Carmelo La Magra, parroco a Lampedusa

Si parla spesso di teologia narrativa, bisogna raccontare. Una grossa percentuale del mio ministero a Lampedusa è composta dal raccontare, all’interno e all’esterno.

Prima di raccontare e costruire una immagine più nitida di Lampedusa dovremmo un po’ demolire, fare una destrutturazione dell’immagine mediatica che è stata costruita, che da un lato ne ha fatto un simbolo e dall’altro il santino da esporre, ma da cui prendere le distanze. Lampedusa fa tanto, qui sono tutti buoni, a Lampedusa ci sono gli eroi, dovrebbero dare il premio Nobel a Lampedusa, in realtà a Lampedusa c’è gente come in tutte le nostre parrocchie e diocesi. Occorre destrutturare anche quell’immagine di infinita emergenza che trasmettono i mezzi di comunicazione, che ci mostrano come in trincea, in conflitto, in uno stato di disagio continuo: l’emergenza c’è, ma non è per noi, è per le persone che arrivano, che vivono in uno stato di perenne difficoltà che parte da «casa loro». Chi parte spesso non ha la libertà di restare, di restare a casa propria e con la propria famiglia, al proprio Paese. Spesso chi non è mai venuto a Lampedusa ha un’immagine dell’isola diametralmente opposta a quella reale.

Lampedusa appare al mondo nel 1986. Cosa accadde? Gheddafi decide di voler lanciare tre missili verso la base americana che si trovava a Lampedusa; questi missili arrivano vicino alla costa ma esplodono in mare. Il mondo conosce l’isola: arrivano i giornalisti, il turismo di massa e Lampedusa così passa ormai ai nostri giorni, nei mesi estivi, che in genere vanno da aprile a ottobre, da una popolazione di 6.000 a numeri vertiginosi per lo spazio dell’isola. La storia moderna di Lampedusa la conosciamo un po’ meglio, perché è passata sotto i nostri occhi, continua a essere punto di approdo per le popolazioni del continente africano, ma nel 2011 è accaduto qualcosa di particolare, la cosiddetta primavera araba, che ha visto presenti contemporaneamente nell’isola 11.000 persone, provenienti per la maggior parte della Tunisia, a fronte di 6.000 abitanti dell’isola. Barconi e gommoni da lì in poi continuarono ad approdare sull’isola fino a un evento centrale nella nostra esperienza: il 3 ottobre 2013, quando un’imbarcazione naufragò a poche miglia dalla costa, causando 386 morti. Non era la prima volta e non sarà l’ultima, ma per la prima volta la gente vide tutte quelle bare insieme: 365 bare, 20 corpi non furono mai ritrovati, un bambino venne sepolto insieme alla madre perché partorito nell’esatto momento in cui la madre annegava. Questo rimase fisso nella mente di chi era a Lampedusa o di chi si interessava di questo fenomeno in quel momento; pochi mesi prima il papa, in visita a Lampedusa aveva gridato, pensando ad altri naufragi, «non accada mai più». Una settimana dopo il 3 ottobre 2013 altre 300 persone morirono in mare, e questo accadrà ancora: dal 1 gennaio fino ad oggi più di 1.500 persone sono andate giù, mai più riviste, mai recuperate.

Cosa accade a Lampedusa? Lampedusa, limite, confine, qualcuno vuole considerarla frontiera; la frontiera impone che dall’altro lato ci sia il nemico. Di fatto tutta la politica, la prassi che gira attorno all’accoglienza è una prassi di difesa, le leggi si chiamano «leggi di contrasto all’immigrazione», tutti quelli che operano a Lampedusa in questo senso operano in difesa. Quando ci rechiamo al molo per l’arrivo delle persone, oltre a noi, la parrocchia e altre persone, c’è un grosso numero di persone, ognuno a suo modo per la difesa di qualcuno o qualcosa: ci sono le forze dell’ordine, che sono lì a difendere «noi da loro»; ci sono quelli delle organizzazioni, come Frontex, che hanno il compito guardare ai confini e fare indagini sul viaggio; c’è il personale medico, ma che sta lì principalmente per difendere noi dai possibili contagi; ci sono alcune organizzazioni che difendono per settori (quelli che difendono i bambini, quelli che difendono le donne). La nostra presenza al molo cerca di essere una presenza di accoglienza, perché chi arriva a Lampedusa ha affrontato un viaggio che può durare anche due anni, partiti dai propri Paesi − partiti da Paesi quasi sempre in guerra o con gravi persecuzioni o con disagi enormi −, oltrepassano il deserto, e non si tratta di una passeggiata, tanto che alcuni non ce la fanno, arrivati in Libia si diventa clandestini, si viene trattati come oggetti venduti e passati di mano tra gruppi di trafficanti. In Libia si vive in uno stato di quasi detenzione, i trafficanti dividono le donne dagli uomini e li torturano per farsi mandare il più possibile dalle famiglie di origine, oltre a quello che già hanno pagato per il viaggio. Quando non c’è speranza di ricevere altro, vengono messi sui barconi; tutte le donne, nel 90% dei casi, arrivano con neonati in braccio o in avanzato stato di gravidanza; nessuno di questi figli del marito, ma della violenza subita in Libia. Ho visto bambine di 13 anni che tengono in braccio i loro bambini …

A Lampedusa non si possono fare teorie, le teorie si formulano davanti alla tv o nei dibattiti politici e mediatici, a Lampedusa si incontrano persone. Questo dovrebbe accadere in ogni altra comunità e parrocchia. Se abbiamo un’occasione in più, abbiamo anche una responsabilità in più di testimoniare quello che alla nostra vita quotidiana aggiunge la presenza dei migranti.

Nel mio essere parroco a Lampedusa sperimento quotidianamente la presenza di Dio come «Emmanuele», un Dio in mezzo, in mezzo a tutto, anche «in mezzo ai piedi». Uno che si presenta nella sua irruenza, e che non solo ti mette in discussione, ma ti impone il suo stile ed è capace di mandarti all’aria qualsiasi evento ben organizzato, fosse pure la messa domenicale. Considerare un migrante esclusivamente soggetto di assistenza è il peggiore dei razzismi, quello dei pii. Quando poi ci si scopre in famiglia ecco che si lasciano scoprire i bisogni e le debolezze. Ciò avviene con tutti, con i migranti, i turisti e la gente di passaggio. Quando i migranti, soccorsi in mare, vengono portati sull’Isola arrivano al molo e qui vengono caricati sugli autobus e portati all’hotspot, vedono la cupola rossa della chiesa parrocchiale e sanno che quella chiesa è come quella che hanno lasciato nel loro Paese, perché lì dentro c’è un prete, come il prete che magari li ha aiutati nei momenti di difficoltà, sanno che lì c’è una comunità, un altare davanti al quale inginocchiarsi, pregare e piangere; materialmente mi sono ritrovato a raccogliere le lacrime di queste persone, e questa è una scena che di solito avviene al primo arrivo, all’indomani dello sbarco, quando tanti − la maggior parte di quelli che arrivano sono cristiani − arrivano davanti all’altare e si lasciano andare in un pianto a dirotto. Anche i musulmani sanno che devono raggiungere la chiesa, per trovare fratelli, casa, sorrisi e accoglienza, sapendo di poter ricevere tutto questo dalla comunità cristiana. Un giorno, per provocare una risposta, chiesi a un ragazzo musulmano il perché anche lui passasse il tempo seduto tra i banchi della chiesa e il perché non avremmo dovuto avere spazio anche per lui e i sui amici. Rispose: «Perché voi siete cristiani!». Aveva capito tutto!

La sfida delle nostre comunità sta proprio nel vivere questo cristianesimo: considerare un migrante esclusivamente oggetto di assistenza (lo ripeto ancora una volta) è il peggiore dei razzismi, è il razzismo delle persone buone, dei pii, quelli del «Loro sono come noi», e in tal modo categorizzano già le persone, quelli che sono buoni perché fanno qualcosa per gli altri.  Quando ci si scopre famiglia, fratelli, sorelle, ecco che lì ci si mette a nudo e lì solo si scoprono i veri bisogni delle persone. La mia esperienza di parroco mi ha fatto capire quanto sia disarmante l’accoglienza a Lampedusa, perché io per primo sono stato accolto: accolto dai migranti quando, tenendoli per mano, mi danno un posto nella loro vita e nelle loro storie. Non si riesce ad immaginare quale conforto sia per le persone che arrivano trovare un prete, e nemmeno io lo immaginavo.

(estratto di C. La Magra, “Lo straniero che è in noi”, in 67ª Settimana di Aggiornamento Pastorale del COP, Orientamenti Pastorali 10/2017, EDB, Bologna 2017. Tutti i diritti riservati)