Salvatore Ferdinandi – Vicario generale della diocesi di Terni – Narni – Amelia

«Nel mondo attuale, i sentimenti di appartenenza ad una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia d’altri tempi. Vediamo come domina un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di una profonda disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione: credere che possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca. Questo disinganno, che lascia indietro i grandi valori fraterni, conduce ad una sorta di cinismo. […]  L’isolamento e la chiusura in se stessi o nei propri interessi, non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza e la cultura dell’incontro»[1]

In questo contesto, l’Avvento ci porta a recuperare il valore della vicinanza e la cultura dell’incontro che salva, invitandoci a compiere un cammino che trasforma il cuore. Il papa, nell’udienza generale del 25 novembre, ha voluto ricordare l’importanza dell’Avvento che annuncia e celebra la speranza, perché nel mistero dell’incarnazione, il Padre rivela il suo volto compassionevole, il suo amore fedele alla promessa e nel Figlio si fa vicino all’umanità ferita, stanca e sofferente, nella più totale condivisione.

«In questi tempi difficili per molti, – ha detto Francesco – sforziamoci di riscoprire la grande speranza e la gioia che ci dona la venuta del Figlio di Dio nel mondo», cogliendo nell’Avvento l’inedito di Dio che, attraverso suo Figlio entra nella nostra storia e ci invita a recuperare la cultura dell’incontro e della condivisione.

Pertanto, in questo tempo occorre partire dalla centralità della Parola e dell’eucaristia domenicale, per far crescere il senso della relazione e dell’incontro, che si esprime nella testimonianza comunitaria della carità nella Chiesa e nel territorio, considerando che «Il programma del cristiano – il programma del buon samaritano, il programma di Gesù – è “un cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente».[2]

A questo riguardo, nel contesto attuale, è particolarmente opportuno rivisitare la parabola del “Buon samaritano” che presenta Gesù stesso come buon samaritano, che inaugura un’era nuova nella storia e, nello stesso tempo, traccia un itinerario di formazione alla prossimità, ad una relazione accogliente, per ogni cristiano.

«Scendeva da Gerusalemme a Gerico» (Lc 10,30ss).  Due i luoghi che ci riguardano:

  • Gerusalemme, luogo del tempio, luogo dell’incontro con Dio, dove facciamo esperienza di Dio pane parola, pane eucaristia, pane carità che ci si dona nella totale gratuità.
  • Gerico, luogo del farsi carico, del servire, del prendere posizione, dell’impegno sociale e politico, dell’essere dentro le più diverse situazioni per portare quella gratuità di amore esperimentato nel tempio. Infatti, ogni eucaristia, dopo averci fatto sperimentare l’incontro benevolo con Dio che ci parla e con suo Figlio che si fa cibo e dono per noi, termina con: «andate in pace»; con un invito cioè ad uscire dal tempio per immergersi nel territorio ed attuare la cultura dell’incontro nella trama del vissuto quotidiano, per tessere trame di fraternità.

Il cristiano, e ancor più l’operatore pastorale, nutrito e formato dal pane della parola e dal pane eucaristia condiviso, cioè dall’incontro con Cristo e con la gratuità del suo amore, ha il compito di caratterizzare la propria vita portando l’amore di Cristo nella storia di ogni giorno, attraverso il calore della condivisione e il profumo della carità.

«Passandogli accanto, lo vide e ne sentì compassione» (Lc 10,33)

Dall’esempio di Gesù buon samaritano, il cristiano viene formato ad essere costantemente in ascolto delle voci, delle parole, dei volti, e delle storie del territorio. Viene formato ad un ascolto misericordioso e a tessere relazioni riconcilianti, di accoglienza, di benevolenza, non di giudizio.

«Lo vide e sentì compassione» significa essere formato a sapersi fermare, a rendersi conto e a un sentire amoroso, ad un ascolto con «un cuore che vede dove c’è bisogno di amore»,[3] non solo in superficie, non solo cogliendo i bisogni espressi ma anche quelli nascosti; un vedere oltre le apparenze, anche nelle tenebre, nel peccato, nelle situazioni di sofferenza, di dolore, di disagio, sentendo che l’atro non è un estraneo, ma uno che ci riguarda, ci appartiene, in una relazione di fratellanza.

Il cristiano è chiamato ad esprimere la «compassione di Dio» nei confronti dell’umanità martoriata e frantumata, avendo «cuore», «umanità», «sensibilità», facendosi sentinella nel e del territorio e della comunità.

«Gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò…» (Lc 10,34)

Gesù, con il suo esempio, ci forma alla prossimità, all’esserci, al prenderci cura dei poveri, sapendo intervenire in modo pronto, realistico, semplice, povero, come si è e con quanto si ha a disposizione (olio, aceto, asino, denari, …); un intervenire anche con la consapevolezza dei propri limiti, della pochezza che ha ogni intervento umano in rapporto ai bisogni dei fratelli.

Il cristiano è chiamato concretamente «ad esserci» come colui che è «capace di vedere dove c’è bisogno di amore e di agire in modo conseguente»[4] per offrire l’amore gratuito di Cristo, per prestare cura ai poveri, mettendo «la mente, il cuore, le mani, la vita» a servizio dei fratelli.

«Poi… lo portò ad una locanda…» (Lc 10,34-35)

Gesù ci forma ad un agire che coinvolga la comunità e il territorio. Significa esserci per farci essere altri; agire per coinvolgere altri, operare per far operare, dare spazio e mobilitare le varie risorse del territorio, sia nell’ambito della comunità cristiana che delle istituzioni. Le une e le altre risorse vanno interpellate, stimolate, coinvolte continuamente, per ampliare sempre più gli interventi e trovare le opportune risposte.

Il cristiano viene formato da Gesù buon samaritano, non ad assumere deleghe, ma a  «coinvolgere la comunità» e il territorio nel vivere la testimonianza della carità, perché la comunità nel suo insieme diventi soggetto di carità testimoniata.

«Abbi cura di lui e anche se spenderai di più, pagherò io quando ritornerò» (Lc 10,35)

Gesù ci insegna che attuare la prossimità, comporta anche un continuo verificare e riprogrammare l’azione di prossimità. Il coinvolgimento della comunità, non è in vista di disimpegno per l’operatore pastorale, ma di verifica che le azioni di coinvolgimento conseguano gli opportuni risultati, dentro una progettualità ben articolata e diffusa.

«Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri… Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a se stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà umana… Vivere indifferenti davanti al dolore, non è una scelta possibile; non possiamo lasciare he qualcuno rimanga ai margini della vita. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana».[5] 

Pertanto, il cristiano è formato a riprendere ogni giorno il suo cammino di verifica alla prossimità nella comunità e nel territorio. È cioè chiamato a ripercorre la stessa strada del samaritano, nel pieno coinvolgimento di sé: occhi (vedere), cuore (sentire), mani (intervenire), mente (progettare e verificare). Tutte queste fasi, correlate armonicamente, è necessario che diventino «segno» ed «espressione» di quell’amore che Cristo ci dona con abbondanza e gratuitamente, ogni volta che partecipiamo all’eucaristia, di quella fratellanza che ci lega, perché tutti abbiamo l’unico Padre che è nei cieli.

[1] Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 30.

[2] Cf. Deus caritas est, n. 31b.

[3] Ibid. n. 31.

[4] Cf. Ibid.

[5] Papa Francesco, Fratelli tutti,  nn. 67-68.