Domenico Sigalini, presidente del COP

È da almeno 30 anni che la rivista Orientamenti Pastorali del COP si cimenta con il tema delle Unità pastorali, della comunione di vita, di attività, di proposta cristiana, di nuova evangelizzazione di alcune parrocchie messe assieme, chiamate Unità pastorali o con altri nomi perché questo sembrava troppo riduttivo. Il punto di partenza però per noi non è mai stato il numero carente di presbiteri, ma il desiderio di rendere più missionarie le nostre parrocchie. Era percepibile facilmente la consapevolezza che il  motivo per cui si sono concentrate assieme alcune parrocchie in una sola, nonostante ci siano tante chiese, non è soprattutto la carenza di preti, o l’efficienza del servizio religioso, ma la possibilità di diventare una parrocchia aperta e missionaria.

Isolandoci nei nostri paesetti può essere comodo, ma ci stiamo accorgendo che la gente che va a messa è sempre di meno? Che i giovani sono spesso i più latitanti? Ci sarà qualcosa di cui dobbiamo renderci conto per non fare i turabuchi che servono oggi e che domani diventeranno una voragine che nemmeno la presenza di un prete sarà sufficiente a coprire. Non stiamo mettendo assieme le parrocchie per dare vita a una sorta di 118, un centro di servizi religiosi per essere efficienti nel rispondere ai battesimi, cresime, ai funerali, ai matrimoni… o messe di suffragio. Fra non molto tempo non ci saranno più le richieste di questi servizi religiosi, del famoso «118 ecclesiastico», ma resterà sempre nella gente, nelle persone il desiderio di dare risposte alle domande di senso che ci portiamo dentro, alla sete di qualcosa che va oltre la nostra esistenza, al significato della vita e della morte.

Questo lo si può già dimostrare oggi. Cala la pratica religiosa, crescono velocemente i non praticanti, ma le domande di senso, di significato, il bisogno di Dio, di una vita che non si cancella definitivamente con la morte rimane sempre all’80% delle persone. Chi è in grado di farsi carico di queste domande che non sono richiesta di ticket, ma ragioni di vita?

Le Unità pastorali valorizzano le piccole comunità che le compongono, perché in esse c’è una vitalità di dialogo con tutti molto di più che in una grossa organizzazione, che al massimo si esprime per qualche grande festa del patrono. Quindi c’è la possibilità di rompere finalmente quella comoda distinzione tra praticanti e non praticanti, quasi che i primi siano santi e i secondi atei, assolutamente incapaci di dare senso alla vita propria e di tutti. Viviamo spesso assieme, lavoriamo assieme, andiamo alla stessa scuola, abbiamo forse relazioni con lo stesso Comune… Non c’è già vita, che è sempre dono di Dio, che passa in tutti? Non c’è già voglia di vivere, desiderio di costruirsi una vita dignitosa, di trovarsi un lavoro, di costruire una famiglia? di vivere in pace e di potersi trovare pure a mangiare insieme qualche volta? di dare anche una risposta di fede alle sfide della vita?

Abbiamo tradotto queste domande con una parola, che anche la Santa Sede propone (Cf. Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” a cura della Congregazione per il Clero, 20.07.2020), che forse ci disturba perché la riteniamo sinonimo di  proselitismo, ricerca di clienti, magari facendo sconti per fidelizzarli di più. La parola è: missionarietà, capacità di cercare assieme le risposte, comunicarci vicendevolmente quelle che noi riusciamo a far nascere nel nostro cuore, che ci vengono dalle esperienze, anche di dolore, che abbiamo vissuto, di solidarietà che abbiamo ricevuto, di dono di Dio che i nostri genitori ci hanno trasmesso, di crisi nere, in cui ci siamo imbattuti, e grazia di Dio di essercene usciti più credenti di prima.

Insomma, le Unità pastorali non sono la conquista dei non praticanti e l’accontentarsi di come sono quelli che praticano, ma la ricerca di tutti assieme di  metterci a disposizione gli uni degli altri in un incontro tra noi e in mezzo al quale vogliamo trovare il Signore, in una comunità che lo celebra. Questo esige la corresponsabilità di tutti i battezzati, ma anche l’ascolto e la collaborazione dei non credenti che condividono la bontà della ricerca di risposte profonde, religiose alle domande della gente.

Laddove non c’è il presbitero si potranno anche inventare assemblee di preghiere domenicali, in cui proprio per evitare che sia ritenuta una messa secca (senza consacrazione del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo) è bene che non si usino particolari vestiti liturgici, tipo camici, cotte, pizzi, tuniche da prete…soprattutto per questa prima parte. Sono i papà e le mamme di famiglia o i nonni e le nonne o gli stessi ragazzi e giovani, che testimoniano a sé e a tutti la bellezza dell’incontrarsi nel nome di Gesù, di ascoltare la sua Parola che non ritornerà a Dio senza aver provocato ciò per cui è stata mandata.

Non si tratta, per evitare malintesi, di fingere di fare una assemblea generica che poi diventa una preghiera, ma di incamminarci con decisione verso un nuovo modo di pregare e di accoglierci gli uni gli altri, ricostruendo vite di fede nella libertà e nella volontà di ciascuno. In  questi tempi nessuno diventa credente per tradizione, nessuno desidera risposte se non si è fatto le domande, ma assieme cerchiamo la strada per approfondire le domande e rivolgerle al nostro Signore Gesù Cristo, entro una comunione regalataci da Dio che è la Chiesa.