Bellezza e spiritualità nell’unione matrimoniale 

Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese,  co-direttori di «Prospettiva Persona»

Premessa

Forse la reazione non è la stessa per la totalità dei cattolici (specie vertici di Chiese locali e dicasteri della curia), ma certamente innumerevoli famiglie sparse nel mondo hanno ringraziato papa Francesco per aver elevato un canto all’amore sponsale facendo proprio lo sguardo amorevole e misericordioso di Gesù verso le famiglie. Sarà possibile tradurre l’esortazione in azioni pastorali conseguenti? «Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture» (AL 307).

 

1.Antiperfettismo

 

Ci si aspettava un pronunciamento sulle cosiddette situazioni «irregolari», ma il papa ha rifiutato un linguaggio «perfettista»: «Nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare […] Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti» (AL 325). Perciò, meglio evitare le distinzioni tradizionali tra famiglie «regolari» e «irregolari» per meglio avvicinare tutti e condividere la sofferenza delle coppie che vivono storie dolorose e alternano gioie e fatiche, tensioni e riposo, sofferenze e liberazioni, fastidi e piaceri: «Sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL 296).

L’esortazione papale invita a preferire chi è in condizione di disagio evitando di ribadire dottrina e norme, giacché: «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti a una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (AL 304). Vi è la chiara convinzione che senza la carità e la misericordia, la verità è un capestro, il che non significa affatto che l’attenzione ai singoli casi coincida con l’«etica della situazione» («individualismo etico»). Quel che conta è l’approccio amichevole e personale: «L’amore di amicizia − ripete il papa sulle orme di san Tommaso − si chiama “carità” quando si coglie e si apprezza «l’alto valore» che ha l’altro».[1] Si tratta di preferire l’accompagnamento del percorso accidentato di chi ha bisogno di una mano fraterna, di una Chiesa vicina che non scarta nessuno, tanto meno in nome di Dio.

Ciascuna coppia aspira alla pienezza dell’amore partendo dal reale stato di relazione imperfetta in cui si trova: «Contemplare la pienezza che non abbiamo ancora raggiunto ci permette anche di relativizzare il cammino storico che stiamo facendo come famiglie, per smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo […] Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (AL 325).

Si sentiva il bisogno di uno sguardo positivo e gioioso sull’imperfezione, non lamentoso e critico sui mali delle famiglie, per poter sentire la Chiesa vicina alla vita concreta degli uomini e delle donne di oggi!

 

  1. Il capitale fiducia

 

Nel sacrario della coscienza, la fedeltà non è solo un imperativo etico, come si tende a ribadire facendo del legame «una catena che blocca la libera espansione di sé» (tomba dell’amore); corrisponde piuttosto alla esigenza di ricevere e investire in fiducia. La persona che si stima capace di dire «Ti amo», conta di poter mantenere la promessa e contribuire alla felicità dell’altro, fidando che l’altro farà altrettanto. Perciò si offre nell’amore nella sua nudità, al di là dei paludamenti del prestigio sociale. L’uno dice all’altra: «Tu vali molto, più degli errori che puoi commettere. Io ho fiducia in te». Tale fiducia va giornalmente riconfermata anche di fronte ai piccoli-grandi difetti resi odiosi e insopportabili dalla persistenza nel tempo.

Ogni amore duraturo alimenta un capitale sociale, il tesoro dell’investimento reciproco: «Amor ch’a nullo amato amar perdona».[2] La fiducia è la base della convivenza: se tutti ritirassero la fiducia da una banca, da una scuola, da una nazione, queste istituzioni crollerebbero. Così è per il matrimonio: ciascuno investendo il suo capitale, la sua persona su un essere particolare, scommette di essere ricambiato e di poter mantenere la promessa.

Una pastorale della prossimità e della prevenzione incoraggia questa fiducia reciproca senza tuttavia sottovalutare una sana prudenza; non si può essere «stolti» nell’amore e vivere un altruismo a senso unico, che finirebbe col danneggiare se stessi, l’altro e la tenuta del matrimonio. L’equilibrio delle risorse secondo giustizia, persegue un ideale di reciprocità che si purifica e rafforza nel tempo, diffondendo positività a cascata sulla società e sulla Chiesa. Si legge: «Questa stessa fiducia rende possibile una relazione di libertà […]. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti» (AL 115).

Chi accompagna il cammino delle coppie deve aver fatto esperienza di «euritmia»,[3] che implica la sintonia del «noi» e l’obbedienza reciproca, tenendo conto delle tendenze, delle abitudini   acquisite, delle caratteristiche della personalità e della vocazione di ciascuno, rallentando o accelerando i passi per sincronizzarsi sui ritmi dell’altro. Non si tratta di certe forme di obbedienza dei monaci, perché nella coppia non c’è un superiore se entrambi tendono a custodire e alimentare l’amore.

 

  1. L’«estasi» dell’eros

 

L’incipit dell’esortazione è già una esaltazione dell’eros come il Creatore lo ha voluto e iscritto nella differenza sessuale delle sue creature. Tale «sinfonia dell’amore cristiano» non è una sviolinata; la concretezza ne è la cifra, a cominciare dal riferimento al bacio, alla carezza, all’amplesso, che non sono solo soddisfacimento delle pulsioni istintuali, ma costituiscono il dinamismo di un processo che, sostenuto da buone intenzioni, fa il suo percorso verso l’agape, come risulta da san Paolo nell’inno alla Carità (1Cor 13,4-7; cf. AL 90-119).  I  credenti hanno così nella relazione di coppia il  luogo eccellente di verifica della loro fede, a cominciare dalla ricerca di ottimizzare il loro rapporto nella vita quotidiana, nell’intimità, nei piccoli gesti di attenzione reciproca che danno concreta visibilità alla fede nel Cristo evocato nella preghiera e nei riti.

Confessando l’amore, chi ama confida che l’altro ricambierà il suo sentimento: donare, chiedere e provocare il sorriso dell’altro implica la speranza di essere ricambiati ma senza alcuna pretesa. Se ci si sposasse senza sincerarsi della reciprocità dei sentimenti e impegni, si metterebbero le premesse del fallimento, venendo a mancare il senso di equilibrio dello scambio, costitutivo della circolarità dell’amore. D’altra parte, come intuiva Platone, l’amore è «divino» se si nutre di rispetto, consenso, pudore. «Entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore».[4]

Innumerevoli passaggi dell’esortazione trovano conferma negli studi sull’intimità, che sottolineano l’innalzarsi della domanda di qualità nelle relazioni di coppia e l’insofferenza per le strumentalizzazioni, le mancanze di rispetto le trascuratezze.[5] La scommessa di una felicità condivisa tuttavia rimane una «cambiale in bianco». Nessuna garanzia sui mutamenti che interverranno, ma impegno a mantenere vive quelle sfumature della tenerezza che divengono la molla dell’amore donativo. Su di esse s’innesta infatti la spiritualità quasi inavvertitamente,  senza cozzare con la sensibilità e l’affettività.

L’esortazione del papa è apparsa una virata di bordo rispetto alle diffidenze tradizionali sulla sessualità e sul matrimonio visti come remedium concupiscientiae. Egli stesso si è spinto in una realistica autocritica: «[…] dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane, e il modo di trattare le persone, hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica […] Spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco, sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito […] Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella Grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario» (AL 36).

L’insolito intreccio tra eros e agape risaltava già nella Deus caritas est di Benedetto XVI: « […] l’eros vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni» (n. 5). «Nel dibattito filosofico e teologico […] − continua il papa emerito − tipicamente cristiano, sarebbe l’amore discendente, oblativo, l’agape appunto; la cultura non cristiana, invece, soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall’amore ascendente, bramoso e possessivo, cioè dall’eros […] In realtà eros e agape […] non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro […] Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente − fascinazione per la grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà “esserci per” l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere» (DC 7).

Forte è l’accento che papa Francesco pone sulla gioia dell’incontro con l’altro: «È l’incontro con un volto, un “tu” che riflette l’amore divino ed è “il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio” (Sir 36,26), come dice un saggio biblico. O anche, come esclamerà la sposa del Cantico dei Cantici, “Il mio amato è mio e io sono sua” […]. Da questo incontro che guarisce la solitudine sorgono la generazione e la famiglia» (AL 12-13). Proprio al fine di sostenere la bellezza della vita a due, papa Francesco declina l’arte di amare: «Nel matrimonio è bene avere cura della gioia dell’amore. Quando la ricerca del piacere è ossessiva, rinchiude in un solo ambito e non permette di trovare altri tipi di soddisfazione. La gioia, invece, allarga la capacità di godere e permette di trovare gusto in realtà varie, anche nelle fasi della vita in cui il piacere si spegne. Per questo san Tommaso diceva che si usa la parola “gioia” per riferirsi alla dilatazione dell’ampiezza del cuore».[6]

 

5.Lo sguardo di contemplazione

 

L’approccio positivo alla sessualità − niente affatto ingenuo −  mette «sul candelabro» l’unione intima di due persone, attrattiva e generativa di vita buona, in controtendenza rispetto ai modelli sociali dominanti: «La bellezza – “l’alto valore” dell’altro che non coincide con le sue attrattive fisiche o psicologiche – ci permette di gustare la sacralità della sua persona senza l’imperiosa necessità di possederla. Nella società dei consumi si impoverisce il senso estetico, e così si spegne la gioia. Tutto esiste per essere comprato, posseduto e consumato; anche le persone. La tenerezza, invece, è una manifestazione di questo amore che si libera dal desiderio egoistico di possesso egoistico. Ci porta a vibrare davanti a una persona con un immenso rispetto e con un certo timore di farle danno o di toglierle la sua libertà» (AL 127).

Tenendo conto delle aumentate aspettative di vita − i coniugi d’oggi restano insieme per cinque o sei decenni − si comprende che la bellezza dell’amore richiede di «scegliersi a più riprese» (AL 163), calibrando e rinnovando i registri dell’amore: «Non possiamo prometterci di avere gli stessi sentimenti per tutta la vita. Ma possiamo certamente avere un progetto comune stabile, impegnarci ad amarci e a vivere uniti finché la morte non ci separi, e vivere sempre una ricca intimità» (AL 163).[7]

Ciò vale soprattutto quando l’altro viene sfigurato dalla vecchiaia e dalla malattia: «L’esperienza estetica dell’amore si esprime in quello sguardo che contempla l’altro come un fine in sé stesso, quand’anche sia malato, vecchio o privo di attrattive sensibili. Lo sguardo che apprezza ha un’importanza enorme e lesinarlo produce di solito un danno. Quante cose fanno a volte i coniugi e i figli per essere considerati e tenuti in conto! Molte ferite e crisi hanno la loro origine nel momento in cui smettiamo di contemplarci […] L’amore apre gli occhi e permette di vedere, al di là di tutto, quanto vale un essere umano» (AL 128).

Unità e rispetto delle differenze camminano di pari passo, se l’amore continua a contemplare la bellezza e sacralità dell’amato anche quando è diventato «fisicamente sgradevole, aggressivo o fastidioso», abbracciando i limiti propri e altrui: «Ognuno, con cura, dipinge e scrive nella vita dell’altro» (AL 322).

 

  1. La spiritualità nell’unità

 

Nell’esortazione si legge che «la famiglia non è qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina» (AL 11). Perciò: «coloro che hanno desideri spirituali profondi non devono sentire che la famiglia li allontana dalla crescita nella vita dello Spirito, ma che è un percorso che il Signore utilizza per portarli ai vertici dell’unione mistica» (AL 316). Amare è anche esercitarsi nella spiritualità che invita a «contemplare ogni persona cara con gli occhi di Dio, e riconoscere Cristo in lei» (AL 323). Ciò richiede di unire la fede alla sollecitudine calibrata sul «tu», imparando a interpretare le sue domande latenti, i segni di fragilità, il bisogno d’amore, le intuizioni, i silenzi, sapendo, in situazioni particolari, sospendere persino certe buone pratiche religiose, pur di rendere felice l’altro e mantenere l’unità con chi agli occhi della fede è «vicario» del Cristo stesso. Ciò consente di essere felici facendo felice l’altro: le gioie più intense della vita, quasi un anticipo del Cielo, nascono proprio quando si procura felicità degli altri. Ogni attimo ne viene illuminato, superando la contrapposizione tra sacro e profano, tra evento solenne e feriale, giacché niente appare secondario agli occhi dell’amore e della fede: «I momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua risurrezione» (AL 317).

Papa Francesco ricorda il film Il pranzo di Babette, in cui la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: «Come delizierai gli angeli!». «Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda se stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui» (AL 129). Quando gli sposi credenti si promettono fedeltà, confidano che Gesù stesso prenderà in mano le sorti del loro matrimonio e purificherà l’amore dall’egoismo, dalla routine, dai sentimenti di odio e di vendetta, derive sempre possibili dell’amore, a rischio di trasformarsi nel suo opposto. Dal Cristo si aspettano l’impossibile e quel di più di gioia promessa agli amici: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Perciò, nonostante le cadute, le fragilità, l’incapacità di corrispondere a un ideale alto di coniugalità, gli sposi che si mettono a servizio della felicità dell’altro, che lo sappiano o meno, servono Cristo stesso, lasciando trasparire quel «mistero grande» di cui parla san Paolo, destinato a imitare quaggiù la vita trinitaria di lassù.

L’altezza della posta in gioco non sottovaluta i passaggi dolorosi, fecondi di nuovi e più profondi orizzonti: gli sposi «possono maggiormente apprezzare quello che hanno. Poche gioie umane sono tanto profonde e festose come quando due persone che si amano hanno conquistato insieme qualcosa che è loro costato un grande sforzo condiviso» (AL 130).

 

L’avventura coniugale si presenta così come un viaggio avventuroso ed esigente perché «richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare. C’è una chiamata costante che proviene dalla comunione piena della Trinità, dall’unione stupenda tra Cristo e la sua Chiesa, da quella bella comunità che è la famiglia di Nazareth e dalla fraternità senza macchia che esiste tra i santi del cielo» (AL 352).

(articolo tratto dal dossier “Accompagnare, discernere, integrare. Nel postmoderno secondo l’Amoris laetitia”, in Orientamenti Pastorali 1-2/2017, EDB, Bologna 2017. Tutti i diritti riservati)

 

[1] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 26, a. 3.

[2] Dante, Divina Commedia, Canto V, verso 103, Inferno.

[3] Per Maria Beltrame «Euritmia» è l’unità degli sposi (M. Beltrame Quattrocchi, Radiografia di un matrimonio. Titolo originale L’ordito e la trama, Ed. Fonte nel Deserto, S. Agata, Napoli 1998, 23. Cf. anche Un’aureola per due, Effatà, Cantalupa 2004).

[4] Papa Francesco, «Catechesi» (13 maggio 2015), in L’Osservatore Romano, 14 maggio 2015, 8.

[5] Ci piace ricordare i movimenti di spiritualità coniugale sorti  negli ultimi 70 anni, come le Equipes Notre Dame  (Parigi, 1938). In Italia, nel 1948, si formarono a Milano i primi Gruppi di spiritualità familiare, nati nell’ambiente dei Laureati di ACI. Dopo il concilio, si sono moltiplicati anche all’interno di movimenti più ampi: Incontro matrimoniale, Oasi di Cana, Movimento famiglie nuove, Famiglie dell’AC, del RNS, dei Catecumenali, Amarlui (Associazione Maria e luigi Beltrame Quattrocchi), e in particolare l’accademia INTAMS, con sede a Bruxelles, che sollecita gli studi sulla spiritualità coniugale.

[6] Cf. Summa Theologiae I-II, q. 31, a. 3, ad 3.

[7] Da non sottovalutare l’importanza della raccomandazione circa la formazione dei sacerdoti: «Ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie» (AL 202). A tal fine si raccomanda di coinvolgere le famiglie (cf. AL 203) aggiungendo che «può essere utile» l’apporto delle donne (AL 202).