Mary Melone – professore di teologia trinitaria presso la Pontificia Università Antonianum di Roma e rettore magnifico della stessa università.

Chi intende riflettere sul rapporto tra i religiosi e l’idea della sinodalità, deve a mio giudizio fare i conti anzitutto con un dato che può apparentemente sembrare paradossale: sinodalità non è infatti un termine usato nella vita consacrata, e nemmeno la grande attenzione che ha suscitato intorno a sé negli ultimi tempi lo ha reso particolarmente «di moda» tra i religiosi. Anzi, si potrebbe dire che forse il termine sinodalità è uno dei pochi per i quali il concilio Vaticano II non ha segnato un sensibile cambiamento nella vita consacrata: non se ne parlava prima del concilio, non se ne parla molto neppure dopo. Volendo fare una rapida indagine a conferma di queste affermazioni, si può constatare ad esempio che i termini sinodalità o collegialità sono pressoché assenti nei testi che il magistero ha dedicato alla vita consacrata: non compaiono nel decreto conciliare Perfectae caritatis, del 1965, ma neppure nell’esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata del 1996, né nel documento che la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica avevano elaborato qualche anno prima, nel 1994, sulla dimensione comunitaria e comunionale della vita consacrata, cioè La vita fraterna in comunità, e nemmeno nella successiva istruzione Ripartire da Cristo, del 2002.

Come giustificare questa «assenza»? Il motivo per cui non si utilizza il termine ha forse a che fare con la natura stessa della vita consacrata? Oppure si tratta solo dell’assenza di una parola, ma il contenuto che essa veicola è comunque presente in questo particolare stato di vita? Per rispondere a questi interrogativi può forse risultare utile una breve riflessione articolata in tre punti: dopo aver verificato in un primo momento l’effettiva estraneità del significato di sinodalità alla tradizione della vita consacrata, si passa a considerare da vicino le forme di sinodalità che caratterizzano le strutture dei religiosi, per concludere infine, in un terzo momento, sottolineando le indicazioni operative che l’esperienza concreta della vita consacrata può mettere a disposizione del cammino della Chiesa intera.

  1. La sinodalità nella tradizione della vita consacrata

L’orizzonte della sinodalità, rilanciato da papa Francesco con particolare vigore fin dall’inizio del suo pontificato, mette al centro della visione della Chiesa l’idea di un popolo, anzi, del popolo di Dio che cammina insieme, che è chiamato cioè a percorrere insieme (syn) la propria via (odos) nella storia.[1] Del resto, fu proprio l’esigenza di una Chiesa sinodale, apparsa come il frutto maturo del concilio Vaticano II e la sua preziosa eredità, a portare Paolo VI a istituire nel 1965, al termine dell’assise conciliare, il sinodo dei vescovi, per una gestione collegiale della responsabilità pastorale. Nel riallacciarsi costantemente a questa visione e a questa esigenza, Francesco ha più volte sottolineato i caratteri distintivi di una Chiesa sinodale: in particolare, nel discorso commemorativo per i 50 anni dell’istituzione del sinodo dei vescovi, ha messo a fuoco tre condizioni, prospettandole come necessarie per assicurare alla Chiesa una dimensione di autentica sinodalità.[2] Si tratta, anzitutto, della capacità di ascolto reciproco, di un ascolto cioè attento e libero verso tutti i membri della Chiesa; poi, della consapevolezza lucida che l’autorità nella Chiesa può declinarsi solo come servizio, poiché «per i discepoli di Gesù l’unico potere è quello della croce»;[3] infine, dell’impegno a essere manifestazione del dinamismo della comunione, che esige effettiva collaborazione, condivisione e corresponsabilità. Anche il card. Bagnasco ha evocato queste condizioni, affermando che il frutto più bello del Convegno di Firenze è stata proprio la sinodalità, perché il convegno ha consentito di fare l’esperienza di una Chiesa che «cammina insieme», condividendo idee, difficoltà e progetti.[4]

Il rimando a questi aspetti, di per sé molto noti, può apparire forse superfluo, ma in realtà diventa essenziale nella misura in cui fa emergere le dimensioni costitutive del concetto di sinodalità. È solo a partire da queste dimensioni, infatti, che si può comprendere come possa configurarsi il rapporto tra religiosi e sinodalità. Ciò che si deve cercare nella vita consacrata e nella sua storia non è, in altri termini, esclusivamente l’utilizzo della terminologia sinodale, per quanto importante sia, ma la presenza di quell’orizzonte di senso di cui la terminologia sinodale si fa portatrice, un orizzonte che chiama in causa, come si è visto, l’idea di un camminare insieme, reso possibile dall’ascolto, dal servizio reciproco, dalla condivisione che crea comunione. Con questo presupposto, allora, la vita consacrata si presenta come strutturalmente sinodale fin dalle sue origini.

Una prima indicazione la si può ricavare dai testi normativi e legislativi che, lungo la storia, hanno dato via via forma alla scelta di consacrazione di tanti uomini e donne. Da questi testi emerge con sufficiente chiarezza come, a fronte di cambiamenti continui e rilevanti nel concepire e vivere la forma della consacrazione – si pensi ad esempio al rapporto con il «mondo», da cui per secoli ai religiosi è stato chiesto di «fuggire» per poi riscoprire sempre più lucidamente la necessità di andargli incontro, di «uscire per evangelizzare il mondo» –, a fronte di questi cambiamenti, dunque, ciò che sembra rimanere alquanto inalterata è proprio la presenza di una «struttura sinodale» della vita consacrata.

Ma cosa si intende concretamente per «struttura sinodale»? La forma comunitaria della vita consacrata ha sempre concepito se stessa come costruita su due polarità essenziali: l’obbedienza all’autorità di un superiore, considerato interprete della volontà di Dio, e l’appartenenza a una comunità di fratelli o sorelle, con cui si condivide l’impegno a vivere la volontà di Dio. Ora, sebbene tra queste due polarità ci siano stati storicamente contrasti e persino fratture, in realtà esse sono sempre state riconosciute come interdipendenti, nel senso che la comunità è pensata non solo come destinataria delle decisioni del superiore, ma anche come chiamata a partecipare in modo essenziale al percorso di discernimento e comprensione della volontà di Dio. Ciò ha portato molti fondatori a esplicitare nelle loro Regole alcune attenzioni che sembrano richiamare le condizioni che papa Francesco indica come costitutive della sinodalità, ovvero: l’ascolto attento e libero verso tutti, l’autorità concepita come servizio, la dimensione comunionale. Qualche esempio può giovare a una migliore comprensione. Il capitolo III della Regola di Benedetto da Norcia, dal significativo titolo «La consultazione della comunità», stabilisce che «Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto. Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno. Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore. I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute; comunque la decisione spetta all’abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è più conveniente, tutti dovranno obbedirgli». È evidente che l’invito all’ascolto attento e libero della comunità, prima condizione per un’effettiva sinodalità, appare qui come un momento imprescindibile del delicato processo decisionale che l’abate è chiamato a compiere insieme alla comunità monastica.

Un altro esempio lo si può ricavare dalla Regola di Francesco d’Assisi, che esprime una visione molto diversa rispetto a quella benedettina, in cui la vita del monastero è strutturata a partire dalla figura dell’abate. Per Francesco, infatti, le comunità devono essere fraternità, cioè comunità formate da fratelli, frati minori appunto, tra i quali viene scelto un servo, un ministro nel linguaggio della Regola, a cui affidare il servizio dell’autorità: «E nessuno sia chiamato priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l’uno lavi i piedi all’altro».[5]

A questa visione fortemente comunionale delle fraternità francescane corrisponde una doppia struttura sinodale definita dalla Regola: in un primo livello, Francesco esorta i ministri a riunirsi con i frati loro affidati nelle singole fraternità, almeno una volta l’anno; nel secondo livello, egli stabilisce come dovere per tutti i ministri di incontrarsi tra loro e con il ministro generale nel capitolo di Pentecoste, annualmente o ogni tre anni, per i ministri più lontani. È evidente che si tratta di garantire, attraverso una riunione generale di tutti i ministri, un momento sinodale necessario al governo dell’Ordine. «Ciascun ministro possa riunirsi con i suoi frati, ogni anno, ovunque piaccia a loro, nella festa di san Michele arcangelo, per trattare delle cose che riguardano Dio. Ma tutti i ministri, quelli che sono nelle regioni d’oltremare e oltralpe una volta ogni tre anni, e gli altri una volta all’anno, vengano al capitolo generale nella festa di Pentecoste, presso la chiesa di Santa Maria della Porziuncola a meno che dal ministro e servo di tutta la fraternità non sia stato ordinato diversamente».[6] Francesco d’Assisi vede nella periodica riunione collegiale di tutti coloro che hanno la responsabilità di guidare le fraternità la possibilità concreta di compiere le scelte necessarie alla vita dell’Ordine. In tal modo, nell’incontro e nel confronto reciproco, i ministri sono richiamati a considerare la loro autorità come servizio di carità verso tutti i fratelli.

Riguardo, infine, alla terza dimensione segnalata da papa Francesco, quella cioè comunionale, si potrebbe dire che essa è ricorrente soprattutto nei testi normativi e legislativi post-conciliari; questi testi, tuttavia, non sono slegati dalla tradizione precedente, perché nascono proprio dall’invito del concilio Vaticano II a tornare alle sorgenti della propria storia e della propria spiritualità. Un esempio significativo lo si può ritrovare nella Regola di Bose che, radicandosi nel secolare vissuto monastico del cristianesimo, esplicita con chiarezza l’esigenza e i termini della comunionalità tra i fratelli: «Accanto all’autorità del priore, la Regola di Bose ha previsto fin dall’inizio strumenti e strutture volti a favorire un cammino sinodale della comunità. Se con il mutare delle situazioni, in particolare con la crescita numerica e spirituale della comunità, sono cambiati anche gli strumenti atti a esercitare una corresponsabilità nell’orientamento e nella compaginazione della vita comunitaria, è tuttavia convinzione costante dei fratelli e delle sorelle di Bose che soltanto con il concorso di tutti e di ciascuno sia possibile una risposta piena e matura alle esigenze che l’Evangelo propone giorno dopo giorno alla comunità».

  1. La sinodalità come struttura costitutiva della vita delle religiose e dei religiosi

La rapida considerazione di alcune tra le Regole che hanno segnato in profondità la storia della vita consacrata, per quanto fortemente lacunosa, ha richiamato l’attenzione sul nesso sostanziale a cui va portato il discorso sulla sinodalità, vale a dire sul rapporto tra autorità e comunità. Si tratta di un rapporto fondamentale ma complesso, che può essere compreso solo alla luce di una chiara motivazione teologica, mentre appare spesso esposto a interpretazioni di carattere sociologico. Nel già citato documento «La vita fraterna in comunità», ad esempio, attraverso un’analisi sintetica ma puntuale sui cambiamenti indotti nella vita consacrata dal rinnovamento post-conciliare, si sottolinea come questi cambiamenti abbiano riguardato da vicino il modo di concepire l’autorità. Infatti, a fronte della graduale deriva verso forme di autoritarismo a cui si era arrivati nei secoli in alcune comunità religiose, tenute insieme più dal rigido dovere dell’osservanza che dalla consapevolezza di un progetto comune da vivere e realizzare insieme, negli anni del post-concilio si è riaffermata gradualmente la necessità di una interpretazione diversa del ruolo dell’autorità, considerata sempre più a servizio dell’edificazione della comunità e della realizzazione della missione che a questa comunità è stata affidata. Ci si aspetterebbe dunque, da parte del documento, un ridimensionamento per così dire «democratico» del ruolo dell’autorità, a favore dell’autonomia e della responsabilità dei singoli membri della comunità. In realtà, il documento non opera alcun ridimensionamento «democratico» perché, pur ridisegnando il profilo dell’autorità con un’accentuazione del suo carattere spirituale e del suo compito di garante dell’unità, non esita ad affermare che solo a essa spetta il dovere di prendere la decisione finale e di assicurarne l’attuazione (VFC, 50c).

Con l’Istruzione «Il servizio dell’autorità e l’obbedienza» del 2008, la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica hanno poi ripreso e sottolineato maggiormente le motivazioni teologiche di questa posizione, riconducendole al fondamento cristologico che lega tra loro l’autorità e l’obbedienza: «I superiori e le superiore, in unione con le persone loro affidate, sono chiamati a edificare in Cristo una comunità fraterna, nella quale si ricerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa, per realizzare il suo progetto redentivo. L’autorità è, dunque, al servizio della comunità, come il Signore Gesù che lavò i piedi ai suoi discepoli, perché, a sua volta, la comunità sia a servizio del Regno (cf. Gv 13,1-17). Esercitare l’autorità in mezzo ai fratelli significa servirli sull’esempio di colui che «ha dato la sua vita in riscatto per molti” (Mc 10,45), perché anch’essi diano la vita».[7] 

Queste sottolineature, che sembrano esaltare in modo quasi univoco il ruolo dell’autorità, in realtà non vanno fraintese. L’insistenza sulla decisione affidata al superiore, infatti, appare come la conclusione di un processo decisionale che coinvolge l’intera comunità. In altre parole, se si ricorda continuamente che è il superiore a dover prendere la decisione finale, è perché si suppone che prima tutti i membri della comunità abbiano partecipato attivamente al discernimento e alla discussione sulle scelte da compiere. Questo rapporto tra l’autorità e la comunità risalta ancora di più se si tiene presente che l’autorità suprema, nella vita consacrata, non è individuale ma sinodale: «Non va infine dimenticato che la tradizione della vita consacrata vede comunemente nella figura “sinodale” del capitolo generale (o di riunioni analoghe) la suprema autorità dell’istituto, alla quale tutti i membri, a cominciare dai superiori, devono fare riferimento».[8] L’individuazione dell’autorità suprema nel capitolo generale, ovviamente supportata dal codice di diritto canonico,[9] getta una luce del tutto nuova sul rapporto religiosi-sinodalità, in quanto fa apparire quest’ultima come costitutiva del vissuto quotidiano dei consacrati. I capitoli generali, infatti, non hanno esclusivamente come finalità quella di eleggere le superiore o i superiori generali, ma, proprio in quanto suprema autorità di un istituto, hanno soprattutto il compito di discernere le scelte necessarie alla vita dell’istituto stesso, in rapporto al suo progetto carismatico. È quanto sintetizza ad esempio l’esortazione Vita consacrata: «In questa prospettiva, particolare importanza rivestono i “capitoli” (o riunioni analoghe), sia particolari che generali, nelle quali ogni istituto è chiamato ad eleggere i superiori o le superiore secondo le norme stabilite dalle proprie costituzioni, e a discernere, alla luce dello Spirito, le modalità adeguate per custodire e rendere attuale, nelle diverse situazioni storiche e culturali, il proprio carisma e il proprio patrimonio spirituale» (VC, 42). Il riferimento alle riunioni analoghe o capitoli particolari, che appare in questo testo magisteriale, è particolarmente importante, in quanto fa comprendere che l’esercizio della sinodalità non risiede solo nei capitoli generali, celebrati normalmente alla scadenza di un sessennio, e dunque dopo un arco di tempo comunque significativo; vi sono infatti altre riunioni in cui tale esercizio è possibile ordinariamente, riunioni cioè che avvengono nelle singole comunità e che solitamente prendono il nome di capitoli locali. Si tratta di strutture comunitarie di grande importanza per il vissuto quotidiano dei religiosi che danno ragione dell’affermazione secondo cui la sinodalità è costitutiva della vita consacrata, perché sono i luoghi in cui vengono affidate al discernimento e alla verifica di tutti i membri della comunità le decisioni che riguardano lo stile di vita della comunità stessa, le scelte operative per la concretizzazione della sua missione, l’andamento comunionale della vita fraterna, il ritmo della preghiera e della liturgia.

  1. Alcune dimensioni operative della sinodalità nella vita consacrata

La presenza di strumenti a disposizione dei religiosi per una conduzione sinodale della loro vita, come sono appunto i capitoli locali e quelli generali, potrebbe rivelarsi una scatola vuota se non fossero assicurate le condizioni necessarie per il loro funzionamento. Tali condizioni sono essenzialmente la partecipazione e la corresponsabilità. Il valore della celebrazione di un capitolo risiede, in altri termini, nella sua capacità di coinvolgere tutti i membri della comunità nel processo decisionale, la cui conclusione, come si è già detto, spetta al superiore, il quale tuttavia non può esercitare la sua autorità se non in comunione con l’intera comunità. Ciò comporta, concretamente, una serie di attenzioni operative che sono importanti, anzi fondamentali non tanto perché permettono la riuscita dei capitoli, ma soprattutto perché garantiscono l’acquisizione da parte delle comunità di un vero e proprio stile sinodaleIn primo luogo, tra queste attenzioni operative rientra l’identificazione dell’oggetto da sottoporre all’attenzione dei capitoli: non tutto ciò che ha a che fare con la comunità, infatti, richiede il discernimento comunitario, ma solo ciò che è essenziale per la sua vita, cioè da cui dipende, in altri termini, il tempo e la qualità della preghiera e della vita liturgica della comunità; la qualità e la verità delle relazioni fraterne; il servizio ai fratelli che i membri della comunità sono chiamati a compiere, il senso ecclesiale e carismatico della vita e della presenza della comunità in un determinato territorio.

In secondo luogo, la partecipazione dei membri della comunità al processo di discernimento e la possibilità da parte loro di un autentico esercizio di corresponsabilità dipende dalla conoscenza che essi hanno delle questioni da trattare, il che significa, concretamente, che il superiore è tenuto a dare tutte le informazioni necessarie per consentire la riflessione e le proposte da parte dei confratelli.

In terzo luogo, viene richiesta al superiore la capacità, che ovviamente non si improvvisa nei capitoli, di creare tra i membri della comunità un clima di libertà, che renda possibile e fecondo il dialogo e l’ascolto reciproco, che sappia tener lontana ogni forma di giudizio o pregiudizio per non impedire a nessuno di esprimere la propria visione; un clima che, in definitiva, incoraggi a vivere forme di vera condivisione, di apertura e di accoglienza verso la diversità dell’altro.

Queste indicazioni sarebbero però parziali se facessero ricadere tutta la responsabilità dello stile sinodale solo dalla parte del superiore. In realtà, per quanto spetti a lui assicurare le condizioni suddette, l’esercizio della corresponsabilità richiede allo stesso tempo che tutti i membri si formino a essa. E tale formazione si pone su due livelli: se, infatti, la preparazione prossima alla celebrazione dei capitoli richiede che ciascun membro si informi e sia consapevole di ciò su cui gli verrà richiesto un parere, la preparazione remota impegna ancora più profondamente il singolo consacrato, perché lo chiama ad assumere responsabilmente la prospettiva dell’edificazione della comunità, liberando il suo cuore da tutto ciò che può contenere desiderio di imporre la propria opinione, rivalse, timore o paura verso tutto ciò che appare come novità. In definitiva, la prassi della vita consacrata dimostra concretamente che la sinodalità non può essere solo questione di strategie, che pure sono importanti nella misura in cui riescono a garantire la partecipazione di tutti alla vita di un organismo; ciò che è altrettanto necessario è un serio processo di formazione, attraverso cui vengono acquisite personalmente, e in maniera convinta, le condizioni che rendono possibile la condivisione, e tra queste anzitutto la libertà del cuore e l’accettazione della diversità.

  1. Conclusione

In questo contributo abbiamo avanzato provocatoriamente la tesi secondo la quale alla quasi totale mancanza di un linguaggio sinodale nei testi magisteriali e legislativi riguardanti la vita consacrata, si contrappone la presenza della sinodalità come sua dimensione strutturale. A dimostrarlo è soprattutto il presente della vita consacrata che, recuperando con consapevolezza e lucidità l’eredità della propria tradizione secolare, nel periodo post-conciliare si è dotata di luoghi comunitari, come i capitoli generali o locali, in cui il coinvolgimento di tutti i membri nei processi decisionali riguardanti la vita della comunità è una realtà possibile e feconda. La forma sinodale appare in definitiva ciò che dovrebbe caratterizzare le comunità religiose: lì dove la sinodalità è divenuta realmente uno stile di vita, infatti, la comunità diventa il luogo dove l’incontro tra fratelli e sorelle è possibile, dove la comunione si costruisce quotidianamente e il camminare insieme diventa l’esperienza identitaria che i consacrati mettono a disposizione della Chiesa intera.

(Tratto da Orientamenti Pastorali 3/2016. Tutti i diritti riservati)

[1] Francesco, Discorso per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, 17 ottobre 2015: «Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola “sinodo”. Camminare insieme − laici, pastori, vescovo di Roma − è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica».

[2] Cf. Francesco, Discorso per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi.

[3] Idem.

[4] Cf. A. Bagnasco, Le prospettive finali del 5° Convegno ecclesiale nazionale, Firenze, 13 novembre 2015.

[5] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, cap.VI, 3-4.

[6] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, cap. XVIII.

[7] Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica (CIVCSVA), Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, 2008, n. 17.

[8] CIVCSVA, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, n. 3.

[9] Codice di diritto canonico, canone 631.