Guido MICCINESI, medico e diacono

La catena che ci stringe nel bene è molto stretta. Senza la disponibilità di una madre a donare il suo corpo noi oggi non avremmo il nostro, senza la capacità di amare di un padre neppure. Senza i nostri figli, che ora drammaticamente mancano (l’indice medio di figli per donna è stato 1,32 nel 2018), lo stato sociale che avevamo passo dopo passo costruito rischia di dissolversi.

Abbiamo bisogno di essere uniti nel bene, di dividerlo tra noi, e così di fatto moltiplicarlo. E nella sofferenza? Se la sofferenza può essere detta inutile non ha senso condividerla, bisogna solo eliminarla, con le buone o con le cattive. Ma se la sofferenza fosse altro?

La catena della sofferenza è ancora più forte di quella del bene, l’uomo che non se ne disfa, che non se ne libera, arriva al sincero dono di sé, trova pienamente se stesso, è felice non in apparenza ma per davvero: quante volte i malati che incontriamo in corsia o al loro domicilio ci dicono queste stesse cose e ci testimoniano che stanno imparando, nella sofferenza, quale sia l’amore che fino ad allora li ha sostenuti nella vita.

La famiglia

Dobbiamo riprendere, e questo forse vale per tutta la vita della Chiesa, il primato del corpo proprio e della famiglia per accedere alle questioni di senso come quelle evocate dalla sofferenza. Ciascuno di noi ha imparato in famiglia a essere malato e a farsi curare, perché in famiglia si impara a essere amati. In famiglia si fa l’esperienza del cadere ammalato e di potersi affidare al sostegno di quelli che hanno con noi un legame, e questa esperienza apre il cuore.  

Le altre figure necessarie per una comunità sanante

I malati sono sparsi come un seme sul nostro territorio, prevalentemente nelle loro case o in residenze assistite per le persone in età anziana. La presenza di persone malate e fragili sul territorio, bisognose di assistenza di base e corretta compliance terapeutica, oltre che di compagnia e di follow up medici, non solo sollecita il risveglio di una comunità sanante ma, come nella beatitudine annunciata da Gesù, semina la parola di Dio tra noi. L’annuncio è reciproco. Le persone fragili, reversibilmente o irreversibilmente tali, le stesse persone morenti non possono non essere al primo posto quando la Chiesa torna a essere una Chiesa in uscita che vive di annuncio.

La cura offerta dalla famiglia è il riferimento per ogni ulteriore vicinanza a chi soffre. Quello è lo stile (di parità), quella la motivazione (di gratuità), quello è il modo (di sano coinvolgimento affettivo). Ma la famiglia lasciata da sola − quand’anche una famiglia ancora ci sia − ha difficoltà a sostenere i suoi malati.

Si cercano allora persone che, pur al di fuori del legame familiare, vengano attratte dalla presenza del vangelo così limpida in queste situazioni, dalla possibilità di una vita vera conquistata attraverso il dono sincero di sé, e donino del tempo. Queste persone ci sono. Sono attratte dal sacramento eucaristico e avvertono che la presenza di Cristo è legata alla sofferenza.

Negli ambienti ospedalieri l’organizzazione di reti di volontariato (le cappellanie) intorno all’assistenza religiosa riconosciuta dalla istituzione ospedaliera, reti previste nelle convenzioni che disciplinano l’assistenza stessa, permette una formazione continua che nel tempo assicura lo stile familiare e cristiano di questi ministri: la semplicità del dono, la prudenza nel creare il contatto umano, la disponibilità a seguire i ritmi dettati dal malato stesso che accoglie spesso con senso di piacevolezza queste visite inattese, ma che può anche volerle evitare o che comunque non deve mai da queste sentirsi forzato. Solo in una percentuale minore la visita assume il significato sacramentale: con questo tipo di «ministri straordinari della comunione», che perlopiù sono veri ministri della consolazione, la principale opera da curare è quella dell’integrazione affettiva e spirituale delle esperienze che vivono, a volte molto intense.

Presso il domicilio l’esperienza è a oggi più incerta. Alcuni parroci non hanno ancora colto la ricchezza di incontro col Signore e di comunione che si aprirebbe coinvolgendo ampiamente la comunità nella visita domiciliare ai malati. Sembra che, fino a quando una catechesi continua sulla malattia, sulla guarigione e sul passaggio della morte non avranno preso piede, la presenza al domicilio stenti a organizzarsi, in modo similare a quanto già si verifica negli ospedali, cioè come un fatto di comunione. Dovunque si fa notare che la carenza più grande è nelle case di riposo. Se le persone sensibili sono presenti in buon numero anche nelle parrocchie il problema è proprio nell’organizzarle, valorizzarle e raccogliere continuamente i frutti della loro offerta.

A oggi gli uffici diocesani di pastorale della salute stentano a trovare rimedio a questa inerzia. La crescita sarà di tutti o di nessuno; essendo un servizio di carità ci si aspetta che le vocazioni al diaconato permanente, crescenti in numero in tutta Italia e nel mondo occidentale (33% di crescita negli ultimi dieci anni secondo l’annuario statistico pontificio), crescano anche in qualità e possano essere al servizio del vescovo in questi ambiti, così invisibili e marginali per loro stessa natura.

Si stanno provando anche passi più arditi, entrare cioè nel vivo del bisogno umano consapevoli che i servizi pubblici hanno scarse risorse e sempre più numerosi sono i soggetti che non sanno accedere neanche a quei servizi che sarebbero disponibili. La sperimentazione sul campo, appena iniziata, ci indicherà quali modelli sono i migliori, ma certo mentre cresce la figura dell’infermiere di famiglia nel Servizio sanitario nazionale (SSN) potrebbe crescere quella di un infermiere di parrocchia che, sempre con principale riferimento nella medicina coordinata dal medico di famiglia, riesca a ricucire bisogni e risorse.

Ognuno di questi volontariati rischia di isterilirsi se non comunica col resto della vita cristiana sul territorio. È su questa comunicazione che si gioca il futuro di ogni singola comunità sanante.

(Tratto da Orientamenti Pastorali, 10/2019, EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati)