Mauro Salvatore, economo della CEI

Nell’etimologia della parola amministrare si esplicita bene che tale funzione è attinente a una funzione ministeriale, cioè di servizio nei confronti di beni propri o altrui, in una logica di rispetto di carattere istituzionale. Ciò è vero per una famiglia (i beni domestici), per un’azienda (il suo patrimonio) o per un ente pubblico (dal Comune allo Stato): lo è a maggior ragione per la Chiesa, che è al tempo stesso la comunione delle comunità cristiane e una istituzione anche agli occhi della comunità civile.

Il Codice di diritto canonico del 1983, ispirato integralmente al concilio Vaticano II e articolato in sette libri, nel libro V tratta dei beni temporali nella Chiesa.

In esso è sottolineato il fatto che il possesso e l’amministrazione di beni abbia un triplice ed esclusivo scopo: ordinare il culto, sostenere i ministri ed esercitare opere di apostolato sacro e di carità. Esulano pertanto da tale esercizio ecclesiale altri fini pienamente leciti in altri contesti, come ad esempio quelli di natura speculativa o di esercizio del potere. È poi ben rimarcato il fatto che, agendo la Chiesa in un contesto di riferimento che ha, a seconda dei Paesi, uno specifico assetto sociale, economico, giuridico e culturale, vengano rispettate tutte le leggi (salvo naturalmente quelle lesive dei principi della Chiesa, quali ad esempio quelle contrarie al rispetto sacro della vita). Potremmo addirittura dire che, proprio perché ad agire nel campo civile è la Chiesa, essa è chiamata in tale campo ad avere una condotta cristallina ed esemplare.

A motivazione ulteriore della necessità di ribadire la natura squisitamente ecclesiale dell’amministrazione dei beni, riprendo quanto esplicitato da mons. Giuseppe Baturi, sottosegretario della Conferenza episcopale italiana, nel suo intervento al XLIII Incontro di studio del Gruppo italiano docenti di Diritto canonico, avente a oggetto «Il governo nel servizio della comunione ecclesiale», il 1° luglio 2016: «Il tema è principalmente di natura teologica ed ecclesiale. La domanda fondamentale non riguarda il come ma il perché dell’attività amministrativa nella Chiesa, la sua legittimazione teologica, biblica, pastorale. In questa direzione, recenti riflessioni hanno collegato l’amministrazione dei beni a quel dono del governo che san Paolo annovera tra i carismi stabiliti da Dio per l’edificazione della sua Chiesa (cf. 1Cor 12,28), anch’esso indispensabile se animato dalla carità».

Non si vogliono qui sottovalutare le difficoltà soprattutto di natura culturale ad assumere pienamente tali indicazioni autorevoli nelle diverse articolazioni della vita della Chiesa, difficoltà derivanti non tanto – ci mancherebbe altro! – da un desiderio di eludere parti della legislazione civile (penso soprattutto a talune imposizioni fiscali), quanto dalla non compiuta assunzione di una mentalità che veda nell’esercizio stesso della vita cristiana e della sua essenziale funzione di annuncio della buona novella, non soltanto il rispetto di ogni norma, ma anche la trasparenza di una corresponsabile gestione dei beni, arrivando a renderne pubblicamente notizia (cioè sia all’interno e sia all’esterno della comunità cristiana).

Una difficoltà dei nostri tempi? Evidentemente no! Alcuni fanno risalire al riconoscimento del cristianesimo da parte dell’Impero romano col famoso editto di Costantino del 313, l’inizio delle tentazioni, soprattutto quelle legate al potere e ai suoi privilegi. In realtà sappiamo bene che nello stesso Nuovo Testamento il Signore ci mette in guardia più volte. Pensiamo solo a «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24).

Giuseppe Dossetti così commentava questo brano: «Un “fioretto” di papa Giovanni XXIII racconta che, una delle prime sere dopo l’elezione a sommo pontefice, egli faceva fatica ad addormentarsi, perché gli venivano in mente le sue grandi responsabilità, di fronte alle necessità della Chiesa; finché, una sera, disse a se stesso: “Angiolino (era il nome col quale lo chiamava la sua mamma), di chi è la Chiesa, tua o dello Spirito Santo? Affidala a lui e dormi tranquillo”. Non solo egli dormì tranquillo, ma gli fu data luce e forza per convocare il concilio ecumenico. L’ansia di chi pensa di essere padrone della propria vita spesso blocca l’azione; chi invece pensa di essere servo di un Padrone buono vive nella libertà e nell’impegno sereno e coraggioso. Possiamo aggiungere una postilla. Questo discorso di Gesù sulla fiducia nella paternità di Dio è introdotto dall’affermazione che non si può servire a due padroni. Cioè: per riconoscere Dio come Padre bisogna essere liberi, non schiavi delle ricchezze. Bisogna proprio stare attenti. Se si diventa schiavi del denaro, si diventa paurosi; se si diventa paurosi, si diventa stupidi».

Insomma, il cristiano, la Chiesa, vivono nel mondo (e pertanto sono chiamati a essere esemplari anche nel «dare a Cesare ciò che è di Cesare»), ma non sono del mondo, restando (ed essendo chiamati a restare!), dunque, liberi dai condizionamenti tipici del mondo.

Questa vera e propria tensione accompagna e permea tutta la storia della Chiesa. Pensiamo ad esempio alla vita e alla Regola di san Francesco d’Assisi, con la sua non scontata approvazione da parte di papa Innocenzo III. O più recentemente ad Antonio Rosmini, che nel 1848 dava alle stampe «Delle cinque piaghe della santa Chiesa», e così scriveva a riguardo della quinta piaga, da lui denominata «Della piaga del piede sinistro: la servitù dei beni ecclesiastici», invitando a ripararsi dal pericolo delle ricchezze: «La Chiesa primitiva era povera, ma libera: la persecuzione non le toglieva la libertà del suo reggimento: né pure lo spoglio violento de’ suoi beni, pregiudicava punto alla sua vera libertà. Ella non aveva vassallaggio, non protezione, meno ancora tutela, o avvocazia: sotto queste infide e traditrici denominazioni s’introdusse la servitù de’ beni ecclesiastici: da quell’ora fu impossibile alla Chiesa, come dicevamo, di mantenere le antiche sue massime intorno all’acquisto, al governo, e all’uso de’ suoi beni materiali; e la dimenticanza di queste massime, che toglievano a tali beni tutto ciò che hanno di lusinghevole e di corruttore, l’addusse all’estremo pericolo: noi dobbiamo accennarne le principali».

Un duro atto di denuncia, dunque, di fronte all’addomesticamento di parte della Chiesa alle lusinghe del potere. L’antidoto richiamato dal Rosmini era tornare a seguire le massime cui faceva riferimento nel testo precedente, e che erano le seguenti, qui elencate utilizzando integralmente il suo linguaggio:

  1. a riguardo dell’acquisto dei beni, che l’oblazione fosse spontanea;
  2. che proteggeva la Chiesa dalla corruzione che da sé arrecar possono i beni terreni, si era che questi si possedessero, si amministrassero e dispensassero in comune;
  3. che il Clero non usasse de’ beni ecclesiastici se non il puro bisognevole al proprio sostentamento, impiegando il di più in opere pie, specialmente in sollievo degl’indigenti;
  4. non solo in usi pii e caritatevoli: di più, acciocché s’allontanasse nella loro dispensazione l’arbitrio e la cupidigia, fossero altresì compartiti ad usi fissi e determinati;
  5. lo spirito di generosità, la facilità in dare, la difficoltà in ricevere;
  6. amare che la dispensazione de’ suoi beni apparisse agli occhi del pubblico.

Come si può rilevare, il linguaggio è datato, ma i contenuti tutt’altro. Mi pare particolarmente sorprendente e provocatoria la sesta massima: amare che la dispensazione dei beni della Chiesa venga resa pubblica! Non è certo per manifestazione di vanagloria o per contrastare il detto di Gesù riportato in Mt, 6,1-2: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa».

Infatti, un conto è rendere pubblica un’azione benefica per lodarsi, trarne vantaggio e acquisire potere, e un altro conto è rendere pubblica tale azione per far sapere come vengono utilizzati dei fondi (propri o affidati che siano) e, in trasparenza, quali sono stati i criteri seguiti, ad esempio, per beneficiare un destinatario (piuttosto che un altro).

Il tema che abbiamo fino a questo momento articolato ci mostra la profondità di una riflessione che accompagna la Chiesa fin dalla sua istituzione.

Cerchiamo ora di declinare le problematiche poste dalla prassi e come a queste problematiche si stia cercando di rispondere, restringendo il campo alla Chiesa che è in Italia.

Normativamente al vescovo di una diocesi spetta (anche) la funzione di governo, nella più ampia e inclusiva accezione del termine. Per tale compito si avvale dei contributi che vengono espressi dal Consiglio presbiterale e dal Consiglio pastorale e, soprattutto, dei pareri e dei consensi del Collegio dei consultori e del Consiglio per gli affari economici. Delega poi alcune attività al vicario generale ed eventualmente anche ad altri vicari episcopali e delegati vescovili, avvalendosi poi del cancelliere, dell’economo e di una curia più o meno estesa nelle sue articolazioni. Una struttura dunque complessa, che fotografa l’ampiezza delle funzioni di governo, ma fotografa anche la figura del vescovo che il concilio Vaticano II ha voluto delineare. Come ha ricordato papa Francesco ricevendo il 14 settembre 2017 i 114 nuovi vescovi ordinati nell’anno: «Il vescovo non è il “padre padrone” autosufficiente, e nemmeno l’impaurito e isolato “pastore solitario”. Il discernimento del vescovo è sempre un’azione comunitaria che non prescinde dalla ricchezza del parere dei suoi presbiteri e diaconi, del popolo di Dio e di tutti coloro che possono offrirgli un contributo utile».

Tenuto ben presente che la Chiesa non è un’azienda, siamo comunque nell’ambito di un’organizzazione che, per quanto riguarda l’amministrazione dei beni, deve contemperare il precipuo e preciso ruolo del vertice ecclesiastico (il vescovo, il parroco), con la piena osservanza della legislazione civile. La Chiesa ha scelto, per perseguire nella continuità, questo obiettivo, lo stile della corresponsabilità e il metodo della partecipazione, che le sono entrambi – stile e metodo – connaturali. In quanto comunità di battezzati, la Chiesa coinvolge tutti i suoi componenti, chierici e laici, per perseguire, anche attraverso la gestione dei beni, i fini richiamati all’inizio di questo articolo.

È dunque in atto una rivitalizzazione dei Consigli affari economici a tutti i livelli, diocesani e parrocchiali, dove i laici esperti nei vari settori possano esercitare tutta la loro competenza professionale come vero e proprio mandato ecclesiale, a beneficio della comunità di riferimento, lasciando evidentemente al vescovo e al parroco la responsabilità ultima della decisione, che è stata frutto di un processo condiviso.

La piena funzionalità dei Consigli affari economici, il ricorso a un pool di esperti (e non a un solo plenipotenziario!) e la valorizzazione di tutte le ministerialità nella Chiesa, ordinate o istituite, sono dunque un’indicazione strategica per perseguire una buona amministrazione dei beni.

Nella situazione attuale, vi sono alcuni accorgimenti da tenere presenti:[1]

  1. educare alla sobrietà e all’essenzialità;
  2. avere lo sguardo verso il futuro;
  3. ripensare l’utilizzo delle strutture sorte in altri contesti, senza escludere la possibilità dell’alienazione, impiegando il ricavato per finalità e attività ecclesiali;
  4. educare alla conservazione e alla valorizzazione dei beni artistici presenti nelle nostre chiese;
  5. in molteplici occasioni e a più riprese, inoltre, la Conferenza episcopale italiana ha indicato nell’obiettivo della trasparenza la pratica più utile a prevenire e anche a correggere dinamiche amministrative poco chiare o errate.

Nel nostro Paese assume una rilevanza molto significativa il sistema di finanziamento delle confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa con lo Stato italiano, attraverso il meccanismo della scelta della destinazione dell’otto per mille del reddito IRPEF di ciascun cittadino, secondo quanto previsto dalla legge n. 222 del 1985, che recepisce gli Accordi stipulati l’anno precedente tra Repubblica italiana e Santa Sede.

La Chiesa cattolica destina tali entrate, orientativamente, per un terzo al sostentamento del clero, per un terzo ad attività di culto-pastorale e per un terzo ad attività caritative.

Con tale meccanismo, la Chiesa esercita una funzione di grande responsabilità per il ruolo di intermediazione tra la volontà – esplicita ma di carattere generale –  di gran parte della popolazione italiana, e l’effettiva destinazione dei fondi ricevuti che, se per la parte relativa al sostentamento del clero è di immediata comprensione, per le parti relative a culto-pastorale e carità, è lasciata all’elaborazione e applicazione di criteri specifici per ciascuna destinazione e non risulta facilmente intelligibile.

Per tale motivo ha assunto negli anni sempre maggiore importanza la restituzione alla cittadinanza dell’informazione di quanto la Chiesa stesse destinando a sostegno di un’opera, di una struttura, di un’attività. E questo non solo a livello nazionale ma anche a livello diocesano, dal momento che quote parti significative dei contributi otto per mille vengono girate alle singole diocesi per svolgere a livello locale le medesime funzioni, ma con una specifica conoscenza della realtà territoriale di competenza.

L’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica sulla destinazione di qualsivoglia risorsa economica, unitamente alla progressiva maturazione delle comunità cristiane a rendersi protagoniste in un periodo ove occorre sempre di più individuare le priorità, hanno portato la Conferenza episcopale italiana ad assumere una specifica Determinazione, approvata all’unanimità nel corso dell’Assemblea dei vescovi del maggio 2016 e resa operativa in giugno 2017 con la sua pubblicazione nel Notiziario ufficiale.

Con l’assegnazione dei contributi otto per mille del 2017, pertanto, la Chiesa italiana si è incamminata verso un’ulteriore tappa di un processo che vede: maggiore sforzo di programmazione per la definizione delle priorità; coinvolgimento sempre più diffuso delle comunità cristiane nelle sue varie articolazioni; volontà di verifica della congruenza tra programmato e realizzato; il tutto con un significativo impegno di comunicazione all’opinione pubblica di quanto è stato compiuto con l’apporto di moltissime persone, non solo credenti.

 

[1] Cf. A Bagnasco ai membri dei Consigli parrocchiali per gli affari economici e agli amministratori degli enti ecclesiastici di Genova il 20 febbraio 2016.

Articolo tratto da Orientamenti Pastorali, n.11 del 2017 – © Tutti i diritti sono riservati