Giorgio Campanini, dell’Università di Parma

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi… sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce, dei discepoli di Cristo». Questo il famoso esordio del documento, la costituzione pastorale Gaudium et spes, con il quale, nel 1965, il concilio Vaticano II concludeva tre anni di intensi e fecondi lavori. È un esordio che mette conto di richiamare, perché allora come oggi fitte nubi si addensano nei cieli della storia e un diffuso pessimismo sembra caratterizzare l’attuale corso della civiltà occidentale. All’ottimismo con il quale, nonostante persistenti ombre, la civiltà occidentale guardava allora al futuro, e di cui, pur in una prospettiva non soltanto terrena, il Vaticano II si faceva interprete corrisponde, oggi, un diffuso pessimismo, evidenziato da due fenomeni del resto strettamente collegati fra loro: la crisi economica, che induce a considerare ormai concluso un lungo ciclo di sviluppo e sembra preludere, se non al regresso, certo alla stagnazione e alla conseguente fine del mito del costante e tranquillo progresso (economico); la crisi demografica, che sta determinando una sorta di «inverno» culturale, soprattutto nella vecchia Europa, e induce l’attuale società occidentale più a ripiegarsi sul passato, sia pure un vulnerabile passato, che non a guardare all’avvenire, di cui naturalmente e quasi istintivamente i giovani sono, o dovrebbero essere, i costruttori di speranza. Di qui una diffusa crisi della speranza che è, strutturalmente, una crisi della speranza storica e di quella escatologica e che, per questo suo duplice aspetto, non può mai essere l’abito mentale del credente. Nonostante tutto, Dio continua ad operare nella storia, anche in quello che sembra essere (agli occhi della ragione umana, ma non agli occhi della fede) il tempo della crisi.

  1. Eclissi, e ritorno, della speranza nel nostro tempo

 Gli scenari del mondo non sembrano particolarmente aperti alla speranza. Senza indulgere a facili e sterili catastrofismi, si deve riconoscere che non sono pochi i segnali che manifestano un’accentuata paura del futuro e sembrano indurre al pessimismo piuttosto che all’ottimismo.

Si devono innanzitutto riconoscere i limiti dello sviluppo tecnologico, che appare sempre più come processo involutivo che alla fine divora se stesso. Gli ultimi tre secoli hanno consentito, grazie allo sviluppo della scienza e della tecnica, immensi progressi materiali (dal prolungamento della durata e della stessa qualità della vita all’acquisizione di risorse economiche impensabili in altre stagioni dell’umanità). Ci si domanda tuttavia, sempre più frequentemente, se alla fine gli uomini di oggi siano veramente più felici e realizzati: si affaccia ricorrentemente il pericolo di un’auto-distruzione dell’umanità per effetto della minaccia atomica: si esprimono motivate preoccupazioni circa l’irreversibile deterioramento dell’ambiente fisico; si constatano le crescenti manifestazioni di disagio della civiltà urbana, dalle malattie mentali alla delinquenza, alla tossicodipendenza. Gli uomini e le donne di oggi appaiono nello stesso tempo più sani e più ricchi da una parte, più indifesi e più insicuri da un’altra parte. Concorre a determinare questi diffusi stati d’animo il radicarsi dei processi di secolarizzazione che da circa tre secoli a questa parte hanno invaso l’area dell’Occidente e stanno ormai lambendo altre parti del mondo. La speranza religiosa che ha a lungo sorretto l’Occidente si è trasformata in speranza puramente umana, ma proprio per questo ha dovuto riconoscere sempre più chiaramente i propri limiti. Nel momento in cui ha riposto tutte le sue attese e le sue aspettative nel progresso tecnologico e materiale, rifiutando la vita ultraterrena e chiudendo l’uomo nel solo orizzonte mondano, la secolarizzazione ha fortemente ridotto gli spazi della speranza. Si è affermato che è possibile vivere Etsi Deus non daretur, anche se Dio non vi fosse; ma questo mondo senza Dio rischia di diventare invivibile. Opera nella medesima direzione l’ormai evidente e manifesta crisi delle utopie, dall’ideologia di una scienza onnipotente al sogno di una società giusta in cui il male fosse definitivamente estirpato grazie al rovesciamento dei rapporti di potere e di proprietà, nella prospettiva di un marxismo che, nella sua realizzazione storica, ha avuto esiti diametralmente opposti a quelli che si era ripromesso. Non concorre ad alimentare la speranza, infine, il clima di paura e di insicurezza determinato dalla minaccia, e in parte dalla realtà, del terrorismo, sullo sfondo di un rapporto fra l’Occidente e le altre aree del mondo che sta diventando sempre più, potenzialmente, conflittuale. Senza evocare schematiche ipotesi di «scontri di civiltà» o la minaccia incombente di nuove «crociate», sia in una direzione sia nell’altra, non vi è dubbio che gli attuali scenari del mondo rivelino drammatiche e profonde tensioni delle quali non appare vicino, né facile, il superamento. Oltretutto, i mezzi di comunicazione di massa accentuano a dismisura questo insieme di fenomeni ed inducono spesso una sorta di «catastrofismo mass-mediale». Si instaura così un clima di paura, di insicurezza, talora una vera e propria sindrome da stato d’assedio che non può non indurre al pessimismo, se non si introducono i necessari correttivi e se non si ritrovano le ragioni della speranza.

Come avviare una, necessaria, inversione di tendenza? All’epoca della Rivoluzione francese, nonostante gli eccessi e le aberrazioni dei giacobini, sembrò che gli ideali di libertà, di eguaglianza, di fraternità evocati da quello che fu una sorta di «braccio secolare» dell’Illuminismo, non fossero incompatibili con il cristianesimo e anzi ne rappresentassero, inconsapevolmente e paradossalmente, una ripresa. Fra Ottocento e Novecento vi furono cristiani o comunque credenti che videro in Gesù Cristo il «primo socialista» e ritennero possibile ricondurre gli ideali del socialismo ai grandi valori dell’Evangelo. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Quella che stiamo vivendo è una nuova stagione di radicalità, in cui il messaggio cristiano deve ritrovare per intero la sua capacità propositiva, assumersi il compito e la responsabilità di andare controcorrente: quanto più sembrano venir meno le speranze umane, soltanto umane, tanto più si aprono gli spazi alla Speranza cristiana. Questi dunque, a grandi linee, gli attuali scenari della storia e del mondo: di un mondo, tuttavia, che non è e non può mai essere abbandonato da Dio e dunque lasciato alla sua disperazione; di un mondo che può e deve ancora essere abitato dalla Speranza, a condizione che vi siano uomini e donne capaci di farsene portatori in una fase storica caratterizzata dal declinare di antiche certezze e dal faticoso emergere di nuove potenzialità. Sono le «doglie del parto» (Rm 8, 22) di cui parlava quasi duemila anni fa l’apostolo Paolo: doglie che possono risolversi con la morte, e dunque con la disperazione, oppure con la vita, e dunque con la speranza. Che queste doglie siano il preludio di una nuova vita: è questo il compito, è questa la responsabilità storica dei cristiani.

  1. I luoghi della speranza

Se questo è il contesto nel quale anche la Chiesa svolge la sua missione, quali sono i «luoghi» nei quali i cristiani possono essere portatori di speranza? Non è agevole definirli, ed ancor più analizzarli, perché comprendono l’esistenza intera degli uomini e delle donne: l’elaborazione della cultura e la rete dei rapporti sociali, il lavoro e la festa, la convivenza civile e le relazioni internazionali, e così via. Due aspetti, peraltro a nostro avviso particolarmente rilevanti, ci sembra debbano essere posti in evidenza perché centrali, rispettivamente, per la sfera privata e per quella pubblica, pur nella consapevolezza che «pubblico» e «privato» non sono due parallele destinate a non incontrarsi mai ma quasi due facce della stessa medaglia, due volti di una medesima società.

2.1. Il mondo degli affetti e dei sentimenti

Il mondo degli affetti e dei sentimenti è forse quello che maggiormente ha bisogno di essere lievitato dalla speranza cristiana: molti sono infatti i segnali di una sorta di «disperazione» latente, spesso inconsapevole, che riguardano l’insieme delle relazioni interpersonali e in particolare il rapporto fra uomo e donna. Il nostro tempo è stato caratterizzato da un profondo mutamento di prospettiva in ordine alla visione generale della sessualità, dei rapporti fra i sessi, del matrimonio e della famiglia. Non più modelli immutabili, istituzioni stabili, sicuri punti di riferimento, ma un mondo degli affetti e dei sentimenti variabile, fluttuante, continuamente plasmabile. In questo senso, la tradizione, le istituzioni, gli antichi e stabili legami sono il «solido»; mentre il mondo degli affetti è mutevole, sfuggente, sempre reversibile, e dunque «liquido».

In questo contesto non stupisce la caduta della speranza: perché la speranza indica sempre capacità progettuale, apertura ad un futuro nel quale si crede, pur nella consapevolezza che l’avvenire è in larga misura non programmabile e non determinabile. Amare per tutta la vita una persona significa in qualche modo «scommettere» su di lei; ma gli uomini e le donne di oggi non sembrano più capaci di «scommettere» e, spesso preferiscono non rischiare, scelgono di collocarsi su un terreno il meno possibile impegnativo. Un sintomo parallelo di questa caduta della speranza – particolarmente evidente in un paese, come l’Italia, a bassissima natalità – è l’insieme di atteggiamenti di preoccupazione, di cautela, di attesa (o di rinvio sine die) nei confronti delle scelte procreative. Le preoccupazioni per il futuro sono legittime, ma possono diventare ossessive: un eccesso di preoccupazioni e di cure per il figlio che dovrebbe venire rischia di trasformarsi nella rimozione dell’oggetto stesso di queste preoccupazioni e di queste cure. Come invertire questa linea di tendenza, come riaprire la via alla progettualità di coppia, e cioè alla speranza?

Vi è certamente, in primo luogo, una via religiosa, che passa attraverso il riconoscimento della vita come un dono di Dio al quale ci si può e ci si deve aprire, ed insieme attraverso la piena accettazione dell’altro «nella buona e nella cattiva fortuna, nella salute e nella malattia». In un orizzonte del tutto secolare – in cui l’unico punto di riferimento è l’umano – è incombente il rischio del ripiegamento su di sé e dunque della chiusura in se stessi. Ma, se guardiamo in profondità vediamo che, nonostante tutto, resta spazio ad un ragionevole ottimismo. Amarsi per tutta la vita è possibile, aprirsi con i figli al futuro è possibile, fare della famiglia uno spazio di umanizzazione e di ragionevole felicità è possibile. Ma vi è anche una via laica, per così dire, alla speranza. Ed è la strada che passa attraverso la presa di coscienza che un mondo dominato dalla precarietà e dalla provvisorietà delle relazioni rischia di diventare, alla lunga, un mondo invivibile e di creare le premesse, di cui già si intravedono inquietanti segnali, del degrado sociale, della violenza strisciante o manifesta, della moltiplicazione delle solitudini. Annunziare che il matrimonio è bello e che il figlio è un dono è dunque il compito che incombe oggi ai cristiani, su un duplice piano.

In primo luogo, quello della testimonianza della vita. Troppo spesso le famiglie cristiane non riescono ad essere «esemplari», non nel senso del modello stantio e oleografico della famiglia perbene ma in quanto sappiano tramandare un’immagine semplice, realistica, a tutti accessibile, di un luogo nel quale ci si vuole bene, ci si ama e ci si rispetta, si affrontano insieme le difficoltà della vita (ma anche, talvolta, si litiga senza arrivare alla rottura e si soffre senza giungere alla depressione). Forse la vita delle famiglie cristiane non è sufficientemente visibile: dopo la stagione del silenzio è forse venuto il tempo della parola (mai, tuttavia, dell’esibizionismo o del frettoloso proselitismo…).

Su un secondo piano, occorre mettere in atto più forti energie per annunziare i valori del matrimonio cristiano, da una seria e prolungata preparazione al matrimonio, per aiutare le coppie a superare i momenti e le situazioni di difficoltà e talora di vera e propria crisi e per attuare quegli interventi di politica sociale che ormai si impongono per creare le condizioni minimali affinché la famiglia possa svolgere il suo compito e dare il proprio specifico contributo alla vita della società. Se le famiglie non saranno abitate dalla speranza, a quale altre fonti potrà mai alimentarsi una società che di speranza ha bisogno come dell’aria che respiriamo?

2.2. Il cristiano nella società

Un secondo campo di impegno dei credenti è quello della società civile e della comunità politica. Missione dei fedeli laici è innanzitutto quella di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità», esercitando in questo modo una vera e propria «carità sociale» (n. 29). Dietro questo impegno nella società sta necessariamente l’apertura alla speranza: alla speranza di una società migliore, più giusta, più libera. Se la politica fosse condannata all’autoreferenzialità, se il potere fosse strutturalmente abbandonato al Maligno, se fosse impossibile praticare la politica ed avere le «mani pure», allora l’impegno dei cristiani non avrebbe più senso. Per quali vie contrastare questa tendenza di un forte impegno del laicato italiano di oggi nell’ambito del sociale, e soprattutto del volontariato, da una parte, e il parallelo disimpegno nel campo della politica dall’altra, e recuperare la speranza della politica?

Una prima linea di riflessione passa attraverso la critica di quello che già nel primo Ottocento Antonio Rosmini chiamava il perfettismo, e cioè il sogno di realizzare una società perfetta grazie all’apporto di una classe politica a sua volta perfetta. Se questo si attende dalla politica, la delusione è inevitabile, anche perché la storia sta lì ad indicarci a quali esiti aberranti siano pervenuti i regimi politici – dai puritani della Nuova Inghilterra ai giacobini di Robespierre, ai fanatici seguaci di un Hitler o di uno Stalin – che hanno teorizzato, e praticato, il duro rigore della «ortodossia» e conseguentemente emarginato, od eliminato, i dissenzienti. Senza nulla concedere al relativismo etico, ciò che occorre alla comunità cristiana è un sano relativismo nei confronti della politica: nella consapevolezza che, sino a quando si esigerà una politica perfetta e, al suo interno, politici cristiani perfetti, altra prospettiva non vi sarà che quella delle catacombe.

Una seconda linea di riflessione passa attraverso una cultura delle vocazioni che non prescinde anche dalla politica. A quando una giornata di preghiera, e magari anche una raccolta di fondi, per le vocazioni alla politica, e cioè per richiamare i credenti del dovere della loro responsabile partecipazione alla vita della città e per apprestare adeguate strutture formative, a partire da una rinnovata attenzione, anche sul piano della catechesi, alle tematiche della giustizia sociale, e dunque anche della politica?

Una terza possibile linea di azione è quella che riguarda la stessa comunità cristiana come indiretto luogo di formazione alla politica in quanto educatrice alla corresponsabilità, al dialogo, all’impegno. Una Chiesa tutta appiattita sul ministero presbiterale e poco attenta ai ministeri laicali; una Chiesa in cui vi è da una parte chi comanda e dall’altra chi esegue; una Chiesa in cui soltanto alcuni parlano e altri passivamente ascoltano chiude inevitabilmente, al di là della sua esplicita intenzionalità, spazi all’inventività, alla partecipazione, alla progettualità, e dunque alla speranza. Questa virtù cristiana non può essere consegnata soltanto nelle mani di qualcuno, ma deve essere di tutti perché, l’intero popolo di Dio è chiamato a farsi portatore di speranza nella comunità degli uomini. Di qui alcune specifiche indicazioni operative. In primo luogo, occorre investire di più nell’ambito della formazione sociale, sia nella vita ordinaria della comunità cristiana (dalla catechesi all’omelia), sia nella sollecitazione dell’impegno di volontariato, sia attraverso appositi momenti di specifica introduzione alle problematiche della società, senza dimenticare mai che dote fondamentale di chi intende porsi a servizio degli altri nella vita politica è la competenza. In secondo luogo, è necessario valorizzare al massimo il ruolo dei fedeli laici nei vari organismi partecipativi, per fare di essi dei luoghi di libero e aperto dibattito e dunque di formazione al dialogo e, in generale, alla democrazia. Infine, perché le vocazioni alla politica sorgano e maturino, occorre nella comunità cristiana una costante educazione al discernimento: virtù insieme ecclesiale e civile, perché discernimento significa capacità di leggere e decifrare le situazioni ed individuare la via migliore per la soluzione dei problemi. Tutto ciò non implica un’indebita sopravvalutazione della politica, perché non è dalla politica che viene la salvezza, ma assumere coscienza delle responsabilità che la comunità cristiana in generale e i fedeli laici in particolare hanno nei confronti della storia: essa non è mai semplicemente «storia profana», fatta soltanto dagli uomini ma anche, e sempre, «storia sacra». Nessun appiattimento sulle vicende della storia, ma una costante, e simpatetica, attenzione alla storia, perché è in essa che si costruisce, o non si costruisce, il regno di Dio.

  1. I nuovi segni della speranza

Nonostante le ombre che l’attraversano, non mancano oggi i segni della speranza. Permangono minacce di guerra, ma la cultura della pace, la consapevolezza che le armi non risolvono alcun problema, prende piede in vaste componenti dell’umanità. Restano drammatiche divaricazioni nello sviluppo e nell’accesso ai beni della terra, ma queste distanze appaiono intollerabili ed inaccettabili ad un numero sempre maggiore di uomini e di donne. Persistono aree di presuntuoso scientismo, ma filoni consistenti del pensiero e della ricerca scientifica riscoprono i limiti di una ragione abbandonata a se stessa e sono alla ricerca di più sicuri punti di riferimento. Di fronte ad una società diffusamente secolarizzata, che sostituisce alla speranza la previsione, spetta ai cristiani essere operosi testimoni di valori che non passano. Si tratta di disboscare impietosamente le «piccole speranze» per aprire un varco all’irruzione della «grande speranza», l’unica che dia pienezza di significato al vivere dell’uomo. Occorre fare appello ad una più ampia e comprensiva ragione, che abbraccia l’intelligenza e il cuore, della quale i mistici e i poeti hanno colto il senso più lucidamente di quanto a volte abbiano fatto i filosofi e gli scienziati. Come ha scritto una volta il poeta Charles Péguy, la virtù della Speranza è una «piccola sorella» quasi soffocata e sempre sovrastata dalle grandi sorelle (la fede e la carità sul piano teologico ma la ragione o l’efficienza sul piano umano…).

È di questa piccola-grande speranza che i cristiani sono chiamati ad essere testimoni in ogni tempo, e della quale, come credibili testimoni, devono sapere dare ragione, coniugando le «ragioni di Dio» con le «ragioni dell’uomo».