Caritas e comunità cristiana

Francesco Soddu, direttore di Caritas italiana

 

Premetto che la Caritas sono le Caritas. La storia della Caritas italiana non può essere letta se non come esito del tessuto dell’insieme delle Caritas diocesane.

La Conferenza episcopale italiana, su mandato di Paolo VI, istituì nel 1971 la Caritas italiana «al fine di promuovere, anche in collaborazione con gli altri organismi, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica».[1]

Contestualmente, nominò come primo presidente e poi direttore mons. Giovanni Nervo, a cui è succeduto per due mandati mons. Giuseppe Pasini. Entrambi scomparsi nello stesso giorno, il 21 marzo, a distanza di due anni: don Giovanni nel 2013, don Giuseppe nel 2015.

Don Giovanni ha accompagnato la nascita del nuovo organismo pastorale con la forza della fede e delle idee, don Giuseppe ha insegnato un metodo di lettura dei segni dei tempi a tutto campo, di discernimento e proposte, dentro la concretezza delle comunità ecclesiali.

Dentro il respiro vitale della Chiesa di questo periodo, in quel cammino che papa Francesco ha voluto fosse ben definito già dalle indicazioni fornite dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium e riproposte alla Chiesa italiana nel contesto del Convegno ecclesiale di Firenze, e nel percorso tracciato dall’anno santo straordinario della Misericordia, siamo chiamati a continuare e rinnovare il solco tracciato avendo sempre ben chiari tre aspetti della Caritas stessa: l’essere organismo pastorale, il fare e l’agire mantenendo costante coerenza tra questi tre aspetti.

La via migliore per fare questo è proprio quella di rifarsi alle ragioni della sua istituzione da parte di Paolo VI, e al ricco patrimonio di presenza pastorale servito dalle Caritas a territori e chiese a livello nazionale, europeo e internazionale. È la declinazione dell’aggettivo pastorale che specifica come la Caritas è chiamata a condurre le comunità all’assunzione consapevole e responsabile dell’esercizio e della testimonianza della carità. Pastorale infatti rimanda a quella ricaduta di coscienza, di formazione e di responsabilità delle stesse comunità cristiane. Esse sono il vero e insostituibile soggetto della carità evangelica, chiamate a una profonda trasformazione di mentalità e di approccio ai temi e alle prassi della carità, in forme solidali, organizzate e profetiche.

Una carità, dunque, che non si riduce a semplice «sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane», ma diviene «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti» (SRS 38). [2]

Oggi antiche e nuove povertà mandano facilmente in difficoltà, in sovraccarico, in confusione. Si è costantemente chiamati a conoscere, ascoltare e discernere le molteplici situazioni di povertà per prendere decisioni, per costruire e orientare le operatività. Al riguardo, il fare, l’operatività delle Caritas diocesane e parrocchiali deve accorgersi dei molteplici bisogni costantemente in crescita: bisogni di tipo materiale, relazionale, di dignità e di precarietà economica. L’agire della Caritas, nei quattro decenni passati, ha aperto ed è chiamato ad aprire ancora strade nuove, cioè una carità che promuova fraternità, giustizia, collaborazione, responsabilità, partecipazione, difesa di diritti, cura della vita. Una carità libera e liberante, perché persegue lo scopo di liberare l’altro dal bisogno e di ricostruire la sua umanità.

La testimonianza della carità non è dunque un optional, essa «è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza (cf. SRS 38); tutti i fedeli hanno il diritto e il dovere di impegnarsi personalmente per vivere il comandamento nuovo che Cristo ci ha lasciato,[3] offrendo all’uomo contemporaneo non solo aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima.[4] All’esercizio della diakonia della carità la Chiesa è chiamata anche a livello comunitario, dalle piccole comunità locali alle Chiese particolari, fino alla Chiesa universale»:[5] ogni parrocchia dovrebbe essere dotata di questo strumento, in ogni città deve splendere il suo servizio, affinché l’attenzione al territorio e alla sua animazione rispondano pienamente allo sviluppo dell’uno e dell’altro.

Illuminante è l’orizzonte sul quale Benedetto XVI colloca le opere in ordine alla funzione pedagogica e alla pedagogia dei fatti. In occasione della celebrazione del 40° di Caritas ebbe modo di dire: «Quella dei gesti, dei segni è una modalità connaturata alla funzione pedagogica della Caritas. Attraverso i segni concreti, infatti, voi parlate, evangelizzate, educate. Un’opera di carità parla di Dio, annuncia una speranza, induce a porsi domande. […] Rendetele, per così dire, “parlanti”, preoccupandovi soprattutto della motivazione interiore che le anima, e della qualità della testimonianza che da esse promana. Sono opere che nascono dalla fede. Sono opere di Chiesa, espressione dell’attenzione verso chi fa più fatica. Sono azioni pedagogiche, perché aiutano i più poveri a crescere nella loro dignità, le comunità cristiane a camminare nella sequela di Cristo, la società civile ad assumersi coscientemente i propri obblighi». Senza opere non si anima, ci siamo detti più volte. La qualità, la gratuità e l’innovatività delle opere segno promosse dalle Caritas – a partire da quella dell’ascolto: fondamentale, mai da escludere, rimandare o dare per scontata ­– è condizione imprescindibile per l’agire dell’organismo pastorale. La pedagogia nelle opere, dunque, mette in campo la funzione pedagogica che le opere devono avere. In altre parole, le opere in se stesse (in quanto avulse) non dicono niente; l’opera buona, invece, dice immediatamente, parla, comunica, educa, conduce a Dio «perché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre che è nei cieli». È in se stessa pedagogica; trasmettitrice di formazione e contemporaneamente generatrice di un meccanismo che a cascata genera fede speranza e carità. In merito, il papa ci ha augurato di «sapere coltivare al meglio la qualità delle opere che avete saputo inventare». Ma ha anche ricordato che «L’umanità non necessita solo di benefattori, ma anche di persone umili e concrete che, come Gesù, sappiano mettersi al fianco dei fratelli condividendo un po’ della loro fatica. In una parola, l’umanità cerca segni di speranza».

Proprio l’immagine delle «opere parlanti» è stata ripresa poi da papa Francesco nell’udienza del 21 aprile 2016 per il 38° Convegno nazionale che ha coinciso con il 45° anniversario di fondazione di Caritas italiana. In particolare il papa ha esortato ad «andare avanti senza paura e scoprire prospettive sempre nuove» nel nostro impegno pastorale, a «rafforzare stili e motivazioni, e così rispondere sempre meglio al Signore che ci viene incontro nei volti e nelle storie delle sorelle e dei fratelli più bisognosi». Infatti «egli sta alla porta del nostro cuore, delle nostre comunità e attende che qualcuno risponda al suo “bussare” discreto e insistente».

Dopo aver ricordato che i bisognosi aspettano la «carezza» misericordiosa del Signore, attraverso la «mano» della sua Chiesa, il pontefice ha dato alcune indicazioni, quasi un decalogo, su come debba essere la misericordia nel mondo di oggi, «complesso e interconnesso». Una misericordia – ha spiegato – che sia al contempo:

  1. attenta e informata;
  2. concreta e competente, capace di analisi, ricerche, studi e riflessioni;
  3. personale, ma anche comunitaria;
  4. credibile in forza di una coerenza che è testimonianza evangelica;
  5. organizzata e formata, per fornire servizi sempre più precisi e mirati;
  6. responsabile;
  7. coordinata;
  8. capace di alleanze e di innovazione;
  9. delicata e accogliente, piena di relazioni significative;
  10. aperta a tutti, premurosa nell’invitare i piccoli e i poveri del mondo a prendere parte attiva nella comunità.

Nel Convegno nazionale di quest’anno siamo ripartiti da quelle indicazioni e ci siamo proposti di orientare il cammino futuro delle Caritas, anche alla luce delle prospettive legate al nuovo Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale recentemente istituito da papa Francesco; ben sapendo che tale sviluppo non potrebbe mai attuarsi se non si coniugano tra loro le grandi tematiche che sono sempre state oggetto della nostra attenzione pastorale e sociale: giustizia, pace e salvaguardia del creato. Già Paolo VI, con l’enciclica Populorum progressio, 50 anni fa, aveva profeticamente sottolineato come «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo […]. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera» (n. 14). Parole che restano attuali anche a 50 anni di distanza, e allo stesso tempo ci proiettano verso il futuro.

Dal confronto e dallo sguardo sulla vita delle Caritas oggi, rispetto alla domanda «come favorire lo sviluppo umano integrale» sono emerse dai partecipanti al convegno molteplici proposte.

Indubbiamente i poveri sono stati i protagonisti del dibattito e del confronto tra le Caritas diocesane durante il convegno. Si è parlato di loro non più come destinatari, soggetti passivi, utenti dell’azione assistenziale della Caritas, ma principalmente come persone, soggetti attivi, portatori di storie, risorse, desideri e sogni. Ci si è chiesti, ad esempio, come far combaciare l’idea generale di sviluppo umano integrale con l’idea/desiderio di crescita/sviluppo della persona che accogliamo. Non siamo noi, infatti, ma le stesse persone a dover riscoprire un loro desiderio per uno sviluppo umano integrale. Tra i volti di povertà che emergono dalle sintesi dei gruppi di lavoro, ne ricordiamo due in particolare.

I giovani

Oggi possono essere intercettati sia come portatori di bisogni, anche molto urgenti – lavoro, formazione, salute – sia come risorse straordinarie per incontrare e servire le povertà con la carica, l’energia, la freschezza e lo sguardo nuovo del loro approccio con le persone. Perciò non si deve avere paura di offrire loro proposte forti e ruoli di maggiore responsabilità nei progetti che vengono messi in campo. Inoltre rimane sempre strategico investire o rafforzare risorse ed energie nel mondo della scuola, anche valorizzando l’integrazione e la cooperazione con altri soggetti ecclesiali già coinvolti in tale servizio.

La comunità e i territori

È sempre più evidente la centralità dell’attenzione che le Caritas sono chiamate ad avere verso le comunità che sperimentano processi di crescente impoverimento, di frammentazione, di deterioramento delle relazioni.  Emerge, non solo da un punto di vista terminologico, un’evoluzione che parte dal concetto di animazione in senso generico, passa per la sussidiarietà, per giungere allo sviluppo di comunità. Possiamo considerare questo percorso una delle nuove possibilità di agire per l’animazione pastorale.

Appare chiaro come il compito primario non sia tanto quello relativo alla risoluzione dei problemi, quanto piuttosto al rendere possibile l’abitabilità delle situazioni. La promozione, anzi l’inclusione, senz’altro la presa in carico e l’accompagnamento delle persone più vulnerabili, costituisce il lievito e il metodo attraverso cui la comunità rigenera se stessa. Coloro che si mettono a servizio della comunità attraverso la Caritas dovranno quindi possedere o acquisire lo stile e la mentalità degli animatori, diventare moltiplicatori di attenzione e impegni, coinvolgere sempre più la comunità e ciascuno dei suoi membri nell’accoglienza, nel servizio, nello spirito della gratuità. È la logica dell’educare facendo e facendo fare, affinché la comunità produca in se stessa i germi della propria sussistenza.

A tale proposito mi pare importante richiamare quanto scritto nell’Evangelii gaudium: «Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi» (n. 207).

Oltre tutti i commenti, comunque necessari, mi pare che questo numero di EG metta bene in evidenza il metodo Caritas: ascoltare, osservare, discernere, per animare.

Molti altri aspetti sono emersi dal convegno in modo ricorrente:

  • le tematiche del lavoro, per il quale si riconosce la necessità di attivare processi di advocacy e di sostenere le forme cooperative di impresa affinché si producano realtà di inclusione lavorativa;
  • il tema dell’identità e della funzione pedagogica della Caritas, nello specifico, il metodo: emerge il bisogno di riscoprirli nella loro natura di strumenti al servizio della persona, della famiglia, della comunità e non come categorie a cui aderire. Una delle proposte è quella di aggiornare e rivedere il metodo pastorale Caritas illuminandolo con la complessità della vita delle persone che incontriamo. Un esempio è quello di praticare un ascolto nuovo, integrale, che permetta alla persona di essere incontrata nelle sue diverse dimensioni, ben oltre la povertà;
  • l’accompagnamento, altro processo tipico del nostro agire, abbisogna di una nuova declinazione improntata alla «capacitazione», intesa come la possibilità che ogni persona incontrata recuperi il protagonismo nella comunità, anche grazie alla condivisione del proprio progetto di vita con chi lo accompagna. Investire maggiormente in questo tipo di relazione dà un rinnovato significato ai servizi che tornano a essere autentici strumenti di animazione e si trasformano in azioni e luoghi che migliorano il territorio, casa della comunità;
  • l’osservazione, come capacità di abitare il territorio, vederlo dall’interno, conoscendolo fino in fondo. Un’osservazione che può essere significativa solo se torna a essere patrimonio della comunità.

In maniera trasversale, inoltre, la costante più forte è stata la richiesta di dedicare energie e attenzioni ai tanti volontari, operatori e direttori che ogni giorno impiegano le loro risorse, umane e professionali, per ascoltare e accompagnare tutta questa complessità. Nello specifico emerge netta, dunque, l’istanza di «prendersi cura di chi si prende cura»: cura dello spirito, cura del cuore, del proprio limite, della bella fatica delle relazioni. È questo che dà il primato all’«essere», prima ancora che al «fare».

La Caritas dunque è chiamata a realizzare lo Sviluppo umano integrale mettendo al centro ogni persona come soggetto attivo della comunità, e la comunità come luogo di risorse autentiche e di necessaria partecipazione.

Tra gli orientamenti per il cammino comune va evidenziato il richiamo in primo luogo all’esigenza di essere presenti, visibili, pronti anche a essere di riferimento e a dare indicazioni, consapevoli che la strada è Gesù. La comprensione e la pratica della carità nascono dalla persona di Gesù Cristo, fonte e causa esemplare della carità cristiana. È il suo invito ad amare come lui ha amato che informa ogni pensiero e ogni pratica della carità. E le caratteristiche del suo amore sono quelle che fanno emergere tutti i nessi necessari fra carità e comunione, carità e giustizia, carità e liberazione, carità e politica, carità ed economia. Il nostro ruolo è quello di essere in una Chiesa che sempre più non stia alla finestra. Nell’era della complessità e delle crisi dobbiamo esserci, abitare con responsabilità il territorio, sperimentare con coraggio nuove forme di carità. Papa Francesco ci ricorda che «l’ordine mondiale si mostra impotente, mentre l’istanza locale può fare la differenza». La nostra capillarità va dunque rafforzata, occorre un nuovo approccio allo sviluppo di comunità. Un nuovo approccio dunque che coinvolge tutte le aree del nostro lavoro: la funzione pedagogica, la concreta progettazione sociale, la tutela dei diritti. Una carità generativa, feconda per le persone e per le comunità che la ricevono. Certo, una prospettiva alta, complessa, ma che ci deve vedere attori protagonisti, senza cedere alle paure che imbrigliano la nostra epoca.

È questa la Chiesa «in uscita» cara a papa Francesco, che «sa far il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (EG 24).

 

(articolo tratto dal dossier “Comunità cristiana, caritas, periferie”, in Orientamenti Pastorali 5/2017, EDB, Bologna 2017. Tutti i diritti riservati)

 

[1] Statuto della Caritas italiana, art. 1.

[2] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Sollecitudo rei socialis, 38 (d’ora in poi SRS).

[3] cf. Gv 15,12.

[4] Cf. Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 28.

[5] Benedetto XVI, Lettera apostolica in forma di motu proprio Intima Ecclesiae natura, proemio.