Salvatore Ferdinandi, vicario generale della diocesi di Terni Narni Amelia

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Il tema della gestione economica dei beni ecclesiastici è molto ampio e investe certamente l’ordinamento canonico, ma assume anche un importante profilo morale. Non va quindi dimenticato che forme di ambiguità, imprecisioni, talora approssimazione e abusi del rapporto della Chiesa con i mezzi materiali, può comportare una diminuzione della credibilità della stessa di fronte al mondo, soprattutto da parte delle nuove generazioni. Pertanto, è importante premettere che non può essere semplicemente il Codice di diritto canonico o le Istruzioni della CEI e nemmeno i decreti dei nostri vescovi, a motivare la corretta amministrazione dei beni, ma alla base c’è il bisogno di educare a testimoniare e vivere i valori del vangelo in questo settore così delicato. Da diversi anni si sta ripetendo l’iniziativa di convegni nazionali per gli economi diocesani, come occasione preziosa di aggiornamento, di riflessione, allo scopo di accompagnare lo svolgimento del loro servizio. Progressivamente, questo appuntamento annuale ha coinvolto anche altre figure diocesane di sacerdoti e laici, avvertendo la necessità di contribuire alle varie funzioni di gestione, vigilanza e consulenza dell’amministrazione dei beni temporali della Chiesa, in maniera sempre più adeguata e trasparente. L’ecclesiologia conciliare, nel primo capitolo, al numero 8, della Lumen gentium, fonda tale affermazione con l’adozione della categoria di mistero, spiegando come «la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino». Pertanto, in quanto realtà anche umana e sociale, la comunità ecclesiale vive nelle dinamiche proprie dell’esistenza umana, comprese le sue condizioni materiali. Di conseguenza, non c’è alcun dubbio che la Chiesa possa detenere dei beni temporali e che debba amministrarli in modo appropriato ed efficace, per la sua missione e nella misura in cui servono alla sua testimonianza di fede, speranza e carità. Per questa ragione, il tema della gestione e dell’utilizzo dei beni materiali, ha un inevitabile impatto «educativo» e richiede una grande attenzione pastorale. Si tratta di educare alla solidarietà tutti i componenti la realtà ecclesiale, a cominciare da chi ha il dovere del governo complessivo come i vescovi, e parimenti i sacerdoti che hanno la gestione delle comunità parrocchiali all’interno delle quali sono presenti patrimoni artistici, immobiliari ed economici che hanno specifiche finalità di utilizzo.

  1. Le ragioni del diritto «nativo» della Chiesa a possedere i beni

 Il diritto a possedere i beni da parte della Chiesa – e dunque ad amministrarli – è strettamente legato a delle ragioni che sono emerse fin dall’inizio della comunità cristiana, quando ancora non esisteva la nozione attuale di persona giuridica, per giustificare il diritto di possedere i beni da parte di un gruppo sociale. Nella prima comunità cristiana, l’attività di raccolta e di distribuzione dei beni a favore dei bisognosi era interamente motivata dalla comunione che si andava costituendo attorno agli apostoli e alla loro testimonianza. Il libro degli Atti degli apostoli così la descrivono: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno».[1] È evidente che i beni messi in comune indicavano la consapevolezza di un primato della comunione rispetto alla singola persona e la condivisione diventava, in questa maniera, lo stile di vita della comunità cristiana come manifestazione visibile di quella unità profonda di spirito conseguita grazie all’unica fede e alla medesima carità.[2] Inoltre, i beni materiali posti a servizio della comunità servono non solo per soccorrere i poveri, ma anche per la vita stessa della comunità e per la sua missione. Nasce così la spiritualità dell’offerta, della condivisione e del dono in opposizione a ciò da cui il vangelo invita a guardarsi: la cupidigia. Gesù aveva affermato con chiarezza: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché se anche uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15). Questo forte richiamo evangelico viene ripreso da s. Paolo quando afferma: «Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e l’avarizia insaziabile che è idolatria» (Col 3,5). Pertanto, fin dall’inizio della sua esistenza storica la Chiesa, chiamata a seguire le orme del suo Signore che da ricco quale era si fece povero perché la sua povertà ci facesse ricchi,[3] giustifica il suo ricorso ai beni terreni in quanto necessari alla sua vita, alla sua attività e in particolare all’aiuto dei poveri. Nonostante questa prospettiva costantemente presente nel succedersi dei secoli, non sono certo mancati episodi che hanno macchiato la storia della Chiesa. Primariamente il sistema dei benefici, nato all’interno di una società feudale, ma che nei secoli successivi ha prodotto effetti distorsivi, ha determinato ingiuste sperequazioni tra uffici ricchi e uffici poveri, tra alto clero e basso clero, con relative conseguenze competitive. Il rimedio a questi possibili errori, sta nell’impedirli sul nascere attraverso la formazione di coloro che sono chiamati a gestire questi beni, esplicitando i fini propri di quel diritto in tre linee di azione: «ordinare il culto divino, provvedere a un onesto sostentamento del clero e degli altri ministri, esercitare opere di apostolato sacro e di carità, specialmente a servizio dei poveri», come indica il Diritto canonico.[4]

  1. L’ecclesiologia del concilio Vaticano II, ridisegnata una Chiesa povera per i poveri

L’ampio ripensamento ecclesiologico prodotto dal concilio Vaticano II ha spinto a un rinnovamento nella direzione di una Chiesa povera che però, bisognosa di mezzi economici per il conseguimento dei propri fini, facesse forza sulla loro funzione solo strumentale, chiedendo ai fedeli di collaborare al sostentamento della Chiesa e delle sue opere.[5] Di questi nuovi principi conciliari, ne è stato fedele interprete il Codex iuris canonici del 1983 che ha introdotto il superamento del sistema beneficiale e ha accentuato la libera e responsabile partecipazione dei fedeli al sostentamento della Chiesa, spingendo a farne un vero e proprio dovere-diritto fondamentale di ogni battezzato.[6] Ovviamente, gli errori degli uomini sulla gestione dei beni della Chiesa, per quanto gravi moralmente e spiritualmente, non intaccano quel diritto nativo «di acquistare, possedere, amministrare e alienare i beni temporali per conseguire i fini che le sono propri», da parte della Chiesa.[7] Anche le attività di carattere commerciale esercitate da taluni enti ecclesiastici, non dovrebbero mai essere finalizzate all’arricchimento personale o comunitario, bensì al perseguimento dei fini propri della Chiesa. Per questo, è necessaria una costante verifica da parte della comunità cristiana sull’uso evangelico dei beni. Le leggi canoniche e i soggetti implicati nell’applicazione di queste, non hanno altra funzione che aiutare la comunità ecclesiale in tutte le sue espressioni ad amministrare i beni all’interno delle opportune finalità.

Evitare l’utilizzo dei beni temporali in modo non corretto e per finalità estranee alla Chiesa, è un’esigenza etica sottesa alla disciplina canonica relativa alla organizzazione economica e all’amministrazione patrimoniale dei beni temporali della Chiesa. Di conseguenza, l’impegno a educare al rispetto di queste esigenze, fa sì che l’uso dei beni materiali e la loro amministrazione diventi occasione di esercizio delle virtù cristiane e possa contribuire in modo fruttuoso alla edificazione del regno di Dio. Infatti, i vescovi italiani, nel delineare il sistema di sostegno economico della Chiesa, si sono ispirati all’idea di comunione radicandola nel messaggio evangelico e hanno fatto proprio il magistero del concilio Vaticano II che raccomanda «un’esperienza di comunione, e riconosce a tutti i battezzati una vera uguaglianza nella dignità e chiede loro l’impegno alla corresponsabilità e alla condivisione delle risorse».[8] Questo rapporto tra i beni materiali e i fini della Chiesa ha trovato eco nelle parole del papa Paolo VI che affermava: «La necessità dei “mezzi” economici e materiali, con le conseguenze ch’essa comporta: di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei “fini”, a cui essi devono servire e di cui deve sentire il freno del limite, la generosità dell’impiego, la spiritualità del significato».[9] La necessità dei mezzi deve sempre essere strettamente connessa alla stringente logica dei fini. Gli uomini che guardano la Chiesa, da dentro o dal di fuori di essa, attendono che questa si manifesti anche nell’azione quale essa è nella sua intima natura, e che i discepoli di Cristo usino del mondo come se non ne usassero,[10] secondo un amore senza misura e una povertà senza finzioni, sempre fiduciosi nella provvidenza del Padre.

  1. Alcuni presupposti per amministrare i beni della Chiesa indicati dal magistero

 Nell’amministrazione dei beni ecclesiastici, è necessario conciliare una corretta gestione dei beni, sia delle parrocchie che delle diocesi, con la necessità di interpretare e applicare in maniera critica i criteri correnti dell’economia e del mercato. È infatti doveroso scostarsi da essi ogniqualvolta vengano disattese le istanze delle persone e le esigenze evangeliche. È la linea di molteplici appelli di papa Francesco che invita la Chiesa a essere segno profetico che reagisce alla «dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano»,[11] in un mondo quasi oppresso dal grande idolo dell’economia, soprattutto del mercato fine a se stesso. A questo riguardo, è necessario tenere presente quei principi ispiratori del nuovo sistema adottato in Italia per «Sovvenire» alle necessità della Chiesa, ricordati dai vescovi italiani nella poco conosciuta Lettera Sostenere la chiesa per servire tutti pubblicata il 4 ottobre 2008 a vent’anni da Sovvenire alle necessità della Chiesa. Corresponsabilità e partecipazione dei fedeli. In questo documento del 2008, i vescovi evidenziano l’importanza di educare al dovere del sovvenire e alla promozione di una mentalità ecclesiale di partecipazione e di corresponsabilità. A questo riguardo, viene ricordata la necessità di riproporre con convinzione le motivazioni ecclesiologiche ed etiche che fondano il sistema di sostegno economico alla Chiesa, perché senza di esse la stessa Chiesa perderebbe tutta la sua forza esemplare e propositiva.[12] Sempre in questa lettera, viene tracciato un primo bilancio riguardo alle opportunità offerte dal nuovo sistema, i valori che ha diffuso, le mete che ci stanno davanti. È importante però porre particolare attenzione ai «principi guida» posti alla base del nuovo sistema, perché contribuiscono alla formazione per una corretta gestione amministrativa e a un’adeguata amministrazione dei beni della diocesi e delle parrocchie secondo lo spirito conciliare. Vale la pena ripercorrerli, collocandoli dentro il contesto attuale.

  1. Il dono e l’impegno della comunione. È quanto mai attuale e urgente che venga sottolineato questo aspetto, contro la diffusa tendenza all’individualismo che porta a dimenticare il senso della gratuità e a guardare esclusivamente al proprio interesse.
  2. La chiamata alla corresponsabilità. È necessario che tutti i battezzati siano educati alla corresponsabilità, superando sia la deriva del clericalismo, sia la tendenza a non sentirsi soggetti attivi all’interno della comunità da parte dei laici.
  3. Il senso della partecipazione. Si tratta di una partecipazione a ogni livello: con l’apporto di idee, proposte, energie personali ed economiche perché si costruisca la comunione.
  4. La meta dell’uguaglianza. Sul nostro territorio la Chiesa è presente in una pluralità di forme e di espressioni, in tutti i contesti sociali. Ciò rende quasi inevitabile il divario fra chi è nell’abbondanza di mezzi e chi fa fatica a reperire il minimo necessario non solo in riferimento allo stipendio dei sacerdoti, ma anche alla distribuzione delle risorse all’interno della comunità.
  5. L’obiettivo della trasparenza. Chiarezza e trasparenza sono essenziali nell’amministrare i beni della Chiesa. Certamente nelle nostre comunità si è sviluppata una mentalità gestionale più attenta e una maggiore sensibilità all’informazione contabile, ma non sempre vengono pubblicati i bilanci sia delle comunità parrocchiali che delle diocesi. Come anche contribuisce alla trasparenza la separazione tra l’amministrazione dei beni personali e i beni ecclesiastici da parte del sacerdote, compresa la redazione del testamento, perché ci sia chiarezza anche per ciò che concerne un’eventuale eredità e il rapporto con gli eredi

Il vescovo primo responsabile nell’ amministrazione dei beni della diocesi

Il vescovo, in ragione della presidenza che gli compete nella diocesi, ha il dovere di organizzare quanto è relativo all’amministrazione dei beni ecclesiastici, sia per mezzo di norme e indicazioni, sia utilizzando gli strumenti e i sussidi della Conferenza episcopale. Ulteriori indicazioni utili per guidare l’amministrazione dei beni sono contenute nel Direttorio Apostolorum successores del 22 febbraio 2004 per il ministero dei vescovi, dove vengono richiamati i principi generali del governo episcopale, lo spirito di servizio e la pastoralità della sacra potestas:

 il principio della comunione, per il quale il vescovo deve adoperarsi affinché la diocesi sia «casa e scuola di comunione»;

– il principio della collaborazione: il vescovo promuove la partecipazione di tutti coloro che compongono la comunità cristiana all’unica missione della Chiesa;

– il principio della giustizia e della legalità: il vescovo imposta il governo della diocesi sulla giustizia e la verità, evitando visioni e schemi personalistici, per camminare insieme ai suoi fedeli sui binari dell’amore verso tutti.

Il Direttorio riafferma il radicale spirito di servizio che deve caratterizzare il ministero di un vescovo, e presenta il ruolo del vescovo come un servizio di amore. In pari tempo, sottolinea l’indole pastorale della potestà episcopale, che mira essenzialmente all’edificazione del popolo di Dio nell’unità della fede e dell’amore. Del governo pastorale del vescovo (munus regendi) è evidenziato il radicale spirito di servizio e di vigilanza sullo svolgimento della vita diocesana. In particolare, nel suo governo il vescovo deve esprimere gli stessi tratti del buon Pastore. A questo proposito, il Direttorio contiene indicazioni sulla responsabilità personale del vescovo e sul ruolo degli organismi di partecipazione. In particolare, per quanto riguarda la gestione dei beni, dal n. 189 al 191 sono indicati cinque criteri.

  1. il criterio di competenza pastorale e tecnica, dove si indica il coinvolgimento del Consiglio diocesano degli affari economici e il Collegio dei consultori per la trasparenza dell’amministrazione;
  2. il criterio di partecipazione, con il quale si invoca il coinvolgimento del clero mediante il Consiglio presbiterale, in merito ad alcune decisioni importanti, e la pubblicazione dei «rapporti economici» e i bilanci;
  3. il criterio ascetico, dove si richiamano la moderazione, il disinteresse e la carità;
  4. il criterio apostolico, che induce a utilizzare i beni come strumento a servizio dell’evangelizzazione e della catechesi;
  5. il criterio del buon padre di famiglia, cioè senso di responsabilità e atteggiamento di diligenza.

In concreto, il vescovo ha il compito di esercitare direttamente le sue funzioni di amministratore:

– sull’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto chiamato «diocesi»;

– su tutti i beni delle persone giuridiche che gli sono soggette mediante la figura dell’economo diocesano e l’Ufficio amministrativo della curia diocesana.

  1. Il parroco amministratore dei beni della comunità parrocchiale

Il decreto conciliare Presbyterorum ordinis, ricorda espressamente ai sacerdoti che devono amministrare i beni ecclesiastici «per quegli scopi per il cui raggiungimento la Chiesa può possedere beni temporali, vale a dire: l’organizzazione del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente a favore dei poveri».[13] In che misura e con quale priorità tali scopi debbano essere perseguiti, dipende dal giudizio prudente dei pastori che devono poter reggere la missione della Chiesa in mezzo alla gente e nel territorio in cui essa vive, usufruendo degli organismi di partecipazione che sono: il Consiglio pastorale parrocchiale e il Consiglio degli affari economici. Ovviamente la responsabilità amministrativa del parroco è esercitata sotto l’autorità del vescovo diocesano, in quanto la comunità parrocchiale è diramazione sul territorio della Chiesa particolare. Si tratta di una responsabilità che esige di essere esercitata «con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi e con l’apporto dei fedeli laici».[14] Anche se è una responsabilità personale, alla quale il parroco non può rinunciare[15] e che non può demandare ad altri. Nemmeno l’ordinario diocesano può sostituirsi alla responsabilità diretta e personale del parroco, se non in caso di negligenza.[16] Detta responsabilità ha carattere globale, in quanto abbraccia tutte le attività di cui la parrocchia è titolare, comprese, ad esempio, l’oratorio e la scuola materna. Inoltre, è da tenere in particolare considerazione l’obbligo di garantire con giuramento davanti all’ordinario, prima di incominciare l’incarico, di «svolgere onestamente e fedelmente le funzioni amministrative»,[17] e la necessità di adempiere il proprio compito «in nome della Chiesa, a norma del diritto»[18] e «con la diligenza di un buon padre di famiglia».[19] Il parroco, amministratore unico della persona giuridica che è la parrocchia[20] è coadiuvato dal Consiglio per gli affari economici nell’amministrazione della stessa. Il Consiglio per gli affari economici è obbligatorio, e anche se non ha compiti deliberativi, questo non sminuisce il valore dei pareri offerti dai componenti il Consiglio; pertanto, nessun parroco può amministrare da solo i beni mobili, immobili e finanziari della parrocchia di cui ha la cura pastorale.

Nel concreto, il CPAE dovrebbe aiutare il parroco nelle seguenti funzioni:

– curare la conservazione e manutenzione degli edifici, attrezzature, mobili, arredi e di quanto appartiene alla parrocchia, usando particolarmente premura per il patrimonio artistico e storico;

– esaminare e dare il proprio parere su contratti, preventivi, piani di finanziamento e di impiego di capitali, sul movimento del personale in servizio di attività parrocchiali;

– condividere con il parroco l’impegno di provvedere a soddisfare alle esigenze economiche della comunità parrocchiale, in particolare all’equo sostentamento del clero, al giusto compenso del personale religioso e laico comunque impegnato in attività liturgiche e pastorali, all’adempimento degli obblighi assicurativi e previdenziali del medesimo e di altri obblighi legislativi e fiscali dell’ente parrocchia;

–  esaminare e firmare i bilanci preventivi e consuntivi annuali dell’amministrazione parrocchiale, copia dei quali deve essere trasmessa al Consiglio diocesano per gli affari economici entro il mese di marzo di ogni nuovo anno;

–  farsi attento e sensibile alle esigenze degli organismi inter-parrocchiali e diocesani, in particolare degli istituti previsti al can. 1274, per contribuire adeguatamente al loro funzionamento a vantaggio di tutta la Chiesa diocesana.

Di particolare importanza, nell’ambito dell’amministrazione, sono il rendiconto e il preventivo annuale, due strumenti contabili per una adeguata gestione del patrimonio degli enti ecclesiastici. Infatti, la redazione accurata e fedele del rendiconto annuale è la prova più evidente di una amministrazione parrocchiale corretta, ordinata e trasparente. Il rendiconto è un utile strumento a servizio della progettazione pastorale per passare dagli interventi estemporanei, a una progettualità che nasca dall’osservazione delle molteplici componenti della realtà; dal discernimento di quello che risulta prioritario per dare risposte attraverso iniziative da promuovere e sostenere nei vari ambiti: catechesi, liturgia, carità, o per interventi strutturali da realizzare. Tutto questo logicamente non è pensabile che possa farlo un prete da solo, ancor più se è parroco. Il criterio fondamentale della trasparenza viene realizzato mediante una corretta informazione ai fedeli dell’amministrazione parrocchiale. Questo è un capitolo che non ha trovato ancora delle modalità pratiche di attuazione condivise all’interno della diocesi. Si ritiene però che similmente agli obblighi di presentazione del bilancio dell’ente diocesi da parte del vescovo al Consiglio presbiterale e Consiglio pastorale diocesano, così sia necessario che il Consiglio pastorale parrocchiale venga investito di tale funzione di corresponsabilità ecclesiale. Infine, un dovere specifico della realtà italiana riguarda l’impegno di promozione del sostegno economico alla Chiesa: l’otto per mille, le offerte deducibili, le rendite degli istituti diocesani per il sostentamento del clero. Il sistema ha attuato il principio della perequazione e della condivisione dei beni. In questo ambito è necessario attuare un percorso di sensibilizzazione e di formazione che coinvolga direttamente i CPAE aiutandoli a uno sguardo ecclesiale che va oltre il confine della propria parrocchia. Sarebbe per questo opportuno e necessario stabilire in sede diocesana, che almeno un rappresentante del CPAE si dedichi a questa promozione in favore di tutta la comunità cristiana, perché sia formata e informata correttamente. Da ultimo, è da considerare che il parroco è amministratore, non proprietario dei beni della parrocchia ed è tenuto a curare diligentemente gli immobili e gli arredi di pertinenza del complesso parrocchiale, anche se questo sia di proprietà di un ente diverso dalla parrocchia, in modo da evitarne il deperimento. Egli deve pertanto provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria di tali beni, non permettendo che eventuali trascuratezze nella manutenzione ordinaria rendano necessari costosi interventi di manutenzione straordinaria. Se la parrocchia non è in grado di provvedere, il parroco è tenuto a darne tempestiva segnalazione all’Ufficio amministrativo diocesano.

Tentando una conclusione

In questi tre decenni la Conferenza episcopale italiana ha realizzato un corpo di norme che chiedono di essere conosciute e osservate, perché la vita della comunità ecclesiale sia al tempo stesso dinamica e ordinata, docile nell’ascolto dello Spirito e attenta all’edificazione del bene comune. Nella vita del popolo di Dio la legge ha la funzione non «di mortificare il dinamismo dello Spirito, ma di incanalare le energie del cristiano, ordinandone la creatività battesimale, che non si esaurisce nell’ambito individuale, ma chiede di espandersi anche a livello ecclesiale, cioè comunitario».[21] Se la promulgazione della disciplina costituisce un significativo esercizio della sollecitudine pastorale dei vescovi, educare al loro rispetto e alla loro puntuale recezione nella pratica della vita ecclesiale, rende più trasparente la testimonianza di comunione. A maggior ragione oggi, dove dominano forme di arrivismo, di accaparramento, di indifferenza verso chi è in difficoltà, occorre favorire la formazione dei soggetti che hanno responsabilità della gestione dei beni della Chiesa, nella direzione del mutuo sostegno, del dialogo, della trasparenza, del confronto fra le idee nella direzione della credibilità e della condivisione. Amministrando correttamente i beni temporali della Chiesa si opera tutti a servizio della sua comunione e della sua missione nel mondo, lungo la storia. In questa prospettiva, conserva tutta l’attualità la suggestiva esortazione di s. Cipriano che dice: «Dividi i tuoi redditi col tuo Dio, spartisci i tuoi proventi con Cristo, rendi Cristo partecipe dei tuoi beni terreni, perché egli ti renda coerede con sé dei regni celesti».[22]

[1] At 4,32-35.

[2] Cf. At 2,42-47.

[3] Cf. 2Cor 8,9.

[4] Cf. CJC, can. 1255.

[5] Cf. Christus Domini nn. 7, 28, 31. Presbyterorum ordinis, nn. 8, 17, 20, 21.

[6] Cf. CJC, can. 222,1.

[7] CJC, Libro V can. 1254 su I beni temporali della Chiesa.

[8] Conferenza episcopale italiana, Sostenere la Chiesa per servire tutti. A vent’anni da Sovvenire alle necessità della Chiesa, 4 ottobre 2008, n. 4.

[9] Paolo VI, Udienza generale del 24 giugno 1970, in Osservatore Romano 25 giugno 1970.

[10] Cf. 1Cor 7,31.

[11] Evangelii gaudium, n. 55.

[12] Cf. CEI, Sostenere la Chiesa per servire tutti, n. 5.

[13] Concilio ecumenico Vaticano II, Decreto Presbyterorum ordinis, n. 17.

[14] Ibid. Can. 919.

[15] Ibid. Cann. 537 e 1289.

[16] Ibid. Cann. 1279 § 1 e n. 25.

[17] Ibid. Can. 1283.

[18] Ibid. Can. 1282.

[19] Ibid. Can. 1284 §1.

[20] Ibid. Can. 1279 §1.

[21] Ibid.

[22] S. Cipriano di Cartagine, La beneficenza e le elemosine (De opere et eleemosynis),13,19-23.

Articolo tratto da Orientamenti Pastorali, n.11 del 2017 – © Tutti i diritti sono riservati