Giacomo RUGGERI – presbitero della diocesi di Concordia-Pordenone, guida di corsi di Esercizi spirituali e ritiri

Accompagnando un parroco negli Esercizi spirituali ignaziani via Skype, personalmente guidati, prima di concludere il corso mi ha detto: «Non avrei mai immaginato che proprio dalla pandemia mi arrivasse una buona intuizione per ri-scrivere radicalmente quella che sino a ieri ho chiamato catechesi parrocchiale. Non avendo la possibilità di vedere i gruppi del catechismo in parrocchia, mi ha permesso di vedere, a distanza, ciò che non ha funzionato nella struttura generale; e invece pensavo che andasse bene».

Distanziare, dunque, non è solo tenersi a debita distanza anti-contagio, e non è nemmeno solo evitare assembramenti in parrocchia. Distanziare – così come è giunto a consapevolezza il parroco negli Esercizi – è vedere in profondità ciò che nell’abitudine della superficie non vedo più. La pandemia ha generato morte, certamente. Ha generato, allo stesso tempo, inedita capacità di vedere in tutte quelle persone come preti, religiose, educatori, accompagnatori anestetizzate dal reiterato «si è sempre fatto così».

Con la campagna dei vaccini in atto, le parrocchie guardano a come poter vivere l’estate in oratorio, grest, ecc. Riflettere sulla consapevolezza alla quale è giunto il parroco al termine degli Esercizi, credo che sia bene iniziare a pensare adesso, assieme e non da soli, a come e cosa proporre ai genitori per la crescita nella fede con i loro figli, da ottobre 2021 in poi.

Aggregare è un verbo che non dice più nulla a giovanissimi e giovani. Ancora prima del Covid essi si aggregano sui social, nei giardini, in casa, ma sempre meno in parrocchia. Se non c’è un perché significativo per cui frequentare la parrocchia, giovanissimi e giovani lo cercano altrove.

I giovani, da tanto tempo, si sono distanziati (in tutti i sensi) da tutto quel frasario parrocchiale come: progetti e percorsi, incontri e cammini. Non c’è qualcosa, come preti e catechisti, da inventare di nuovo per loro. C’è da re-inventarsi con sé stessi. E non sarà facile, perché il «cavallo che vince» è duro a morire, anche in parrocchia.

Nella pastorale che verrà lo stesso termine «catechesi» è in sé repellente alle orecchie dei giovanissimi. Non serve innovare-camuffare il nome, per poi proporre il solito. Se nella catechesi pre-Covid si partiva tipo così: «Ora ragazzi parliamo di Gesù che nel vangelo guarisce il cieco», sarà bene, da adesso, discernere da chi e come ripartire. Non serve aver fretta di parlare subito a ragazzi e giovanissimi della messa, di Dio, di Gesù, della Chiesa, della fede, ecc. quando nella loro mente e nel loro cuore vi sono immagini falsate di Dio, Gesù, Chiesa, fede che necessitano di essere bonificate. Questo è un servizio importante: chi lo fa?

Che Dio ami la loro vita e la loro storia di giovanissimi non c’è bisogno che glielo dica il don o l’educatore. Dio sa farsi prossimo e intimo ai giovani, con una capacità che è di lui e lui solo; a me, semmai, saperla intuire, ascoltarla, narrarsela reciprocamente. Non serve dire «chi è Dio», ma come lo sento vivere e muoversi in me.

Le ricette non ci sono. Una cosa, però è certa: a ottobre 2021 non si può ripartire «da dove c’eravamo lasciati». Il dramma pastorale è pensare che non ci sia alternativa, perché convinti che lo stile «del catechismo», dandogli un’aggiustata, sia il modello valido. I giovanissimi stessi, ci dicono: non darmi modelli, ma prendimi così come sono, dove sono. Come prete, animatore, educatore prendere le distanze dalla catechesi che non incide più nulla è dura perché non sai che cosa proporre di inedito? La pandemia ti sta già rispondendo. Cerca di ascoltarla, in profondità, non da solo: insieme.

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