tutti gli elementi in gioco e delle dinamiche proprie di un esercizio effettivo della stessa. Quest’ultimo configura un volto di Chiesa nella misura in cui è in grado di mettere in atto processi che permettano al soggetto ecclesiale di esprimersi nella complessità delle forme e delle dinamiche relazionali che lo caratterizzano. È proprio uno sfondo del genere che chiede un’attenzione specifica al rapporto tra sinodalità ed esercizio della leadership. A ben vedere, non si tratta di una questione marginale, se si considera che il corpo ecclesiale, proprio grazie agli elementi che lo strutturano, può realizzare la sua identità e la missione che ne motiva la presenza e l’azione nella storia. Tuttavia, sul piano dei vissuti ecclesiali, ci si rende conto che questo costituisce uno degli snodi più problematici in ordine allo sviluppo di autocoscienze e prassi realmente sinodali. Il rapporto tra i due elementi in gioco è talmente originario che, se manca l’uno, conseguentemente diventa un’impresa ardua poter praticare anche l’altro. Non è difficile registrare in talune espressioni di Chiesa una sorta di fatica e di rallentamento nella maturazione delle dinamiche sinodali, dovuta essenzialmente a una crisi nell’esercizio della leadership, interpretato in maniera concorrenziale rispetto ai processi tipici del Noi ecclesiale, quando non addirittura in termini assolutistici e autoreferenziali, capaci di invertire del tutto le logiche proprie che devono invece presiedere a una vita di Chiesa. Situazioni del genere possono ingenerare cortocircuiti che vanno dalla più comune banalizzazione di tutto ciò che può restituire autorità al corpo ecclesiale, al più dannoso e patologico utilizzo dello stesso soggetto comunitario quale palcoscenico per la performance di chi esercita in esso la leadership.[1] Questi casi estremi e, si spera, sporadici fanno emergere una verità di fondo in ordine alle responsabilità invocate dal cammino effettivo di una Chiesa sinodale. Mettono in luce la necessità di una riflessione sulla leadership ecclesiale che fugga da derive interpretative tanto spiritualistiche quanto sociologizzanti e sia in grado di rileggere la questione in rapporto alla specificità dell’identità ecclesiale, all’interno della transizione storico-culturale che si sta vivendo, senza sottovalutare il grande nodo relativo al rapporto tra autorità e potere nella Chiesa. La stagione odierna porta a fare i conti con un immaginario ecclesiale in evidente transizione, che reca in sé l’esigenza del cambiamento e anche il bisogno di saperlo orientare e accompagnare. In ragione di ciò l’esercizio della leadership richiesto deve servire la missione del corpo ecclesiale, essendo in grado di rendere praticabile una visione di futuro, oltre ogni mera organizzazione di quella che è la struttura consolidata della vita di Chiesa.

Leadership e ministero ordinato: un rapporto complesso

Per cogliere la funzione della leadership in rapporto ai processi sinodali di Chiesa, è inevitabile chiarire i nessi rispetto a una certa idea di ministero ordinato, sottolineando come non si dia automaticamente identificazione di quest’ultimo con la prima. Si ha la sensazione che persista una sorta di resistenza a interpretare l’esercizio del ministero ordinato attraverso modelli specifici di leadership, ritenendo come non sia il caso di ricorrere a concettualizzazioni non immediatamente teologiche per leggere la specificità di una missione che riguarda coloro che guidano le comunità cristiane. Come conseguenza di queste resistenze, si riterrebbe sufficiente garantire le condizioni richieste per l’esercizio di tale ministero, per avere la certezza di essere in grado di interpretare la funzione di leadership. Detto in altri termini, basterebbe richiamare la natura sacramentale di quel ministero per riconoscere quanto basti per poterlo esprimere in termini di leadership. Se così fosse, sarebbe del tutto inutile dedicare così tanta attenzione a interrogarsi su un tema del genere, quando la questione sarebbe risolta molto più facilmente sottolineando in maniera esclusiva l’origine sacramentale di tale ministero. Secondo questa logica si dovrebbe riconoscere come i ministri ordinati siano capaci di leadership semplicemente perché investiti per questo compito dal sacramento dell’ordine ricevuto. Non sono poche, però, le storie di comunità ecclesiali, che smentiscono una lettura del genere. La crisi nella quale versano gli organismi di partecipazione e, più in generale, i luoghi di consultazione e di discernimento è in parte attribuibile a una pratica piuttosto problematica del ruolo esercitato da chi presiede. Tale presa d’atto rivela un dato essenziale, vale a dire che, se il sacramento dell’ordine costituisce la ragione fondamentale che abilita all’ufficio della guida, è altrettanto vero che il suo esercizio deve fare pure i conti con abilità che non derivano immediatamente dall’origine sacramentale e che possono rendere ulteriormente efficace quel servizio ecclesiale. In particolare, se l’ordinazione episcopale o presbiterale ricolloca il ministro rispetto al Noi ecclesiale, ridefinendo in maniera nuova e unica le relazioni che egli ha già con quel corpo, c’è bisogno poi che quell’identità si traduca in un esercizio ministeriale che faccia i conti con processi di coinvolgimento, di compartecipazione, di corresponsabilità, di esercizio condiviso del potere. Questi elementi, pur avendo il loro fondamento nell’identità del soggetto collettivo ecclesiale, hanno tuttavia bisogno di precipue abilità perché possano essere praticati. Non sarà, dunque, un particolare modello di leadership a definire la forma di esercizio del ministero e, rispetto a quest’ultimo, non si può fare a meno di reinterpretarlo avendo cura di fare propri una serie di elementi che permettono a quello specifico servizio ecclesiale di essere aderente alle condizioni odierne della comunità cristiana e della sua presenza nel mondo. In un tempo di cristianità diffusa a un pastore era chiesto essenzialmente di organizzare la vita della comunità, ricorrendo a deleghe controllate di certe attività o di settori pastorali con l’intento di dare vita a una migliore e più razionale organizzazione dell’insieme, piuttosto che a una partecipazione differenziata, fondata nella ricchezza e pluriformità di carismi e ministeri presenti nella stessa comunità. Oggi quello stesso ministero, in una stagione di postmodernità che ha dichiarato la fine di un cristianesimo sociologico, non può essere ancora interpretato secondo un modello essenzialmente organizzativo. In gioco non è più solo la gestione dell’esistente nella comunità, quanto piuttosto il senso e la direzione dell’azione ecclesiale attraverso processi di motivazione e di orientamento e mediante il coinvolgimento di tutti i possibili interlocutori nello sviluppo delle dinamiche partecipativo-decisionali. In tal senso a una forma di esercizio del potere secondo la logica del comando e del controllo centralizzato, volendo anche dare forma alla visione di ministero ordinato emersa a partire dal Vaticano II, oggi è necessario che subentri un tipo di leadership condivisa, capace di essere, a sua volta, trasformativa ed efficace.

Un ministero tutto relazionale

La visione di Chiesa che, dal concilio a oggi, costituisce l’orizzonte ultimo entro cui si vanno maturando consapevolezze e orientamenti in ordine alle dinamiche proprie della sinodalità, permette di cogliere e interpretare la collocazione e la funzione dei ministri ordinati anzitutto nel e per il popolo di Dio.[2] È proprio la missione messianica di tale soggetto collettivo a costituire il contesto e la ragione teologica a partire dai quali poter individuare il novum che l’ultima assise conciliare ha riconosciuto come specificità del ministero ordinato. Si tratta di un’unica missione che coinvolge tutti i battezzati e che si realizza per vie molteplici, tante quante sono le forme di vita e di ministeri presenti e operanti nella Chiesa. In un orizzonte del genere, caratterizzato da una ministerialità diffusa e plurale, il ministero della guida non può configurarsi solo come l’esercizio di un potere da esercitare su alcuni sudditi, coinvolti esclusivamente nell’esecuzione di una scelta operata da altri, ma piuttosto deve mostrarsi come l’esercizio di una funzione necessaria e specifica nel e per una missione, realizzata insieme ad altri, che sono protagonisti corresponsabili nella costituzione del soggetto collettivo. In tal senso non è possibile immaginare una figura di ministero ordinato interpretabile in senso assoluto, ossia svincolato da quelle relazioni che fanno emergere la specificità del suo servizio ecclesiale. Nella circolarità di tali relazioni vanno considerate anzitutto quelle dei presbiteri con il vescovo. Quest’ultimo – come afferma il Vaticano II nel terzo capitolo di LG – governa una Chiesa particolare esercitando una potestà, in nome di Cristo, per edificare la comunità, al contempo preservandone l’unità e curando il coinvolgimento attivo di tutti. La sua funzione di leadership non lo colloca in una posizione isolata e frontale rispetto all’intero corpo ecclesiale; posizionato all’interno dello stesso, invece, il suo ministero coinvolge tutti in una dinamica di corresponsabilità, nella promozione della pluralità dei carismi e dei percorsi di vita credente di ciascuno. In modo particolare quello con i presbiteri, suoi primi collaboratori riconosciuti «quali figli e amici» (LG 28), è un rapporto contraddistinto da familiarità e confidenza, presupposti essenziali per esercitare le funzioni di guida in un accordo comune e tenendo fede al bene di tutta intera la Chiesa particolare. Non è un caso che il Vaticano II, a tal proposito, abbia riscoperto il valore del presbiterio per sottolineare la natura comunionale del ministero dei preti, indicando nella via della fraternità sacramentale una forma non autarchica e isolata per l’esercizio dell’autorità e del potere, ma con il vescovo e il collegio dei presbiteri appunto. Un’acquisizione del genere non può essere data per scontata, soprattutto per le conseguenze da essa derivanti in ordine alla messa in opera di processi e dinamiche ecclesiali che abbiano realmente un respiro sinodale. Nella vita ecclesiale lo stile di un lavoro condotto insieme non è anzitutto il frutto di criteri di efficienza o di razionalizzazione, ma proviene da una corretta interpretazione della cura animarum. È per il servizio al bene dei fedeli che il lavoro insieme trova la propria giustificazione. Tra l’altro uno stile del genere protegge dalla tentazione di appropriarsi del proprio ministero e del potere che vi è legato. Di non minore importanza è la considerazione che si deve prestare alle relazioni tra ministri ordinati e laici.[3] Questi ultimi partecipano all’unica missione ecclesiale interpretando la specificità della propria identità e condividendo, per la loro parte, l’esercizio della leadership attraverso tutto quello che può contribuire al bene della Chiesa, all’edificazione della comunità e della sua missione. Questa rete di relazioni si alimenta attraverso i contributi specifici che i laici, in modo particolare, possono offrire a favore di percorsi di sinodalità ecclesiale nonché mediante un riconoscimento e una adeguata promozione della dignità e della responsabilità degli stessi nella Chiesa da parte dei ministri. Anche tale ambito relazionale, pur affermato ormai dai tempi del concilio, non pare ancora recepito del tutto nelle consapevolezze ecclesiali e nei processi sinodali, sia per via di forme di esercizio del ministero della guida ancora troppo ingombranti e sia anche per velate e, per certi versi, volute espressioni di assoggettamento all’autorità e al potere dei ministri da parte di laici, abituati piuttosto a una logica di delega. Anche per queste ragioni il tema della leadership è oggi quanto mai decisivo; è necessario conoscerne le potenzialità anche per individuare le vie migliori che rendano praticabile l’autorità e le forme di potere possibili nel Noi ecclesiale.

Il potere della leadership

Accade, non di rado, ragionando sul tema del potere nella Chiesa, di fare i conti con chi immancabilmente deve ricordare che l’uso di quel termine può risultare inopportuno in riferimento alla comunità cristiana, richiamando al suo posto quello di servizio, per rimanere fedeli alla lezione evangelica in materia. È evidente che una considerazione del genere presenta una visione malata e distorta del potere, ragion per cui quel termine sarebbe il meno adatto per riferirsi a realtà di natura ecclesiale. Oltre che pregiudizievole, tale lettura ci sembra del tutto inappropriata. E questo per diverse ragioni.[4] Se, infatti, fosse impegnativo accedere alla miniera di studi sul tema, potrebbe anche essere sufficiente limitarsi a leggere gli sviluppi nella riflessione cristiana relativi al rapporto tra autorità e potere e alle loro modulazioni e reinterpretazioni lungo la storia della Chiesa e della stessa ecclesiologia. Non sarebbe difficile riconoscere come tale questione non solo non sia assente dalla tradizione cristiana, ma che addirittura offra elementi interessanti per la riflessione odierna. La considerazione che da quelle fonti emerge si orienta piuttosto sul riconoscimento di forme plurali di autorità, originate dalla partecipazione della exousia di Cristo alla Chiesa e a ciascun battezzato in vista della comprensione e dell’annuncio del vangelo. Nessuna autorità nella Chiesa può assorbire e contenere da sola l’exousia del Risorto.[5] Tra queste una forma singolare è quella propria dei ministri ordinati, finalizzata all’edificazione della comunità, alla promozione delle relazioni ecclesiali, al mantenimento del corpo della Chiesa nella sua radice apostolica. Essa esplicita tutte le sue peculiarità, suscitando una cooperazione con le altre espressioni di esercizio della potestas derivanti dall’apporto di molti altri soggetti e di diverse altre funzioni ecclesiali. In questo modo si coglie bene come la sinodalità necessiti, nel suo farsi, di una costruzione costante di tale cooperazione, per generare processi nella cura pastorale che mettano in relazione la funzione dell’uno, con quella di alcuni a favore di tutti.[6] Perché l’intero popolo di Dio partecipi alla missione profetica e regale di Cristo, esprimendo così un potere di parola nella comunicazione dell’esperienza credente, è necessario il ministero di alcuni – i presbiteri, appunto – che, attraverso una forma di autorità delegata e condivisa, rendano presente e attiva la potestas dell’uno – il vescovo –, partecipata a loro per il servizio alla medesima Chiesa locale. Tale visione sinfonica e sintattica della leadership, ben lungi dal riproporre modelli piramidali o gerarcologici, mentre evidenzia il valore di rappresentanza simbolica dell’uno rispetto al Noi ecclesiale, mostra pure come non si dia una lettura assolutistica del potere dell’uno, bensì una correlazione grazie alla quale il ministero della presidenza è generatore e promotore di azioni sinodali e di custodia della fede dell’intero soggetto ecclesiale. Tutto questo chiede il superamento di una idea di leadership centrata essenzialmente sull’organizzazione della vita della comunità attraverso una pluralità di livelli di mediazione e in una direttrice che segue in maniera esclusiva la linea del comando e del controllo. Al suo posto occorre far avanzare una visione che riconosca come peculiarità del vescovo e dei presbiteri quella di definire il senso e la direzione dell’azione ecclesiale, facendo maturare l’adesione e le motivazioni nella comunità dei credenti e ponendo così le condizioni necessarie perché il corpo ecclesiale possa raggiungere gli obiettivi individuati attraverso l’impegno comune. Va in questa linea l’esigenza di una conversione pastorale che, per rendere praticabili i percorsi di sinodalità, domanda «che alcuni paradigmi spesso ancora presenti nella cultura ecclesiastica siano superati, perché esprimono una comprensione della Chiesa non rinnovata dalla ecclesiologia di comunione. Tra essi: la concentrazione della responsabilità della missione nel ministero dei pastori; l’insufficiente apprezzamento della vita consacrata e dei doni carismatici; la scarsa valorizzazione dell’apporto specifico e qualificato, nel loro ambito di competenza, dei fedeli laici e tra essi delle donne».

[7] Che tipo di leadership?

A questo punto occorre fare ancora un passo in avanti, interrogandosi su quale tipo di leadership sia adeguata al contesto e ai vissuti ecclesiali odierni. Non si tratta, sia ben chiaro, di individuare semplicemente una soluzione strategica per la migliore gestione della vita di una comunità, quanto di riconoscere i tratti e le attenzioni essenziali che permettano ai ministri ordinati di non tradire la tipicità della potestas che riguarda il loro ufficio. Si ha l’impressione che alcune situazioni critiche rispetto all’esercizio della ministerialità ordinata, e quindi del servizio della leadership, derivino in fondo da una sorta di cortocircuito generato tra le rappresentazioni dei soggetti coinvolti, l’insieme dei compiti che riguardano l’ufficio specifico assunto e, nondimeno, le aspettative delle comunità. Una mancata sana interazione tra queste e altre componenti espone non di rado il ministro in questione ad atteggiamenti, scelte, stili relazionali in evidente contraddizione rispetto alla postura ministeriale richiesta dalla sua collocazione ecclesiale. La stessa grave piaga degli abusi potrebbe annoverare, tra le sue possibili cause, anche una certa rappresentazione del proprio ruolo di leader, collocato al di sopra di tutti e generatore di relazioni di dipendenza e di comando assolutamente malate. L’elenco dei nodi critici potrebbe continuare ancora a lungo, non certo per portare sul banco degli imputati qualcuno, quanto piuttosto per evidenziare come, oggi più che mai, la funzione della leadership abbia bisogno di un’attenzione tutta particolare. In fondo nella comunità ecclesiale il ministro esplicita la presidenza di uno davanti a tutti. Una tale posizione, in un tempo e una cultura delle società odierne connotati da non irrilevanti spinte democratiche molto spesso critiche verso le espressioni gerarchiche dell’autorità, non può essere pensata come al vertice di una piramide, in una solitudine indiscussa e inoppugnabile, e con un’aura sacrale che ne consacra qualsiasi parola proferita e qualsiasi gesto compiuto. Al contrario, è quanto mai necessario che, se la collocazione dell’uno non deve essere pensata in una direzione verticistica, lo sia piuttosto secondo una prospettiva comunitaria, come al centro di una rete relazionale nella quale le dinamiche comunicative, necessarie per il darsi del soggetto ecclesiale, restino sempre multidirezionali. Questo è un elemento decisivo per lo sviluppo dei processi sinodali che hanno bisogno di visioni, di interazioni, di promozione del potere di parola dei soggetti coinvolti, il tutto attraverso una conduzione di tali dinamiche capace di creare condivisione, maturazione di consensi, sana gestione dei conflitti, in vista di una decisione da assumere o di un passo di vita ecclesiale da compiere. Una leadership esercitata secondo questo orizzonte di fondo è al contempo capace di custodire e promuovere il corpo sociale dell’istituzione e di essere essa stessa custodita da quello. Può sembrare strano, infatti, ma in realtà costituisce un effetto di promozione e di custodia della leadership anche tutto ciò che contribuisce a definire i confini dell’esercizio del potere del singolo ministro, per permettere a quest’ultimo di mantenere salda la peculiarità del proprio ufficio e consentire così l’attivazione del dinamismo dell’intero corpo ecclesiale. Di questa particolarità la presidenza eucaristica dovrebbe essere esempio emblematico. Il ministro, vescovo o presbitero che sia, in quanto guida della comunità ecclesiale presiede la celebrazione eucaristica, animando la preghiera comune nella quale entra in gioco una pluralità di ministeri e tutta intera l’assemblea celebrante. Proprio tale interazione, mentre consente al corpo ecclesiale di dare forma alla sinassi eucaristica, permette allo stesso Noi celebrante di custodire la singolarità dell’uno che presiede la preghiera. In contesti culturali come quelli odierni, nei quali alle persone che detengono un potere si chiede di dare ragione delle decisioni che pensano di prendere, anche per l’autorità pastorale ricorre l’obbligo di «rendere conto» alle persone affidate delle soluzioni individuate. Stiamo parlando di quella che nel mondo anglosassone è definita accountability e che si riferisce proprio a una capacità o attitudine a dare ragione del proprio lavoro. Questa responsabilità si colloca al cuore della cura pastorale che è cura delle persone e, tra l’altro, attenua i rischi di un potere autocratico evitando l’esercizio isolato dell’autorità. Beninteso, non è qui in gioco una rinuncia al potere di servire. Si tratta piuttosto di interrogarsi rispetto al modo di esercitarlo e di essere all’altezza di renderne conto. In fondo, un ministro nella Chiesa non è un freelance, né lavora per il suo proprio business.

La leadership non si inventa: il nodo della formazione

Da quanto abbozzato, emerge con una certa evidenza come il servizio della leadership non possa essere improvvisato. Esso richiede di maturare attraverso un serio e necessario percorso formativo, che tenga conto della natura pastorale di tale potere e della sua origine al contempo cristica ed ecclesiale. Si è, infatti, ministri in nome di Cristo e per servire la Chiesa. Questi elementi, decisivi per identificare le specificità del ministero della guida, esplicitano ulteriormente un dato che emerge già dalle connotazioni antropologiche che contraddistinguono ogni leadership. L’azione pastorale compiuta in nome di Cristo chiede che la logica di donazione e di decentramento, propria dell’intera esistenza del Maestro, informi pure l’esistenza del ministro, perché la natura sacramentale del suo servizio sia in grado di rimandare all’origine da cui esso scaturisce. Una tale configurazione domanda, in fondo, che la leadership debba essere esercitata in condizioni di vita adulta, le uniche che permettono di mettere in gioco la propria umanità nella dinamica del dono e della cura alterumOggi questa non è più un’acquisizione garantita. Vivendo in contesti sociali e culturali segnati da un narcisismo pervasivo e imperante e nei quali si è come incoraggiati a entrare nel vortice di giovanilismi senza fine, la vocazione a dimenticarsi di sé per prendersi cura degli altri trova non pochi sentieri interrotti. Ne aveva parlato il documento preparatorio al Sinodo dei vescovi sui giovani quando aveva avvertito che «servono credenti autorevoli, con una chiara identità umana, una solida appartenenza ecclesiale, una visibile qualità spirituale, una vigorosa passione educativa e una profonda capacità di discernimento. A volte, invece, adulti impreparati e immaturi tendono ad agire in modo possessivo e manipolatorio, creando dipendenze negative, forti disagi e gravi controtestimonianze, che possono arrivare fino all’abuso» (III,2). Se questo è detto di tutte le figure di riferimento per l’accompagnamento pastorale dei giovani, molto più deve essere affermato per chi guida una comunità nel suo ruolo di pastore. In virtù di ciò i percorsi di formazione, nelle loro molteplici tappe e nei tempi diversi entro i quali sono scanditi, costituiscono, oggi più che mai, le uniche vie necessarie per accompagnare processi di maturazione che non trascurino alcuna delle dimensioni proprie dell’esistenza e del ministero pastorale. È evidente, a questo punto, che la domanda su quale tipo di formazione possa offrire una chance del genere compare in tutta la sua provocatorietà e complessità. Occorre senza dubbio non smettere di parlarne.

Tratto da Orientamenti Pastorali 4/2020. EDB. Tutti i diritti riservati.

[1] Si veda a tal riguardo M.F.R. Kets De Vries, Figure di leader. Le sfide della leadership nei cambiamenti della vita organizzativa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, 7-26. «Alla leadership dovremmo chiedere anzitutto non solo di saper preparare il futuro dell’organizzazione ma di essere capace di costruire il futuro degli uomini e delle donne che nell’organizzazione lavorano. Ciò è possibile solo contenendo le derive degenerative della dinamica del potere, conoscendone le trappole, essendo consapevoli che l’esercizio positivo della leadership è vincolato fortemente dall’affermazione del potere “per gli altri” contro l’invasione del potere “per sé”». G.P. Quaglino (a cura di), Leadership, Raffello Cortina Editore, Milano 1999, 10.

[2] Si vedano gli interessanti contributi raccolti in E. Brancozzi (a cura di), Chiamati da chi? Chiamati a che cosa? Teologia della vocazione al ministero ordinato, Cittadella Editrice, Assisi 2017.

[3] Mi permetto di rimandare al mio contributo su «L’autorità dei fedeli nella Chiesa», in ATI, Autorità e forme di potere nella Chiesa, a cura di M. Epis, Glossa, Milano 2019, 191-219.

[4] Cf. A. Borras, «Per un potere sanato. Una prospettiva canonistica», in ATI, Autorità e forme di potere nella Chiesa, 221-231.

[5] Come afferma M. de Certeau, il singolare di Dio è rappresentato «da una pluralità di autorità che ridicono in termini e atti differenti colui che l’ha reso possibile: Gesù Cristo». M. de Certeau, La faiblesse de croire, Seuil, Paris 1987, 128.

[6] CTI, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 106.

[7] Idem, 105.