Antonio Mastantuono – pastoralista, direttore di Orientamenti Pastorali

Tema non solamente etico e intrinseco alla fede cristiana, il perdono è stato oggetto di riflessione, specie negli ultimi decenni, anche da parte di filosofi e psicologi[2], che ne hanno indagato, oltre alla dimensione personale, la valenza socio-politica. Particolarmente in area ebraica, all’interno della riflessione sulla Sho’ah[3], il tema è stato indagato da pensatori come Vladimir Jankèlèvitch[4], Hannah Harendt[5], Paul Ricoeur[6], Emmanuel Lévinas.[7] In questi autori l’atto del perdono assume il valore di un vero e proprio «principio sovversivo» rispetto alle geometrie concettuali di gran parte della nostra tradizione teoretica. In questa, il perdono è visto essenzialmente come una virtù individuale, consistente nella gratuita remissione di una colpa, e come rinuncia alla punizione del colpevole da parte di chi è stato personalmente offeso. Nella riflessione più recente la realtà del perdono si concretizza in un incipit vita nova personale almeno virtualmente relazionale, il cui darsi apre l’orizzonte di una peculiare logica di interazione.[8] Ne deriva «una definizione positiva del perdono, inteso come libero atto di amore – o comunque di rispetto attivo – di chi riammette alla relazione con sé il proprio offensore, riconoscendogli una dignità che supera il male compiuto…».[9] Non si perdona, allora, in ossequio a un principio etico, come se si desse esecuzione a un precetto, ma in forza di un atto libero e indeducibile, esperienza non completamente intelligibile, che attinge in ultima analisi alle ragioni profonde dell’amore. Ne emerge la possibilità di un perdono che acquisti il senso di una profezia.[10] Il perdono non è anzitutto un concetto, ma un atto di libertà personale. Ciò non significa che sia un gesto irrazionale, se con tale connotazione si intende un atto privo di relazione con la verità. Anzi. In quest’ottica, il perdono ha valore profetico nel senso che esso è sempre anche anticipazione di una verità che riguarda l’identità e la pienezza dell’esistenza umana.

È soprattutto in questa prospettiva che – all’interno di una riflessione complessiva sul tema – affronteremo la fenomenologia del perdono.

Perdono e riconciliazione

In un mondo, come il nostro, dominato dalla violenza e da forme di conflittualità sempre più esasperate e violente, oltre che dalla funzionalizzazione e dalla massificazione dei rapporti umani, è naturale che rinasca la nostalgia di relazioni umane vere, costruite sul dialogo e sulla comprensione reciproca. I termini «conciliazione» e «riconciliazione» – sia a livello di rapporti interpersonali che a livello di comunità e di nazioni – riacquistano oggi uno spazio, evocano, infatti, il rifiuto del fatalismo e il richiamo a un’azione di padronanza sul proprio destino; soprattutto esprimono il desiderio profondo dell’incontro con l’altro. Se la riconciliazione non viene ridotta né a un’intesa sul piano ideologico né a sterile compromesso, ma viene concepita come una comunione di persone che, conservando le loro specificità, si accolgono senza alcun calcolo, sembra di poter dire che essa si fondi, in ultima analisi, sul perdono. L’attuale sensibilità per la giustizia può far correre all’uomo il rischio di non percepire le esigenze della misericordia e della gratuità. Il perdono, giudicato come dipendente da un’ossessione del passato, sembra ostacolare la libertà necessaria alla lotta politica: la riconciliazione, pensata soprattutto nell’orizzonte e nella prospettiva della proiezione nel futuro, finisce per svalutare il perdono, non sapendo come collocarlo e quale significato riconoscergli, non riuscendo soprattutto a coglierne la portata sociale. «Immaginare una riconciliazione senza perdono – scrive C. Duquoc – significa o definirla attraverso il trionfo di un’ideologia o attraverso lo sterminio di coloro che si fronteggiano. Ciò che nella nostra storia si deve riconciliare, non sono né dottrine né ideologie né opposizioni obiettive tra classi, ma uomini».[11]

L’atto del perdono riveste una grande funzione sociale e religiosa: rompe la logica del male, frantuma il cerchio del diritto nel quale rischiano di chiudersi la giustizia e la riconciliazione, introduce un principio nuovo e creatore. Perdonare diventa allora una virtù stimolante, tanto difficile quanto confortante, tanto encomiabile quanto necessaria. Perdonare non è un gesto di routine diffusa, non è costume di tutti i giorni: è più che altro un fiore nascosto, originale, che fiorisce ogni volta sul terreno del dolore e del superamento di sé; perdonare è il gesto che ci colloca – persino al di sopra di noi stessi, del nostro primo spontaneo istinto di vendetta – nel meglio del nostro essere.

Dinamica del perdono

Un approccio al tema del perdono non può prescindere da una disamina delle sue componenti antropologiche e psicologiche. Se da un lato il perdonare si condensa nel gesto unico di un momento, dall’altro esso è sempre il frutto di un itinerario, complesso e articolato, che coinvolge la persona umana nell’insieme delle sue dinamiche.  Se perdonare significa una vittoria sulle proprie paure, una strada per riappacificarsi con il passato e rendersi disponibili e aperti al presente, una via verso la libertà, è evidente che non può essere pensato che come un processo dinamico. Perdonare gli altri, ma anche se stessi, significa crescere, avere coraggio, amare. E’ un processo che implica un lungo lavoro di ripensamento, quasi un “ruminare”, una conversione del cuore, sia in chi perdona sia in colui che è perdonato. Come préalables au pardon occorrono il riconoscimento di una malvagità esterna a noi e la presa d’atto di una cattiveria che ci ha toccati e che chiede di essere riconosciuta. Riconoscere che il male ha un’origine, un volto, anche se spesso ciò comporta fatica, è condizione essenziale per avviare il processo del perdono.[12] Tale processo deve tener conto della tipologia delle offese (fisiche, psicologiche, intellettuali, morali, spirituali) e degli ostacoli da superare sia da parte dell’offeso che da parte dell’offensore. Si tratta di incontrare «l’enigma dell’offesa subita»[13], di decodificarlo, perché non sempre l’identificazione del perdonabile con il comprensibile, operata dall’intelligenza, conduce a una vera esperienza di perdono. Può accadere, infatti, che il tentativo di comprensione razionale, staccato dalla percezione dell’offesa come di un’offesa personale, ingiusta e profonda, possa condurre alla scusa, che non è perdono. In quanto atto intenzionale, il perdono non si verifica se non lo vogliamo, ed è una decisione che fa i conti anche con il rischio del rifiuto. Quando si perdona non si dimentica il male ricevuto, come se dimenticare fosse parte integrante del perdono allo stesso modo in cui le corde fanno parte di un violino. Se si dimentica, non si perdona affatto. Non si può perdonare qualcosa che si è dimenticato. Abbiamo invece bisogno di perdonare proprio perché non abbiamo dimenticato il male subito. Perdonare significa ricordare il passato per assimilarlo e farne parte della propria storia. Significa anche concretizzare una forma d’amore, un amore che accetta l’altro così com’è. Chi perdona si pone di fronte all’altro con un atteggiamento di compassione che deriva dalla consapevolezza delle proprie tendenze distruttive. Il perdono, così, include spesso anche il recupero di un rapporto sociale con l’offensore. L’accettazione mutua rende possibile la riconciliazione. Questa accettazione è basata sulla capacità di entrambe le parti di accogliere se stessi e il fatto del rapporto infranto. Esse hanno bisogno di riconoscere la serietà del distacco mentre, allo stesso tempo, rinunciano al desiderio di punizione e di autogiustificazione. Rompendo la logica immanente alle relazioni umane sottomesse al sistema di equivalenza della giustizia, il perdono trasforma la società umana dimostrando che non è possibile continuare a misurarsi su quanto è già stato fatto: occorre un gesto che innovi, un gesto creatore. Altrimenti si rimane chiusi entro la logica ripetitiva, e questa logica ha come termine l’esclusione o la morte di almeno uno dei due antagonisti. Il perdono rappresenta questa innovazione: crea uno spazio nel quale la logica immanente alle equivalenze giudiziarie non ha più corso. E’ un invito all’immaginazione. In effetti, l’equivalenza giuridica traccia la strada che si deve seguire. Il perdono, invece, cancella ogni traccia: bisogna avventurarsi da soli nell’incontro con l’altro. «Occhio per occhio» è riposante perché è l’atto predeterminato; ma se si rifiuta l’equivalenza, se si ritiene che un occhio particolare non potrà mai valere un altro occhio particolare; e che il danno fatto all’altro non compenserà mai la perdita del primo, che in questo modo ci sarà solo un accumulo di mali, bisogna allora che si inventi un atteggiamento che nessuna regola è in grado di precisare: occorre fare ricorso all’immaginazione e alla creatività. E’ la strada che si apre quando, esorcizzando l’imperativo della giustizia legale, ci si apre a una relazione diversa con colui al quale si perdona.

Perdonare non è facile: è un lavoro difficile, che richiede tutte le energie e il tempo di chi perdona. La non disponibilità a perdonare deriva da un egoismo umano fondamentale che impedisce la generosità del perdono, ma anche da ostacoli connessi alla forza di volontà della persona offesa – necessaria perché il suo desiderio di riconciliazione possa trasformarsi in una decisione seguita da effetti – o da quelli concernenti la natura delle ferite conseguenti all’offesa subita e inscritte nella memoria affettiva.[14]  Ci sono poi le difficoltà e gli ostacoli che incontra la persona in attesa di perdono. Se davanti alla vittima si apre l’alternativa vendetta o perdono, per l’aggressore l’offesa commessa può tradursi nell’esperienza del rimorso dove «…soffre senza nulla attendere e sprofonda passivamente nell’inferno dei suoi sterili rimpianti e del suo confinamento autoscopico» impendendo così al perdono di aprire «una breccia nel muro dell’intimità colpevole…».[15] La richiesta di perdono è un atto necessario nella dinamica del perdono, ma a volte non può realizzarsi per una serie di difficoltà riconducibili a due ordini: uno emotivo e psicologico, l’altro che oseremo chiamare metafisico. L’offensore non riesce a staccarsi da ciò che è stato commesso, perché lo mantiene in una falsa attualità: l’offesa ritorna nel presente sotto forma di un ricordo eventualmente doloroso o disonorevole. La seconda difficoltà nasce dall’intuizione, giusta, del carattere irreversibile del male commesso: rimarrà sempre il fatto che questo male è stato commesso. Siamo di fronte a «una sistematizzazione della percezione che il colpevole ha di sé: si sente impotente a entrare nel passato. Questa impotenza è l’impotenza del perdono umano che non può penetrare il nocciolo metafisico dell’atto compiuto, il fatto stesso che sia stato compiuto».[16] L’offensore sembra scoprire che il suo errore ha colpito più ampiamente del bersaglio mirato, che la sua offesa ha ferito, al di là della vittima, qualcosa della ricchezza dell’essere. Egli comincia – a poco a poco – a interpretare il suo errore come responsabilità di un impoverimento dell’esistente; che lo formuli chiaramente o che si trovi allo stadio della percezione confusa, il male commesso gli viene rivelato da questo perdono incompiuto nei suoi effetti: ferendo la sua vittima, egli ha toccato e ferito la dimensione assoluta, la posta assoluta inscritta in essa.

Perdono tra oblio e scusa

Perché il perdono possa essere colto nella sua vera realtà, occorre affrontare due questioni preliminari che possono aiutare a «purificarne» la nozione: non è perdono autentico, infatti, né l’oblio, il sem­plice dimenticare, né la scusa, il ritenere l’altro non con­sapevole dell’offesa compiuta. Si tratta di percorrere un itinerario che, conducendoci attraverso la memoria, ci porterà a incontrare l’altro, nel­la sua libertà e nella sua responsabilità.

3.1. Perdono, memoria, tempo

Entrare nella profondità del perdono implica accettare il prevalere della logica della sovrabbondanza che soggiace all’amore e al dono, rispetto alla logica dell’equivalenza che ispira la giustizia. Nel distinguere il tempo della redenzione e il tempo del­la giustizia, Lévinas, evidenzia come la riparazione, la compensazione rimandino al mondo mercantile del sala­rio, della ricompensa, dello scambio di un istante con­tro un altro istante, affermando: « Non basta che la lacrima sia asciugata o la morte vendicata: nessuna lacrima deve andare perduta, nessuna morte privata di risurrezione […]. La retribuzione nell’avvenire non esaurisce le pene del presente. Non c’è giu­stizia che possa ripararla. Bisognerebbe poter tornare in quell’istante e poterlo risuscitare». [17]

«Lungi dall’essere una “ricapitolazione”, capace di in­tegrare nello scambio ciò che lo supera, di mantenere e aumentare lo scambio, questa “redenzione” sarebbe […] una “perdita”».[18] Una perdita che libera la memoria vi­vente di fatti inutili o dannosi. Al perdono, infatti, appartengono sia il ricordare che il di­menticare; per quanto apparentemente inconciliabili, re­stano due figure necessarie per fare e disfare il mondo: «Non c’è umanità dove non c’è memoria […], (essa è) la casa, l’ethos dove l’umanità elegge il suo domici­lio».[19]

Ma a quale memoria e a quale oblio deve far riferimen­to l’esperienza del perdono? «Il perdono – scrive P.Ricoeur – è anzitutto il contrario dell’oblio passivo, tanto nella sua forma traumatica quanto in quella astuta dell’oblio di fuga. Sotto questo aspetto esso richiede un sovrappiù di “lavoro di memoria”».[20] Il vero perdono implica la memoria e questa in un du­plice significato. Innanzitutto, nel senso che esso è un at­to positivo grazie al quale la vittima ricorda il male ri­cevuto e decide di non tenerne conto nelle sue relazio­ni con il colpevole. E’ necessario ricordare la colpa per perdonarla e trascenderla. Chi non ricorda, infatti, non potrà porre il gesto autentico del perdono. Inoltre, la memoria su cui si fonda il perdono non è solamente quella della colpa, ma anche quella della fe­deltà. Il tempo è oblio ma è anche memoria e attaccamento al passato. Spesso il tempo viene invocato come medicina doloris, agendo come sedativo e analgesico: la morfina del tempo attenua i vecchi dolori e addormenta i vecchi di­spiaceri. Ma esso non può essere invocato come forma del perdono, anzi ne diventa una caricatura, presentan­dosi sotto forme diverse e non sempre facilmente indi­viduabili.

3.2. Perdono e oblio[21]

Possono dunque l’oblio, l’usura del tempo equivalere al per­dono? Possono prenderne il posto? Può il tempo essere equiparato al perdono? Il tempo che sbiadisce tutti i colori e offusca lo splendore delle emozioni; che smorza la gioia come consola la pena, so­pisce la gratitudine come disarma il rancore? Non è for­se vero che, se asciuga le nostre lacrime, spegne anche la fiamma della passione, insabbia l’amore e fossilizza l’entusiasmo?[22] Non è forse il tempo la radice dell’usura del ricordo? Il tempo che corrode le catene dei monti e leviga i ciottoli sulle spiagge; che livella ogni asperità e consola ogni pena; che lenisce e cicatrizza? Apparendo come il luogo in cui il passato è sempre meno vivo, co­me infallibile consolatore e irresistibile pacificatore, il tempo lancia il messaggio secondo cui il futuro ha sem­pre l’ultima parola. Il passato, che persiste in noi sotto forma di ricordo, viene infatti lentamente surrogato dal divenire incessante con la sua novità, provocandone un indebolimento. L’in­sorgere dell’oblio non è comunque proporzionale all’antichità del ricordo e alla lunghezza dell’intervallo di tempo trascorso; non è vero che a ogni frazione di tem­po corrisponde un’attenuazione proporzionale del ran­core; poiché la qualità, il senso e l’intenzione non si fra­zionano e restano pertanto incommensurabili quanto al tempo trascorso o al cammino percorso. L’usura temporale non può giustificare il perdono.[23] Es­sa, infatti, impedisce l’atto stesso del perdono, la sua realizzazione, riducendolo a un’amnesia. L’usura compie la sua opera interminabilmente, a mano a mano che il ri­cordo si allontana nella nebbia del passato, a mano a ma­no che la vecchia infrazione sfuma all’orizzonte, passando attraverso tutte le gradazioni di una attenuazione scala­re. La continuità temporale rosicchia e consuma giorno per giorno la sostanza del ricordo. Se, dunque, nel perdono vogliamo parlare di oblio, è a una sorta di oblio attivo che dobbiamo pensare. Questo, però, non verte sugli avvenimenti in se stessi la cui traccia – come avverte Ricoeur – deve essere accuratamente protetta, bensì «sulla colpa, il cui peso paralizza la memoria e, per estensione, la capacità di proiettarsi nel futuro. L’oggetto di oblio non è l’avvenimento del passato, l’atto criminale, ma il suo senso e il suo posto nell’intera dialettica storica».[24]

 3.4.  Integrazione

L’usura, che è un annichilimento ritardato, può pren­dere anche un’altra forma: raramente il passato scom­pare senza lasciare tracce; opera del tempo è anche in­tegrare l’avvenimento occasionale; esso esce da uno sta­to di latenza e diviene un elemento integrante e una com­ponente segreta del nostro presente. Se l’usura è una semplice attenuazione fisica e passi­va, l’assimilazione, l’adattamento e l’integrazione sono proprietà vitali. La colpa commessa, l’offesa subita pos­sono diventare, una volta assimilate, invisibili ingredienti della nostra esperienza di vita. Il figlio prodigo, penti­to, avendo concluso il circuito delle avventure e delle tri­bolazioni, rientrato in casa, non ha apparentemente nes­sun elemento di differenziazione con il figlio rimasto in casa e, tuttavia, lo distingue per sempre un non so che d’invisibile. Quello che è tornato e quello che non è mai partito non sono al medesimo punto, bensì vengono se­parati da un indelebile passato. Nemmeno l’idea d’integrazione, cioè di una sintesi, equivale al perdono. L’uomo dimentico, sul quale l’of­fesa scivola senza lasciar traccia, non sa nemmeno che cosa deve perdonare; colui che porta rancore, che conserva astio­samente il ricordo del male, sa cosa deve perdonare e a chi, ma non vuole farlo. La sintesi captatrice e annessionista non è aperta sull’altro; qui si tratta solo del proprio io e del proprio pro­fitto. Essa resta, in fin dei conti, una sorta di mediazione, che ha come risultato finale impoverimento piuttosto che arricchimento; al suo fondo resta una traccia, una minuscola cicatrice, una modificazione irreversibile che impedisce la restaurazione dello status quo. L’offeso è costretto a una sorta di digestione laboriosa e difficol­tosa; alla fine giungerà a vivere come se l’ingiuria non fosse avvenuta, ma non fa che questa non abbia mai avu­to luogo; ne attenua il ricordo senza annullarne l’ef­fettività. L’integrazione resta un rancore nascosto, o meglio, un rancore infinitesimale, irrintracciabile e quasi impossi­bile a svelare, perduto nella massa del presente. Queste tracce trascurabili sono sufficienti tuttavia a fare del per­dono un perdono approssimativo e una liquidazione in­completa. Ecco l’impalpabile risentimento che gli uomini chiamano in genere perdono. Perdona veramente l’of­feso chi non sacrifica totalmente il proprio rancore e non fa totale offerta della propria vendetta, chi non rinun­cia senza riserve al suo diritto? Rimettersi all’usura o al passare degli anni significa an­negare l’istante improvviso ed eludere la discontinuità della conversione che il perdono inaugura. Certo, quan­do il perdono viene rifiutato, il tempo compie, molto len­tamente e molto approssimativamente, ciò che l’offeso non è abbastanza generoso per fare; ma, inversamente, il perdono fa, in una volta e in un batter d’occhio, ciò che il tempo puro e crudo impiegherebbe anni a com­piere e, probabilmente, a lasciare incompiuto. Il tempo bruto non possiede in alcun modo – come il perdono – il potere di convertire e di trasfigurare: la per­sona in lutto, consolata dalla sola antichità del suo vec­chio dolore, non ha cambiato la sua tristezza in gioia né trovato ragioni positive per essere lieta; la prima emo­zione si è raffreddata, disseccata, corrosa, per effetto del tempo e dell’abitudine; si è semplicemente inaridita la sorgente delle lacrime. E similmente, l’emozione dell’ira, eternizzata dal ri­sentimento cronico, non si cambia a poco a poco in slan­cio d’amore; il rancore è semplicemente diventato, nel tempo, un automatismo senza convinzione. L’oblio ha so­lamente diluito l’ostilità in indifferenza, non l’ha tra­sformata in amore né convertita nell’amore. Anche se assottigliano il rancore fino all’estremo li­mite della tenuità, l’usura e l’integrazione non segnano mai l’avvento di un’era nuova, non fondano mai un or­dine nuovo; sono incapaci di inaugurare relazioni posi­tive fra offeso e offensore intimamente riconciliati. Il tempo continuo e immanente dell’evoluzione, dell’incubazione e della maturazione non ha niente in co­mune con l’atto di perdonare.

Il perdono è perdono solo in quanto può essere li­beramente rifiutato o gratuitamente concesso, prima della scadenza e senza nessuna considerazione dei ter­mini legali. Un’assoluzione che interviene automatica­mente, ineluttabilmente, quando è giunta la scadenza, è forse un perdono? No, un perdono fatale non è un perdono perché non è un dono, o meglio, è un dono che non dona niente; e, inoltre, non dona niente a nessuno. L’oblio – a differenza del perdono – nega qualsiasi rap­porto con l’altro: l’uomo dimentica, infatti, una volta smesso di avercela con l’offensore, rompe ogni relazio­ne con lui. Il perdono è un’intenzione e quest’intenzio­ne è diretta verso l’altro, si rivolge a un peccatore da as­solvere e con cui ristabilire relazioni.

3.5. Scusa

Se l’oblio, l’usura e l’integrazione invitano a riconci­liarsi con la storia affidando al lento fluire del tempo il compito di lenire le offese, la scusa fonda il suo esiste­re sulla negazione stessa del peccato. Il perdono in tal caso si ri­duce alla semplice constatazione che non c’è mai stata offesa e che l’idea di una malvagità radicale è un miraggio completamente illusorio: «perdonare dunque è paradossalmente riconoscere che non c’è niente da perdonare. L’ostacolo chiamato colpa era la condizione contraddittoria del perdono: volatilizzando l’ostacolo si sopprime lo stesso perdono […]».[25] Questo tentativo di vanificare l’esistenza del pecca­to e, più in generale, del male è antico quanto la ri­flessione filosofica; Socrate lo pensava quando affer­mava che «nulla è malvagio volontariamente», ridu­cendo, così, anche l’errore dell’atto a un difetto di ra­gionamento.[26] Egli non credeva alla malvagità, ma a uno stordimento del colpevole, dovuto al suo carat­tere superficiale. Con ironia A. Abecassis commenta: «Oggi egli direbbe che il nazista era più ignorante che mal­vagio. Apporterà come prova le qualità familiari di colo­ro che inviavano nel campo dell’inferno intere famiglie (…) aggiungerebbe ancora che essi non meritano la prigione ma la scuola, che insegnerebbe loro a pensare correttamente».[27]

In tale visione il peccatore, in realtà, è soltanto un sog­getto che opera una sorta di confusione, ritenendo, per ignoranza, bene ciò che in realtà è male, rendendosi in tal modo responsabile di un’azione irreparabile. Malva­gio è, invece, colui che, pur conoscendo il male in quan­to tale, opera per esso una scelta consapevole. Solo una persona malata – ci si affretta a sottolineare – potrebbe fare una scelta di questo tipo. L’essere umano ama il be­ne e vuole il bene. Solo l’ignoranza può fornire la solu­zione di questo dilemma. La scusa, dunque, non è equiparabile al perdono vero; es­sa non riunisce in se stessa i caratteri distintivi del per­dono. La scusa, infatti, non è né un avvenimento, né un rapporto personale con l’altro, né tanto meno un dono gratuito. Essa non conosce l’istante improvvi­so del perdono, è frutto di uno sforzo dell’intelletto, di un processo, forse laborioso, che l’istante del perdono, invece, esclude. D’altro canto, il partner del perdono è, per così dire, inesistente: «Il colpevole non è colpevole, dal momento che la sua colpevolezza è il mito di un’immaginazio­ne accesa, ma solo malato e insensato; di qui ad amar­lo c’è un abisso…».[28] La scusa – che è liquidazione dell’offesa in nome di una verità – è ben più facile, meno dolorosa, meno co­stosa del sacrificio straziante chiamato perdono: «Co­stoso per l’amor proprio e per l’interesse proprio, cru­dele per l’onore e per la dignità stessa di colui che per­dona, il perdono esclude ogni compensazione e ogni con­tropartita, e in ciò è sacrificio».[29] Infine, la scusa intellettiva, non essendo né un avve­nimento né un rapporto con l’altro, non è nemmeno un gesto gratuito. Riconoscere il niente del peccato non vuol dire fare un dono né fare un’elemosina a un peccatore, in quanto non esistono peccatori; si tratta semplicemente di riconoscere la verità; «assolvere l’ignorante o il ma­lato non vuol dire graziarlo, giacché egli non ha nessun bisogno della nostra grazia e non sa che farsene della no­stra carità; vuol dire semplicemente rendergli giustizia».[30]

Conclusione

Messi in guardia contro ogni forma spuria di perdono, resta solo da guardare a esso come a un rapporto interpersonale, segnato dall’incertezza e dal rischio, capace di inaugurare l’era della riconciliazione, un incipit vita nova, un accogliere l’altro nella consapevolezza che chi ci è dinanzi è e resta un colpevole. Ciò che è cambiato «è il punto di vista delle mie relazioni (…) e tutto l’orientamento dei nostri rapporti è invertito, rovesciato, messo sottosopra (…). Il perdono o è totale o non c’è! ».[31] Senza dimenticare o anestetizzare il male, il perdono diventa impegno per permettere all’irreversibilità e alla morte di fare spazio alla nascita e alla possibilità che tutto riesca a ricominciare.. perché non si è ancora fatta sera sul mondo!

 

 

 

 

[1]  C. Duquoc, «Il perdono di Dio», in Concilium, 2/1986, 224.

[2] Cf. M.Hubaut, Il perdono. Dimensioni umane e spirituali, EDB, Bologna 2013; A.Kothgasser-C.Sedmak, Donare e perdonare. L’arte di ricominciare, Messaggero, Padova 2010; J. Muller, L’arte del perdono. Come si possono guarire le ferite dell’anima, Messaggero, Padova 2009.

[3]  Tra gli autori ricordiamo: E.Wiesel; S.Wiesenthal; A.Neher.

[4] Cf. V.Jankélévitch, Il perdono, IPL, Milano 1968; Id, Perdonare?, Giuntina, Firenze 1987.

[5] Cf. A.Harendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1966.

[6] Cf. P.Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003; Id., Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004; Id., «Il perdono difficile», in Protestantesimo, 51 (1996) 306-312; Id.,«Les difficultés du pardon», in Bulletin de littérature ecclésiastique, 101 (2000), 199-214.

[7] E.Lévinas, Quattro letture talmudiche, Il Melangolo, Genova 1982.

[8] Nella sua concezione della polis H.Arendt attribuisce un valore “politico” al perdono in quanto ha la proprietà di portare alla luce una nuova logica di convivenza, centrata sulla pluralità come dato costitutivo della condizione umana. Un esempio di uso “politico” del perdono è, secondo l’autrice, quello predicato da Gesù di Nazareth e dalle prime comunità cristiane. Scrive, infatti, a tale proposito: «A scoprire il ruolo del perdono nel dominio degli affari umani fu Gesù di Nazareth. Il fatto che abbia compiuto questa scoperta in un contesto religioso e l’abbia articolato in un linguaggio religioso non è una ragione per prenderla meno sul serio in un senso strettamente profano. La nostra tradizione di pensiero politico è stata per sua natura altamente selettiva e ha escluso nelle sue articolazioni concettuali una grande varietà di esperienze politiche autentiche […]. Certi aspetti dell’insegnamento di Gesù di Nazareth […] sono certamente esperienze di questo tipo, anche se sono state trascurate per la loro pretesa natura esclusivamente religiosa» (H.Arendt, Vita activa, cit. 176)

[9] R.Mancini, Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella, Assisi 1996, 146.

[10] cf. A. Mastantuono, La profezia straniera. Il perdono in alcune figure della filosofia contemporanea, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002.

[11] C. Duquoc, «Riconciliazione reale e riconciliazione sacramentale», in Concilium, 1/1971, 51.

[12] Cf.M.-Th Nadeau, Pardonner l’impardonnable, Médiaspaul, Montreal 1998, 9-18; 29-37.

[13] J.Laffitte, Il perdono trasfigurato, EDB, Bologna 2000, 68.

[14] Cf. Ivi, 107-113

[15] V.Jankélévitch, Il perdono, cit., 216.

[16]  J.Laffitte, Il perdono trasfigurato, cit., 117.

[17] E. Lévinas, De l’Existence à l’existant, Fontaine, Paris 1947, pp. 153-157, cit. in O. Abel, «Tables du pardon», in Aa.Vv., Le pardon. Briser la dette et l’oubli, Edition Autrement, Paris 1991, 232.

[18] O. Abel, «Tables du pardon», cit., 232.

[19] T. Laubach, «Les récits des survivants de l’Holocauste», in Revue d’étique et de théologie morale, «Le Supplément», 210, 1999, 49.

[20] P.Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004, 110.

[21] Per una ricostruzione storica, attraverso la storia della letteratura, della figura dell’oblio, cfr. H. weinrich, Lete. Arte e critica dell’oblio, Il Mulino, Bologna 1999.

[22] È interessante notare, in proposito, come il termine scordare, utilizzato nella lingua italiana quale sinonimo di dimenticare, significa perdere dal cuore; nella psi­cologia antica, infatti, il cuore era considerato la sede della memoria. Cfr. H. Weinrich, Lete, cit., 9.

[23] Cfr. V. Jankélévitch, Il perdono, cit., 50.

[24] P.Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., 110.

[25] V. Jankelevitch, Il perdono, cit., 9, 5.

[26]Cfr. A. Michel, «Le pardon dans l’antiquité. De Platon à Saint Augustin», in
Aa.Vv, Le pardon. Le Point Théologique-Beauchesne, Paris 1991, 49-60.

[27] A. abecassis, «L’acte de la mémoire», in Aa.Vv., Le pardon. Briser la dette et l’oubli, cit., 145.

[28] V Jankélévitch, II perdono, cit., 99.

[29] Ivi, 100.

[30] Ivi, 102.

[31] Ivi, 218.