Pier Giuseppe Accornero – sacerdote, giornalista, scrittore

Alla fine del XVI secolo Torino, 20 mila abitanti, è colpita dalla peste. I metodi di oggi per combattere le pandemie sono simili a quelli di ieri. Causata dal batterio «Yersinia pestis», sconvolge il ducato e la nuova capitale, piena di vita, perfetta per la diffusione del morbo. Il duca Carlo Emanuele I si reca spesso a Chambery, l’antica capitale dove si origina l’epidemia. A Torino risiedono il sovrano, la corte, il centro politico e amministrativo dello Stato con notevole afflusso di persone: il via vai di mercanti e funzionari determina la rapida diffusione del morbo.

Casi di peste in Savoia si rilevano nei primi mesi del 1598 e numerose città – sulle vie di comunicazione tra Pianura padana, Svizzera e Francia – diventano «sospette» o «infette». L’unica opzione è bloccare gli spostamenti. Il magistrato generale di Sanità sigilla le frontiere; ordina accertamenti sui rapporti con la Savoia; vieta alle comunità al di qua dei monti di ricevere persone e cose provenienti da fuori; mette guardie armate ai valichi per impedire l’ingresso di chi arriva da luoghi infetti o sospetti e di verificare che i viandanti abbiano «certificati di buona salute»: chi ne è privo deve fare una quarantena di 20 giorni. Il 2 maggio 1598, nel villaggio di Vervins in Piccardia, firmano la pace Filippo II di Spagna e l’ex protestante Enrico IV di Navarra. Partecipa anche il Ducato di Savoia, in appoggio alla Francia. La pace riprende in larga parte i trattati di Cateau-Cambrésis del 1559.

Migliaia di soldati rientrano. Quelli sabaudi sono sottoposti a quarantena ai valichi alpini e sono accompagnati sotto scorta armata ai loro paesi. I risultati di queste misure sono inefficaci e a settembre compaiono i primi casi lungo le strade per Torino e altri luoghi: la capitale, «sospesa e bandita» dal resto dello Stato, entra nel panico. L’andamento è altalenante: la prima ondata nel 1598 registra una mortalità contenuta; la seconda nel 1599 richiede interventi eccezionali. Come racconta la storica Leila Piccolo in un libro e sulla rivista «Torino Storia» (giugno 2020), la corte, i diplomatici, il Senato, il Consiglio di Stato se vanno dalla capitale: molti sono ospitati nel castello dei Principi d’Acaja a Fossano. Carlo Emanuele I, di ritorno dalla Savoia, non entra in città e si rifugia nel castello di Miraflores – che aveva costruito dal 1585 sulle rive del Sangone e che fu demolito nel XIX secolo – e si alterna tra i castelli di Moncalieri, Fossano e Miraflores. Il Consiglio comunale delibera il ricovero coatto degli infetti nel lazzaretto fuori le mura e in abitazioni in legno; prolunga la quarantena a 22 giorni; ordina di bruciare abiti ed effetti personali; assume nuovi medici e monatti; vieta le funzioni religiose e ogni manifestazione al chiuso e all’aperto; proibisce ogni contatto con i malati; chiude le porte di accesso alla città. I monatti trasportano gli infettati e i cadaveri; bruciano o bolliscono gli oggetti prelevati dalle case, possibili fonti di contagio: le cose recuperabili – denaro e preziosi – sono conservati dalla Banca Reale in locali appositi e restituiti, a epidemia cessata, ai proprietari o agli eredi, trattenuta l’imposta sulle eredità.

Le attività produttive e i commerci languiscono e poi cessano; i ricoverati devono essere curati, nutriti e vestiti; i morti seppelliti. Medici, speziali, becchini, chirurghi (barbieri), guardie, cuochi, monatti vanno pagati in denaro e natura e costano parecchio: il lavoro del personale che mette a rischio la propria vita è generosamente retribuito. Le razioni di cibo per i monatti sono abbondanti come si legge in un documento: «Ogni giorno comprende tre micconi di pane, due pinte di vino, due libbre di carne; butiro (burro); nei giorni di vigilia quattro uova fresche, quattro once di formaggio». Un paio di mesi dopo i morti iniziano a diminuire; numerosi ricoverati nel lazzaretto guariscono; viene smantellato parte dell’apparato anche perché la crisi economica inizia a farsi sentire, le provviste scarseggiano, le entrate fiscali sono quasi nulle e la spesa pubblica è insostenibile.

 L’incredibile errore di valutazione spinge a un’incauta decisione e la peste ricompare più virulenta: nell’estate 1599 si arriva a 150-200 morti al giorno, tra i quali consiglieri comunali e numerosi addetti alla sanità. Torino si svuota e diventa una landa deserta. I lazzaretti, ormai incontrollabili, ospitano sia i contagiati e sia i sospetti. Il duca emana misure straordinarie. Si impone una netta divisione tra sani, malati, sospetti. Gli appestati, sempre più numerosi, vanno sistemati in locali separati fuori dalle mura o nel territorio circostante. Gli addetti alla sanità pagano un alto prezzo alla pestilenza. Vengono reclutati medici, cirogici (barbieri); poiché i monatti «netti», che non hanno avuto contatti con gli appestati, sono rimasti pochi, ne vengono assunti 100 da paesi ove la peste è debellata. I monatti sono incaricati della gigantesca disinfestazione. Strade, edifici e muri sono lavati e disinfettati con calce viva, considerata un disinfettante efficace. Quando in una casa c’è un appestato, la si svuota, la si lava con acqua e spezie, la si imbianca con calce viva. Un metodo sbrigativo ma l’unico possibile.

Intervengono «le prove», singolare categoria di addetti alla sanità. La «prova» è una persona sana, che ha fatto la quarantena chiusa in casa per i 22 giorni di incubazione della malattia: nella porta c’è una piccola fessura per passare cibo e acqua. Nel 1599 le «prove» sono così numerose che sono necessari dei controllori. La crisi economica che accompagna sempre le epidemie spinge il Consiglio comunale a occuparsi dei poveri: i mendicanti non trovano più elemosine e devono essere ricoverati in quanto possibili diffusori del contagio; si moltiplicano i «poveri vergognosi», coloro che non osano andare in strada a mendicare ma vivono di carità: per essi l’amministrazione accresce il contributo pubblico perché manca quello privato. Alla fine la pandemia è debellata, fino al 1630 quando esplode di nuovo.