Paolo Bustaffa

«Ci sono state due rivoluzioni mondiali. Una nel 1848. La seconda nel 1968.

Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo»

Hopkins

 

«Qui sta succedendo qualcosa alle nuove generazioni, e noi non abbiamo capito niente»: Palmiro Togliatti così si confidò con alcuni collaboratori di ritorno dalla Normale di Pisa dove aveva parlato del Partito comunista e della svolta di Salerno con la quale nel 1944 lo stesso partito aveva acconsentito alla formazione di un governo di unità nazionale. Gli studenti lo avevano contestato «da sinistra».[1] Era il marzo 1963: il ’68 italiano si annunciava e incominciava a scuotere la coscienza del Paese e della Chiesa. A distanza di 50 anni la preoccupazione di Togliatti, come l’inquietudine intellettuale-politica di Aldo Moro e la trepidazione pastorale di Paolo VI, possono essere richiamate per rileggere quella stagione con saggezza, con la voglia di capire, con la disponibilità a mettere le proprie interpretazioni a confronto con altre. Per non rischiare di ripetere a distanza di 50 anni quel «noi non abbiamo capito niente».

Una spallata al mondo di ieri  

Alcuni flash si accendono nella mente a distanza di 50 anni. Sono di diverso, se non contrapposto, segno, non hanno pretese di essere pensieri approfonditi, possono però essere utili per riprendere una rilettura: il ’68 allargò il fossato tra le generazioni. Mentre abbattevano limiti e frontiere i giovani innalzavano un muro tra il vecchio e il nuovo e tra i vecchi, detti allora matusa, e i giovani. I vecchi non trovarono linguaggi adatti per un dialogo tra generazioni. Anche il tema della parità uomo-donna fu al centro dei dibattiti di quel tempo e si aprì la via al femminismo. La politica raggiunse l’intimità e il privato. L’immaginazione al potere divenne slogan di riconoscimento dei contestatori. In realtà non ci furono esiti molto creativi. Nacque anche un ecopacifismo alimentato più dall’utopia che da un pensiero e da un progetto. Si gridò alla mutazione antropologica: mutarono gli abbigliamenti, crebbero le barbe, i capelli.

Il ’68 fu una spallata al mondo di ieri, verso la modernizzazione. Che la società non andasse al passo delle trasformazioni, era documentato. La scuola e l’università, la famiglia e la società erano piene di contraddizioni, incrostazioni e ipocrisie. Il ‘68 dopo aver sognato la società senza padri a partire dal Padre («Dio è morto»), ebbe come conseguenza una società senza figli. Il ’68 nacque collettivista ma non finì tale: la persona venne sostituita dall’individuo come il popolo dalla massa. L’effervescenza di quegli anni non produsse opere creative degne di restare nel tempo e questo fu la conseguenza di un persistente atteggiamento di persone incomprese e comunque «contro». Declinarono le figure di riferimento, i docenti, i genitori, i sacerdoti, gli educatori. Nella lotta contro l’autoritarismo si colpì anche il principio educativo dell’autorità. Ma anche si aprirono percorsi educativi nuovi dove i testimoni diventavano maestri.

La spallata al mondo di ieri ci fu. Il segnale venne dato. Prese avvio un cambiamento di mentalità, furono poste tracce di novità culturale ma tutto si fermo pochi anni dopo.  Si creò un vuoto nel quale nacquero l’estremismo politico e poi il terrorismo.

Una rottura generazionale

Con il termine «Sessantotto» ci si richiama a un movimento di contestazione degli assetti educativi e sociali che esplode in diverse città (da Berkeley a Berlino, da Parigi a Praga, da Roma a Tokyo e Città del Messico, da Rio de Janeiro a Milano), con orientamenti simili e capace di segnare una rottura generazionale tra le più marcate della storia contemporanea. Tuttavia, quando di quella stagione si tenta una ricostruzione storica critica, afferma Guido Formigoni, «è smentita l’immagine di un movimento coerente e coeso. Emerge piuttosto un coacervo di tensioni e istanze, spesso convergenti ma con caratteri distinti e articolati, riferiti a diversi ambiti (scolastico, sociale, culturale, morale, politico, religioso, ecclesiale, ecc.), a cui la società del tempo rispose in modo travagliato e diversificato. L’intreccio di istanze e risposte provocò una diffusa trasformazione, che coinvolse anche gli oppositori della “contestazione” o i semplici spettatori. Sarebbe più corretto parlare quindi, in prima approssimazione, più che di un movimento del Sessantotto di una “crisi sessantottina”, intesa come momento decisivo nella vita di un organismo sociale collettivo, in cui sono messi in discussione e cadono assetti tradizionali, permettendo l’emergere di novità attraverso processi complessi. Questa valutazione non si basa solo sull’indubbia complessità del movimento, ma anche sulla considerazione del contesto globale in cui esso sorse».[2]

In Italia negli anni ’50 e ’60 era esplosa la «grande trasformazione» economica e sociale. Il Paese in un breve tempo era entrato in modo convulso e inatteso in una società industriale. Questa aveva comportato l’esodo dall’agricoltura e la crescita dell’impiego industriale con bassi salari e lentissima crescita dei consumi. Crebbe l’emigrazione interna e la rottura di molti contesti sociali e familiari tradizionali. Migliorava la scolarizzazione e aumentava il numero degli iscritti all’università. In ambito politico nascevano le grandi speranze riformatrici riposte nel centrosinistra. «Si assisteva – scrive Guido Formigoni − al profondo sconvolgimento degli equilibri postbellici: una società ancora tradizionale e piuttosto ingessata era coinvolta in spinte di movimento che ne arricchivano il pluralismo e la vitalità, ma rendevano anche più difficile definire nuovi punti di equilibrio».

I cattolici in una società senza respiro

Scrive Guido Formigoni che «il Sessantotto coincise con l’inizio della crisi dell’epoca di sviluppo economico del mondo capitalistico, la sua età dell’oro affermatasi dopo il 1945, che aveva visto prevalere il modello statunitense in Occidente come guida ideale delle dinamiche economiche, sociali e politiche». In questo contesto, a partire dall’inizio degli anni ’60, «si affacciò alla storia una nuova generazione che non aveva conosciuto direttamente la guerra, cresceva in un maggior benessere ed era spesso più colta e raffinata dei pari (definiti non a caso la “generazione dei doveri”) ma viveva quasi inaspettatamente la difficoltà di ritrovarsi in quell’assetto evolutivo e inclusivo».[3] A conferma di ciò è quanto si legge nel manifesto di Port Huron, degli Studenti per una società democratica, che nel 1962 segnò negli Usa l’avvio della critica e della contestazione dei giovani alla società e alle sue istituzioni: «Noi siamo persone di questa generazione cresciute in un confort almeno modesto, alloggiate nelle università, che però guardano con sconforto al mondo che hanno ereditato». Critica nei confronti di una società di adulti senza respiro era in Italia quel mondo cattolico che si sentiva scosso dal vento del concilio ecumenico Vaticano II.  Si può così dire che il ’68 nel nostro Paese è nato «cattolico»: i leader del movimento studentesco all’Università di Trento provenivano da esperienze cattoliche, la prima università occupata dagli studenti il 17 novembre 1967 fu la Cattolica di Milano, i primi leader di quella protesta erano i giovani cattolici «segnalati» per i loro meriti dai loro parroci come era previsto dalla procedura per l’ingresso in università. Simpatico, ma non solo, qui ricordare che l’indumento indossato da Mario Capanna, quando arringava con un microfono i coetanei perché protestassero contro l’aumento delle tasse universitarie e l’autoritarismo accademico, non fu il notissimo eskimo, bensì un lungo impermeabile nero che gli era stato prestato da un cappellano universitario perché piovigginava.[4] L’Università Cattolica in quei mesi venne interessata da quattro occupazioni, l’ultima delle quali (giugno 1968) durò due settimane; non si trattò di episodi sempre e del tutto «nonviolenti», basti pensare alla «battaglia di largo Gemelli», uno di primi episodi di «guerriglia urbana» in Italia, nel marzo 1968. Si coniò in quei tempi l’appellativo «katanga» per indicare quei giovani che non andavano per il sottile nel tenere un ordine fatto a propria misura nelle manifestazioni studentesche.

Ma poi si verificarono altri episodi di natura ecclesiale che, nel contesto dell’epoca, assunsero caratteri emblematici: il cosiddetto «controquaresimale di Trento», il 26 marzo 1968, quando uno studente cattolico contestò pubblicamente il predicatore nella cattedrale; l’occupazione della cattedrale di Parma il 14 settembre; l’inizio della contestazione dell’Isolotto, il quartiere periferico di Firenze dove nel dicembre 1968 cominciò la «messa in piazza» e che divenne poi l’apripista delle comunità di base in Italia. Si può affermare, stringendo molto l’analisi, che mentre la contestazione nelle scuole e all’università mandava in dissolvenza le sue origini «religiose», la protesta usciva dalle aule universitarie ed entrava sotto forme differenti nelle chiese, nei seminari, nelle parrocchie, tra le associazioni. «L’associazionismo cattolico − scrive al riguardo Giuseppe Santagata − entra in crisi negli anni Sessanta a causa degli effetti sempre più dirompenti della secolarizzazione che investe la sfera del religioso, ma anche le altre culture politiche (si pensi, per esempio, al drastico calo di iscrizioni alla FGCI). Altri fattori di crisi sono da ricercare nel processo di ricezione conciliare, dal momento che i gruppi spontanei mettono in discussione la legittimità stessa dell’“apostolato gerarchico”».[5] Infine, bisogna tenere presente che la crisi attraversa anche la stessa Azione cattolica con le organizzazioni giovanili (GIAC e FUCI) impegnate per la democratizzazione interna e per una rottura definitiva del collateralismo. In questo contesto, la presidenza Bachelet si trova a gestire la difficile transizione verso la «scelta religiosa». Scelta che non fu l’abbandono dell’impegno politico ma la presa di distanza da coinvolgimenti partitici.

Mancò un supplemento di discernimento

«Nella Chiesa il clima di contrapposizione sessantottino − afferma Guido Formigoni − finì per indebolire le linee di riforma più serie e meditate. La recezione del concilio, guidata con decisione anche se con preoccupazione da Paolo VI, fu quindi resa più complessa: ci furono scontri e tensioni per realizzare percorsi altrimenti lineari. I gruppi dissenzienti e le nuove “comunità di base” si divisero ancora nell’intreccio tra problemi ecclesiali-religiosi e implicazioni politiche della vita cristiana: molti gruppi spontanei scelsero un maggior distacco dalla politica e una linea di rigore spirituale anti-integrista; altri miravano a un’accentuata politicizzazione di alcuni passi chiave del vangelo (soprattutto il tema della “Chiesa dei poveri”), dando vita a forme di sostanziale nuovo integralismo di sinistra». In entrambe le parti non si svolse un esercizio di discernimento. Emersero a fatica tentativi di rinnovamento pastorale, come quello del piano Evangelizzazione e sacramenti della CEI del 1973, con un serio ripensamento del modello tradizionale di trasmissione della fede. Nella scuola e nell’università furono spazzati via aspetti tradizionali ormai superati, ma il sistema formativo stentò molto a trovare un suo nuovo assestamento. Non si ebbe nessuna riforma generale dell’università o della scuola superiore, ma solo una serie di provvedimenti tra cui la liberalizzazione degli accessi alle facoltà e l’aumento dei docenti per rispondere alle esigenze di un’università di massa. «Se l’aspetto soggettivistico della rivolta − afferma lo storico − ebbe effetti duraturi, non resistette invece molto quello movimentista, assembleare e comunitario, travolto dalla carenza di pensiero critico riformista, dall’avanzata della secolarizzazione e della forza della pratica consumista». «La cosa più sconcertante − afferma a sua volta Roberto Beretta in un’intervista rilasciata all’agenzia Zenit all’uscita di un suo libro sul ’68 − fu l’appiattimento di molti credenti (preti compresi) sugli strumenti di analisi marxista, o comunque materialista. L’imperativo era rovesciare le strutture come se non sapessimo da duemila anni che il male sta invece nei cuori e che anche le strutture più perfetta non di per sé la salvezza. […] Accadde così che i cattolici invece di portare nel movimento studentesco e nella contestazione la ricchezza della loro sapienza teologale e umanistica si fecero contagiare da atteggiamenti che nulla avevano a che fare con quelli del vangelo».[6] Un giudizio netto che richiama immediatamente quella tiepidezza della fede che sempre impedisce di vivere e comunicare la bellezza e la generatività dell’essere cristiani.

Così sulle strade del mondo

In Germania il Movimento studentesco già nel ’60 era impegnato in un dibattito critico sull’organizzazione conservatrice dell’università. Leader era Rudi Dutschke, unico rappresentante di un movimento occidentale di contestazione a partecipare alla «Primavera di Praga». Negli Stati Uniti si ebbe l’inizio di un vero e proprio movimento studentesco scaturito dalla «rivolta di Berkeley». Aveva caratteristiche più pragmatiche rispetto ai momenti europei anche se fu l’incubatoio della «New left» nuova sinistra che si batté contro il complesso militare-industriale e la guerra del Vietnam. Il 21 aprile 1968 organizzò il più grande sciopero studentesco nazionale. Il Maggio francese, nato nell’università di Nanterre, durò solo un mese ma nonostante la voce forte del «gollismo» ebbe una fortissima intensità comunicativa («la presa della parola») e si sviluppò in tre fasi: studentesca, sociale e politica. Tra i leader del movimento Daniel Conhn-Bendit. Con minor slancio rispetto a quelli di altri Paesi europei il Movimento studentesco in Inghilterra svolse gran parte della sua attività alla London School of Economics e prese come riferimento l’esperienza Usa. In Grecia non riuscì a esprimersi un vero e proprio movimento studentesco a causa del colpo di Stato militare. Non mancarono tentativi di protesta ma sempre furono respinti con la forza. Anche in Turchia il movimento si attivò all’interno delle università e contestò la presenza Nato nel Paese. La repressione poliziesca non consentì però di ottenere risultati e provocò il ricorso alla violenza da parte del movimento. La Spagna, sotto il regime franchista, venne attraversata da una forte contestazione sia studentesca che operaia che contribuì in modo determinante alla fine del regime. Scioperi e occupazioni si susseguirono anche con l’adozione delle tecniche dei «commandos» per contrastare le cariche della polizia. Interessante notare come nel 2017 e nel 2018 alcuni convegni siano stati dedicati ai riflessi del ’68 nella società e nella Chiesa di Spagna. In Europa orientale vale certamente la pensa accennare a quanto accaduto in alcuni Paesi. In Polonia sotto la influenza sovietica negli anni ’60 si avviò una «controcultura» giovanile grazie anche ad alcuni studenti che avevano studiato o stavano studiando in Francia e in Italia. Nell’agosto 1968 dopo la Primavera di Praga e il suicidio nel 1969 di Jan Palach i movimenti studenteschi orientali attendevano più solidarietà da quelli occidentali. Questa solidarietà fece fatica a esprimersi perché i giovani dell’est ritenevano condivisibili le democrazie occidentali che invece i loro coetanei occidentali contestavano. Il ’68, oltre che negli Usa e in Europa, si sviluppò in Brasile, Messico, Cina e Giappone. Nel centro di Rio de Janero il 26 giugno 1968 si tenne la Passeata dos Cen Mil con studenti, intellettuali, politici, nessuna delle richieste di democrazia venne accolta dal dittatore e proteste continuarono. In Argentina e a Cuba ispirandosi anche al Che gli studenti si attivarono e in molti casi entrarono nella guerriglia. Il 2 ottobre 1968 nella Piazza delle Tre Culture a Tlateloco Città del Messico le proteste furono brutalmente represse e 300 furono le vittime della violenza poliziesca. Il movimento brasiliano fu prevalentemente di tipo sociale. Nel corso delle Olimpiadi del Messico nel 1968 due atleti afroamericani alzarono il pugno in segno di solidarietà con le vittime delle discriminazioni razziali un atleta australiano si unì al loro gesto indossando la coccarda dell’Olympic project for human rigths.

Per quanto riguarda la Cina e la grande rivoluzione culturale proletaria una ricerca e un dibattito sono ancora aperti in particolare sull’uso «occidentale» del libretto rosso di Mao. Il Giappone visse in modo forte e a volte drammatico il ’68. La contestazione partì dalle tasse e dalla didattica, dalla durissima selezione fino ad arrivare alla guerra in Vietnam. A fine ottobre ‘68 avvenne il cosiddetto «Assalto a Tokio» con il coinvolgimento degli operai. Il movimento venne represso ma sul vuoto che lasciò nacque un’organizzazione terroristica.

Emerge da questo quadro internazionale non un’immagine di ’68 compatto e uguale ovunque ma un coacervo di tensioni e istanze, spesso convergenti ma con caratteri distinti e riferiti a diversi ambiti (scolastico, sociale, culturale, morale, politico, religioso, ecclesiale, ecc.). A questa diversità di sensibilità e posizioni la società del tempo rispose in modo travagliato e diversificato.[7]

Preoccupazioni, inquietudini, trepidazioni

Uno sguardo al numero 12 di Orientamenti pastorali del 2008 consente di trovare nel dossier spunti di riflessione del tutto attuali anche se redatti in occasione del 40 anniversario. «Il Sessantotto aveva messo sul tavolo i temi della libertà, della giustizia, dell’uguale dignità, della corresponsabilità comunitaria, del cambiamento. E come potevano i cristiani non esser dentro a questa vicenda, non sentirsi chiamati a collaborare, continuandola e perfezionandola giorno dopo giorno, alla creazione del mondo ad opera di Dio?».[8] Angelo Bertani, direttore di «Adista», centra la situazione del ’68, e di questo ne era ben cosciente ad esempio Aldo Moro che nutriva una grande speranza nel movimento giovanile cattolico di quegli anni, tanto da esordire dicendo «c’è un mondo nuovo che nasce. E vincerà», la risposta a cinquant’anni di distanza non può che essere «non vinse anche perché non riuscì a nascere e, soprattutto, non ebbe interlocutori adeguati».[9] Occorre allora riprendere in mano il decennio 1960-1970 per comprenderne meglio lo spirito, si scopre presto che è stato un tempo di grandi intuizioni, «si cominciò a riflettere sul gruppo, sulla sua valenza educativa, sulla relazione tra le persone, sui ruoli, sulla figura della guida che fu chiamata generalmente animatore. Il gruppo sostituì decisamente l’adunata».[10] Questo nuovo pensiero come si può immaginare, non ha coinvolto soltanto il laicato, ma è riuscito a valicare le mura dei seminari, della formazione dei futuri pastori della Chiesa, riportando l’attenzione a Cristo, scrive Luca Bonari «che cosa doveva fare un seminarista e un giovane prete di fronte alla grande sfida? Doveva tornare nel cenacolo. Doveva ripartire da Cristo. Doveva ricordare che il suo sacerdozio prima di essere un dono per la Chiesa è una storia d’amore con Cristo che lo ha scelto. Doveva cercare il modo nuovo di amare la Chiesa nel e con il cuore di Cristo che ama in modo sempre nuovo».[11] Ed è proprio questo modo sempre nuovo d’amare di Cristo che il mondo giovanile desiderava conoscere. Nei conventi stessi si diffonde questo anelito all’amore di Cristo vissuto nel confronto e nel dialogo, ne è testimone Loredana Canzian che afferma «gli incontri comunitari, divenuti in quel periodo un appuntamento quasi costante nelle nostre comunità, non erano più soltanto occasioni per la nostra organizzazione interna; erano luogo privilegiato del confronto, spesso acceso e vivace, sui grandi temi ai quali sentivamo di dover dare un volto e una risposta comunitaria».[12] Un volto e una risposta comunitaria saranno i numerosi gruppi che nasceranno in quegli, «i gruppi si impegnano ancora in un lavoro di animazione del territorio e di azione socio-politica. Non esauriscono il loro impegno nel fare qualcosa per e con le persone, ma si preoccupano anche di comunicare alla realtà territoriale circostante che tutti possono fare qualcosa, che tutti sono responsabili gli uni degli altri».[13] Il movimento sessantottino era davvero arrivato a mettere in discussione ogni ambito, ogni realtà, dalla Chiesa alla politica, dalle comunità alle relazioni personali, e alla base c’era il desiderio «di andare controcorrente, di non accettare passivamente i modelli di vita che venivano prevalendo, di cercare relazioni umane più autentiche e giuste; insomma, di non essere conformisti e di cambiare il mondo».[14] A distanza di cinquant’anni difronte a questi desideri non possiamo far altro che domandarci: è forse impossibile, irrealizzabile, un’utopia? Dieci anni fa Angelo Bertani citando Max Weber affermava che «la politica consiste in un lento, tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si tentasse sempre l’impossibile. Per i cristiani poi l’impossibile è una categoria quasi sconosciuta: tutto è possibile a Dio».[15] Dopo mezzo secolo, l’interrogativo è probabilmente sempre lo stesso, l’analisi la medesima, forse quello che manca oggi è il desiderio di cambiamento, è il desiderio della contestazione; occorre chiedersi se la fotografia della società sessantottina è applicabile ai nostri giorni «il sessantotto era questo: una reazione, un grido d’allarme, la coscienza che ci sono dei fini nel nome dei quali orientare e, se del caso cambiare, l’esistente. Un’esigenza insieme culturale, spirituale e morale. Certo fu presentata soprattutto come sfida, rifiuto, contestazione, si diceva. E forse non era giusto contestare? Invece che amministrare gli interessi della società, ci si proponeva di cambiarla, secondo un progetto di giustizia e di altruismo. È questa una sopravvalutazione della politica, la generosa follia di Prometeo?».[16] A questo punto tornano alla mente la preoccupazione di Togliatti, l’inquietudine di Aldo Moro, la trepidazione di Paolo VI. Preoccupazioni, inquietudini, trepidazioni che, in uno scenario non del tutto mutato, sono più che mai vive. A distanza di cinquant’anni dal ’68… sta succedendo qualcosa.

Paolo Bustaffa, giornalista

(tratto da Orientamenti Pastorali, 6-2018. Tutti i diritti riservati)

[1] M. Boato, Il lungo ’68 in Italia e nel mondo, Morcelliana, 2018, 25.

[2] G. Formigoni, «A cinquant’anni dalla “crisi sessantottina”: un’eredità complessa», in Aggiornamenti sociali, maggio 2018.

[3] Ivi.

[4] R. Beretta, Cantavano Dio è morto. Il ’68 dei cattolici, Ed. Piemme, 2008.

[5] A. Santagata, La contestazione cattolica: movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68, Ed. Viella, 2016.

[6] Zenit, Intervista con Roberto Beretta, 20 gennaio 2009.

[7] M. Boato, Il lungo ’68 in Italia e nel mondo, Ed. Morcelliana, 2018, 25.

[8] A. Bertani, «Il ’68 e la presenza dei cattolici in politica», in Orientamenti pastorali 12(2008), 75.

[9] Idem, 76.

[10] D. Sigalini, «Il ’68 e le aggregazioni giovanili», in Orientamenti pastorali 12(2008), 53

[11] L. Bonari, «La Chiesa e i suoi preti: le sfide del ’68 alla scelta vocazionale e un percorso ancora da completare», in Orientamenti pastorali 12(2008), 60

[12] L. Canzian, «Il ’68 e il mondo delle religiose», in Orientamenti pastorali 12(2008), 68.

[13] G. Perego – M.T. Tavassi, «Il ’68 e il mondo del volontariato, della cooperazione e del servizio civile», in Orientamenti pastorali 12(2008), 70.

[14] A. Bertani, «Il ’68 e la presenza dei cattolici in politica», in Orientamenti pastorali 12(2008), 74

[15] Idem, 75.

[16] Idem, 77.