Il Consiglio per gli affari economici e l’amministrazione parrocchiale: tra buon senso e trasparenza, nell’alveo della carità

Alberto Brignoli, parroco di Bolgare (diocesi di Bergamo)

«In ogni parrocchia vi sia il Consiglio per gli affari economici che è retto, oltre che dal diritto universale, dalle norme date dal vescovo diocesano; in esso i fedeli, scelti secondo le medesime norme, aiutino il parroco nell’amministrazione dei beni della parrocchia» (CIC 537).  «Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici (CPAE) è un organismo di partecipazione e di corresponsabilità con il compito di aiutare il parroco, che lo presiede, nell’amministrazione dei beni della parrocchia, secondo le norme del diritto universale e particolare e dello statuto diocesano».[1]

Queste due definizioni (molto simili tra di loro) provengono da due differenti fonti, una della Chiesa universale (il Codice di diritto canonico), l’altra (Costituzioni sinodali della diocesi) di una Chiesa particolare: in entrambe, tuttavia, si nota una piccola ma significativa «lacuna». Infatti, nessuna delle due definisce il Consiglio per gli affari economici di una parrocchia come Consiglio «pastorale», riservando l’aggettivo in questione solamente all’altro ben noto Consiglio. Può essere anche una questione di lana caprina, in quanto sa più di nominalismo che di effettiva carenza: però può anche essere significativo di come non si avverta la preoccupazione di esplicitare chiaramente che il CPAE è un organismo pastorale e per la pastorale, quasi che la sfera dell’economia e dell’amministrazione dei beni di una parrocchia esuli dall’ambito della vita pastorale ed ecclesiale delle comunità di fede. Salvate le debite differenze, l’amministrazione dei beni materiali di una parrocchia ha la stessa importanza di tutti gli altri aspetti del «munus regendi» come espressione del governo della Chiesa; e per nulla è da ritenersi inferiore agli altri due «munera», ossia il «munus sanctificandi» e il «munus docendi». L’arcivescovo della diocesi boliviana dove ho prestato servizio per nove anni, era solito ripetere che l’amministrazione trasparente e corretta dei beni materiali e del patrimonio di una parrocchia o di una chiesa locale è una forma molto concreta e molto vera di esercizio della carità: rifiutarsi – per i più svariati motivi – di esercitarla, costituisce per un sacerdote un grave forma di violazione del proprio ministero. È altresì comprensibile come siano ben pochi nel mondo i parroci esperti di economia e di amministrazione: forse lo diventano con gli anni, ma la competenza che molti laici hanno rispetto a queste tematiche ha suscitato la presa di coscienza da parte della Chiesa della necessità di farsi arricchire da questa competente esperienza, creando appunto i CPAE, che pur essendo un organismo di governo molto «pratico» e legato ad aspetti materiali e burocratici, non può assolutamente esimersi dall’essere considerato a tutti gli effetti un’espressione della sollecitudine pastorale della parrocchia. Mutuandolo ancora dallo statuto-quadro della mia diocesi, all’interno del quale con i sette membri laici (sei effettivi più una segretaria senza diritto di voto) del mio CPAE cerco di esercitare l’amministrazione economica della mia parrocchia, vorrei elencare i compiti del CPAE per avere alcuni punti di riferimento sui quali poi avviare anche una riflessione.

Il CPAE ha i seguenti compiti:

  1. a) aiutare il parroco nell’amministrazione dei beni della parrocchia e delle disponibilità economiche assicurate dalle offerte fatte dai fedeli;
  2. b) esprimere il parere sugli atti di straordinaria amministrazione che, di fatto, modificano lo stato patrimoniale della parrocchia e/o ne aggravano le responsabilità economiche, atti da sottoporre poi all’approvazione dell’ordinario diocesano per la loro validità;
  3. c) predisporre annualmente il bilancio economico preventivo della parrocchia, elencando le voci di entrata e di spese prevedibili per i vari bisogni della parrocchia (attività pastorali, caritative, onesto sostentamento del clero, …) e individuandone i relativi mezzi di copertura economica;
  4. d) vigilare sulla regolare tenuta dei registri contabili, sull’adempimento degli obblighi fiscali, sulla cassa parrocchiale e approvare alla fine di ciascun esercizio, previo esame dei libri contabili stessi e della relativa documentazione, il rendiconto consuntivo da presentare all’Ufficio amministrativo diocesano, entro la data stabilita dall’Ufficio stesso;
  5. e) studiare i modi e proporre iniziative per sensibilizzare la comunità al dovere di contribuire alle varie necessità della parrocchia, della Chiesa diocesana e della Chiesa universale.

Tenuto conto, quindi, che questa è la cornice all’interno della quale ogni parroco si trova a dover amministrare i beni della sua comunità parrocchiale, cerco ora di delineare alcuni elementi molto pratici di pastorale economica, esclusivamente basati sull’osservazione e sull’esperienza.

L’operatività del CPAE

IL CPAE – così come il Consiglio pastorale – ha funzione consultiva e non deliberativa: ciò significa che la decisione ultima spetta al parroco in qualità di legale rappresentante della parrocchia. E su questo, almeno dal punto di vista della responsabilità, non ci piove. Ma il nostro statuto-quadro dice pure: «Il parroco, a norma del diritto, userà ordinariamente del CPAE come valido strumento per l’amministrazione della parrocchia; ne ricercherà e ne ascolterà attentamente il parere, dal quale, soprattutto se concorde, pur mantenendo la propria libertà di scelta, non si discosterà se non per gravi motivi». Personalmente, non solo condivido questa sottolineatura, ma ho deciso di impostare l’operatività del CPAE secondo la metodologia – discutibile, ma sintomatica di un certo stile ecclesiale – di tipo deliberativo: ossia (tranne nel caso di palesi ed evidenti violazioni del Codice di diritto canonico e delle leggi dello Stato in materia fiscale, giuridica ed economica, e nel caso di comprovati pericoli per l’unità della parrocchia e l’integrità della fede e dei costumi o per la situazione vitale delle persone più povere) da parte mia accetto come vincolanti le decisioni prese dai membri del CPAE all’interno di una sessione regolarmente convocata e dopo aver avviato un dialogo e un tavolo di confronto sereno e costruttivo. Accettare le scelte del CPAE come vincolanti e quindi deliberative, non significa essere lassisti o remissivi nella gestione economica della parrocchia; significa, piuttosto, ricordare alla comunità e ai suoi membri che fanno parte degli organismi di governo che la parrocchia è loro, che non coincide spazio-temporalmente con la presenza di questo o quell’altro sacerdote più o meno simpatico o più o meno appassionato di economia. La parrocchia, pur essendo sotto la sua responsabilità, non è del parroco, ma dei parrocchiani: così deve essere con tutti gli annessi e connessi che le corrispondono, anche l’economia. Questo è uno dei fondamenti che sta alla base della costruzione della Chiesa come comunità, intesa non come comunità sacerdotale, ma come comunità di laici, presbiteri, religiosi e religiose sensibili a questa mentalità non clericale di Chiesa. In definitiva, io come parroco al termine del mio servizio in una parrocchia, da quella parrocchia non porto via e non eredito nulla, dal punto di vista dei beni: i membri del CPAE miei collaboratori, invece, restano in possesso di questi beni per tramandarli ai loro figli e ai figli dei loro figli.

La progettualità 

Reggere l’economia di una parrocchia non significa contare bene le offerte raccolte a messa o nei portacandele in chiesa, oppure compilare un libro di «dare-avere» in maniera corretta e trasparente: per quello, è sufficiente un buon contabile e un’efficiente macchinetta contamonete, soprattutto dal 2001 in qua… Ciò di cui si ha bisogno perché l’economia parrocchiale sia retta in maniera adeguata e non improvvisata è una progettualità seria e riflessa, possibilmente giocata su tre scansioni temporali:

  • A breve raggio: riguarda l’amministrazione ordinaria pensata su spazi molto brevi, coincidenti con l’anno pastorale in corso. Qui rientra la stipulazione del bilancio preventivo, la modalità di affronto e di estinzione di eventuali mutui (già accesi o da accendere), la revisione dei contratti in essere con i fornitori dei servizi basilari (acqua, luce, gas, telefono), la verifica delle iniziative di fundraising attuate negli anni precedenti e di quelle attualmente in funzione, gli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria delle strutture non superiori a 10-15.000 €, e via dicendo;
  • A lungo raggio: significa invece avere una visione molto ampia, coincidente (e non eccedente, se possibile, per evitare grane ai successori…) con il novennio-decennio di presenza nella parrocchia di un parroco. Si può quindi – e si deve – al di là dell’effettiva disponibilità di denaro «cash», fare un’elencazione dettagliata e circostanziata di quali dovrebbero essere le priorità di spesa e di intervento nel corso del lasso di tempo indicato, cercando sempre di avere un sano realismo che eviti di fare un passo più lungo della gamba;
  • In mezzo a questo doppio respiro, uno a pieni polmoni, l’altro leggermente più corto e generalmente ansioso (soprattutto quando si sono contratti debiti, e arrivano i creditori a bussare alla porta della canonica per riscuotere), si colloca la progettualità a medio raggio, quella che ha uno spettro più ampio di raggiungibilità e di solvenza nel caso ci siano mutui o rate da pagare, e in parte già si è fatto qualcosa. Il medio raggio potrebbe essere rappresentato dalle opere o dalle idee in cantiere realizzabili in un lasso di tempo triennale, oppure coincidente con il periodo di durata del CPAE, che in genere è di cinque anni. Qui possono rientrare gli eventi di straordinaria amministrazione, soprattutto in ordine alla sicurezza degli impianti di distribuzione di luce, acqua e gas; possono rientrare anche alcune forme di investimento vincolato a corta scadenza, laddove si abbiano dei liquidi a disposizione da poter far fruttare senza lasciarli in giacenza passiva per anni, e così via.

I criteri d’azione

Come ci si deve muovere, allora, una volta realizzata una progettualità tripartita con relazione agli interventi in campo economico nella gestione di una parrocchia, che spesso ha a che fare con templi, case e strutture di notevole valore artistico? Penso che sia necessario darsi dei criteri in base ai quali fare una scelta onesta e la più possibile condivisibile.

Stabilire delle priorità

È qualcosa di assolutamente necessario, poiché riuscire a fare tutto, e a farlo contemporaneamente, e a farlo bene, e soprattutto a…saldarne i conti è quantomeno utopia. Quali possono essere, in ordine cronologico, le priorità che un CPAE deve dare alla propria progettualità? Con un pizzico di buon senso, credo si possa fare una scansione temporale di questo tipo, perfettamente adattabile alle sensibilità dei parrocchiani e al contesto in cui ci si trova a operare.

  1. Affrontare le emergenze. Non ci vuole molto a capire che, se mi cade il tetto della chiesa sulla testa, o se piove nella sala cinema o se saltano le tubature dell’impianto di riscaldamento dell’oratorio, quella debba essere la priorità assoluta. Far lucidare i calici d’oro della parrocchia o restaurare la pala dell’altare dedicata al santo patrono mentre i tuoi ragazzi a catechismo congelano per via di una caldaia che ormai nemmeno più si accende, sarebbe quantomeno ridicolo (se non scandaloso). E nell’ambito delle emergenze, sono convinto che si debba agire con procedura d’urgenza, affidando i lavori a chi te li assicura in tempi rapidi, secondo normative vigenti (ossia a regola d’arte), e magari anche facendoti risparmiare qualcosa, anche se nell’ambito dell’emergenza forse il criterio del risparmio è relativo.
  2. Mettere in sicurezza. Non si può continuare a vivere in una parrocchia con strutture o impianti che non sono più a norma o che non rispettano le minime regole ambientali, anche perché questo ha una dimensione etica non indifferente. Per cui, via tutto l’amianto che ricopre i tetti delle nostre vecchie costruzioni (sperando che il nostro esempio sia seguito da altri, parrocchiani e non); via tutti gli impianti elettrici a rischio incendio; via tutte le barriere architettoniche; via tutti gli impianti di riscaldamento che aumentano gli agenti inquinanti nell’atmosfera. E gli esempi si sprecano.
  3. Praticità pastorale. Affrontate le emergenze e le cose da mettere in sicurezza, si può passare a una progettualità meno assillata. E qui, credo che in ordine di priorità si debba mettere ciò che serve alla crescita della comunità parrocchiale dal punto di vista dei due munera principali, ovvero il sanctificandi e il docendi. Celebrazione liturgica e insegnamento della fede sono le prime realtà che non solo balzano alla vista di chi accede a una struttura o a una realtà parrocchiale (conosci la parrocchia, in genere, per la partecipazione a un sacramento o alla messa, o perché porti il figlio a catechismo), ma anche ne costituiscono il principale elemento di ecclesialità nel senso di formazione assembleare riunita intorno al proprio Signore per celebrarlo e ascoltare la sua Parola. Per cui, una volta gettato lo sguardo al portafoglio parrocchiale, se c’è da sistemare l’altare, piuttosto che le luci della chiesa, piuttosto che l’ambone, piuttosto che le aule di catechismo o il salone polifunzionale dell’oratorio, credo che questo debba avere la priorità rispetto alla sistemazione dell’impianto di insonorizzazione dell’aula musica della banda.
  4. Elementi aggregativi e ludici. Soprattutto quando si ha a che fare con una struttura di pastorale giovanile o familiare, come può essere un oratorio o uno spazio ricreativo per bambini e ragazzi o un luogo aggregativo per i giovani, credo che l’elemento legato proprio al suo aspetto ludico e del «fare gruppo» debba avere una certa priorità. Non posso lasciare all’addiaccio una ventina di adolescenti della parrocchia perché non ho un luogo accogliente dove possano bere in compagnia qualcosa che non sia alcolico e dove possano giocare insieme uscendo dall’isolamento da smartphone. Non posso neppure permettermi che questi adolescenti o giovani trovino un punto di aggregazione in altri luoghi della città o del paese, dove di certo non trovano le migliori compagnie o dove rischiano di buttare via la vita in un bicchiere dietro l’altro. Anche una semplice altalena per bambini in uno spazio inattivo della parrocchia è il segno dell’attenzione ai più piccoli: meglio ancora se i giochi che vengono scelti per l’area ricreativa tengono presente pure l’accessibilità dei disabili ai giochi stessi.
  5. Tutela del patrimonio. Non è forse così prioritario come i precedenti, ma preoccuparsi di tutelare il patrimonio artistico, storico e culturale della nostra parrocchia (e quindi del nostro territorio) non può non rappresentare una priorità per i membri del CPAE. Per cui, una chiesetta del ‘400 i cui affreschi si sgretolano, anche se essa non è più adibita al culto permanente, deve far parte della nostra preoccupazione, specie se questo viene coordinato con la Sovrintendenza dei beni culturali e artistici della Regione. E soprattutto, facciamo in modo che questo sia seguito da esperti in arte, molto più di quanto lo siamo noi preti, che pur essendo appassionati di tutto ciò che è arte e cultura, molto spesso abbiamo delle gravi lacune (per non dire altro) nella nostra preparazione culturale, peggio ancora in quella estetica.
  6. Estetica e conservazione. Visto che si parla di estetica, allora aggiungo questo piccolo elemento direttamente connesso al precedente. Magari un’opera d’arte che ho in parrocchia, oppure anche solo una struttura (vissuta o meno che sia), pur non essendo a rischio crollo o logorio, necessitano di un piccolo restyling o anche solo di una pulizia o di un’imbiancatura, anche perché magari si trovano in luoghi ad alta visibilità e impatto ambientale, come può essere una piazza. Non facciamoci scrupoli nel preoccuparci dell’aspetto estetico e/o conservativo. Se un membro anziano del CPAE (maschile o femminile che esso sia, cominciando dal parroco) si preoccupa di non dover spaventare nessuno quando cammina per la strada per i segni dell’usura che l’età lascia sul suo volto, sulla sua chioma o sul suo corpo, a maggior ragione deve preoccuparsi che chi arriva in paese da fuori oppure la signora che apre le finestre di casa al mattino non si debbano spaventare per il colore fucsia del castello delle campane (fatti realmente accaduti…) o per la foresta amazzonica in cui il giardino della canonica si è trasformato… E non è un fatto di politica culturale, è un fatto di rispetto per il bello e per il gusto. «La bellezza salverà il mondo»: l’hanno detto Dostoevskij, Giussani e Leonardo Boff…più «tripartisan» di così!

Tra economia e durevolezza

È una questione annosa, uno dei principali motivi di discussione tra il parroco e l’architetto o l’impresario edile membri del CPAE: fare un’opera che costa poco, anche se poi dura quello che dura, oppure un’opera che duri nel tempo e non debba essere più rifatta, anche se al momento tocca in maniera sensibile il conto corrente della parrocchia? È inutile fare una casistica, anche se è vero che ogni cosa va valutata caso per caso in base veramente alla capacità di solvenza che una parrocchia ha nei confronti di chi ci offre un servizio, anche perché poi i fornitori e chi ci realizza un’opera va pagato con regolarità e onestà. In linea di massima, io mi lascio guidare da un proverbio spagnolo imparato negli anni di missione in America Latina: «Lo barato sale caro», «Le cose economiche costano parecchio». Ognuno tragga le proprie conseguenze.

Uno sguardo al contesto

«Né più né meno – e se proprio, un po’ meno – di quello che la media della tua gente possiede». Con questa perla di saggezza uno dei miei vecchi parroci m’insegnava quale dovesse essere il nostro rapporto personale, di noi sacerdoti, con i beni accumulati o con le cose di nostra proprietà. Essere più ricchi dell’operaio medio o vivere in una casa canonica con l’idromassaggio mentre nella periferia della tua parrocchia cittadina c’è gente che vive in un camper…beh, non mi pare possa dirsi evangelico. Lo stesso criterio può essere applicato anche alle strutture parrocchiali, soprattutto in fase di progettazione. Che cosa intendo con questo, lo posso indicare con esempi pratici. Come puoi pensare di costruire un oratorio di due milioni di euro quando la metà dei tuoi parrocchiani (se non di più) fa fatica ad arrivare alla fine del mese? Come puoi costruire un’opera del genere, sapendo che il trend attuale è quello che gli oratori si svuotano perché nascono meno figli nelle famiglie, o perché i luoghi di aggregazioni extra-parrocchiali oggi si sono moltiplicati rispetto al passato? Come puoi chiamare una ditta da 800 chilometri di distanza per farti un lavoro che possono fare due o tre impresari del tuo paese, i quali danno lavoro a cinque-sei famiglie della tua parrocchia, solo perché chi viene da lontano alla fine ti costa di meno? Ecco, tutto questo significa essere capaci di gettare un occhio al contesto in cui si vive.

Trasparenza e comunicazione

Su questo, ci giochiamo la credibilità umana ed ecclesiale. La gente oggi deve sapere: su questo non ci piove. Soprattutto, quando si tratta di offerte frutto dei loro risparmi e sacrifici. Tutto deve essere rigorosamente reso obbligatorio: pubblicare il bilancio annuale sul notiziario o in bacheca o sul sito; comunicare quante offerte si sono raccolte in una domenica dedicata a una questua particolare; affidare a terzi lavori sostanziali attraverso regolari gare d’appalto, e comunicare il nome della ditta a cui si affida il lavoro; verbalizzare e rendere note ordinariamente le tematiche affrontate nelle riunioni del CPAE; non nascondere alla gente quanto incassa il bar dell’oratorio o la sala cinema: e chi più ne ha, più ne metta. Noi siamo amministratori di beni che non sono nostri: dobbiamo rendere conto, oltre che ai nostri superiori e al Superiore assoluto, alla nostra gente, soprattutto la più povera e semplice, che per contribuire al buon funzionamento della parrocchia in moltissimi casi affronta sacrifici non indifferenti. Su questo, tolleranza zero: ancor più, qualora dovessimo accorgerci di comportamenti disonesti da parte nostra, innanzitutto, e da parte dei nostri più stretti collaboratori.

Il  fundraising

Tanti bei discorsi e tante belle idee, ben teorizzate… Sì, ma poi? Chi mi dà i 300.000 € necessari al restauro conservativo della mia bella chiesa parrocchiale, i cui calcinacci rischiano, tra poco, di cadere sui banchi, sperando non accada durante la messa? Chi mi aiuta a pagare le rate di un mutuo acceso dal mio predecessore in maniera furbesca, ovvero pochi mesi prima di lasciare la parrocchia? Quando la cassa piange, dov’è il CPAE? Tipiche domande da parroci in difficoltà economica…diamoci qualche spunto che ci aiuti a non lasciarci bollire nel pentolone della bancarotta. Innanzitutto, partiamo dall’idea di non essere mai da soli: il CPAE ci deve aiutare (cit.) a studiare i modi e proporre iniziative per sensibilizzare la comunità al dovere di contribuire alle varie necessità della parrocchia. Quindi, ogni attività di fundraising deve essere coordinata e programmata all’interno del CPAE, dove – essendoci sensibilità e abilità diverse – sicuramente si riescono a individuare strategie diversificate e quindi con maggior possibilità di successo. Fondamentale, inoltre, è l’atteggiamento pastorale che la parrocchia – e in primis i sacerdoti – assume nei confronti della gente. Se l’immagine che offriamo è quella di una parrocchia chiusa, arroccata su se stessa e sui suoi problemi, incapace di stare con la gente, insensibile alle difficoltà che le famiglie vivono, identificata con un atteggiamento elemosiniere da «frate questuante», o peggio ancora attaccata solo ai potenti di ogni specie per lucrare qualsiasi tipo di beneficio, allora possiamo davvero scordarci di ottenere da parte della gente un atteggiamento collaborativo, in ogni ambito della pastorale, ancor più in quello economico. Iniziamo, ad esempio, a evitare tariffari nelle celebrazioni dei sacramenti o dei rituali: non solo perché papa Francesco più volte ce lo ha chiesto, ma proprio perché lo spirito dell’offerta deve essere quello della collaborazione spontanea e volontaria che tra l’altro – almeno, questa è la mia esperienza – anche quantitativamente è più significativa di quella tassativa del tariffario. Se lasci libera la gente di offrire quello che può, sa dimostrare maggior generosità rispetto a quando si sente «tassata» da un sistema che non ha più in testa l’idea di elemosina. Se poi si tratta di attuare delle strategie – ripeto, in comunione con il CPAE – allora le vie da tentare sono parecchie: dalla raccolta straordinaria a mezzo buste, accompagnate da una lettera di auguri del parroco con gli orari delle celebrazioni e delle confessioni in occasione delle festività principali (Pasqua, Natale, Patrono), evitando il «casa per casa» di tante generose donnette delle nostre parrocchie di qualche anno fa, che ormai ricevono solo insulti e maldicenze (una bussola in chiesa per la consegna delle buste è ancora la cosa più efficace, alla fine); all’organizzazione di campagne o kermesse finalizzate a un progetto specifico, con l’offerta di un prodotto a cambio della contribuzione (l’esempio più evidente sono le sagre parrocchiali, o le bancarelle, o i banchi vendita, o le pesche di beneficenza, dove – a fronte di un’offerta – si dona anche un prodotto, che deve cercare di essere il più possibile utile e di qualità); alla sensibilizzazione delle aziende e delle imprese presenti sul territorio, rendendole edotte del fatto che le offerte date a titolo di liberalità alla parrocchia possono essere date a fronte di una ricevuta rilasciata dalla parrocchia stessa utilizzabile dalla ditta o dal privato per la deduzione/detrazione ai fini fiscali. Gli esempi e le opportunità in questo senso si sprecano. Non dimentichiamo quanto detto sopra, ovvero l’atteggiamento di apertura e affabilità e la non insistenza sul fattore contributivo quale fattore fondamentale della pastorale. Il primo dovere di un parrocchiano è di pregare e di voler bene al prossimo: se poi è capace di rendere concreto questo anche sovvenendo alle necessità della parrocchia, molto meglio.

«Al di sopra di tutto, poi, vi sia la carità»

Alla fine di tutto, un’esortazione spirituale, ma non troppo: guai a noi se la nostra abilità amministrativa e le nostre strategie in campo economico e finanziario si dimenticassero dei poveri. Guai a noi se, guardando alle necessità della nostra parrocchia, ci chiudiamo alle necessità delle altre parrocchie, della Chiesa diocesana, della Chiesa universale, delle Chiese del sud del mondo. Grida vendetta al cospetto di Dio il comportamento di alcuni parroci che so, in passato, aver utilizzato i fondi raccolti per la Giornata missionaria mondiale per pagare delle scadenze in parrocchia, magari in buona fede, magari con il tacito o esplicito assenso dei membri del CPAE, adducendo la motivazione del «più terra di missione di noi!». Ti potrà anche crollare la chiesa sulla testa, ma se ti dimentichi dei poveri, ti è crollata la fede. Evitare campagne o raccolte a favore dei più poveri perché «abbiamo un sacco di debiti» o perché «prima i nostri poi gli altri», oltre che avere un’accezione socio-politica dal sapore tipico del ventennio più triste della storia italiana, rappresenta uno schiaffo in faccia ai poveri, un insulto a Dio e un’imperdonabile bestemmia nei confronti dello Spirito Santo, totalmente ed evidentemente contraria al vangelo di Gesù Cristo, che fu, è e sempre sarà annunciato principalmente ai poveri. Non ce l’hanno forse insegnato le nostre nonne che «la carità uscita dalla porta rientra dalla finestra», ovvero che la provvidenza non abbandona mai chi dona con gioia, come anche Paolo ci ricorda nella seconda lettera ai Corinti (2Cor 9,7)? Forse le mie parole conclusive sono un po’ forti, e allora voglio terminare ancora con le parole di Paolo ai Colossesi, nella versione della traduzione CEI del 1974, che ritengo più poetica e più incisiva dell’attuale: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché a essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!» (Col 3,14-15).

[1] Dallo statuto-quadro del Consiglio parrocchiale per gli affari economici della diocesi di Bergamo.

(articolo pubblicato su Orientamenti Pastorali 11/2017tutti i diritti riservati)