Fortunato Ammendolia – informatico, studioso di pastorale digitale, intelligenza artificiale ed etica, docente invitato in istituzioni accademiche
Il World Economic Forum nella pubblicazione Future of Jobs 2020[1] aveva già evidenziato la necessità per il 50% della forza lavoro di dover adeguare, entro il 2025, le proprie competenze alle evidenti trasformazioni del mercato per effetto delle tecnologie digitali; trasformazioni, d’altronde, fortemente accelerate nel lockdown per la pandemia da SARS-CoV-2. Per affrontare in modo corretto la questione del lavoro dinanzi alla digital disruption, ovvero a quei radicali cambiamenti nell’industria – e più largamente nel mercato – dovuti all’innovazione tecnologica, occorre adoperarsi perché una nuova mentalità, quella di una necessaria continua formazione, sia acquisita. Si tratta, quindi, di divenire vigili e proattivi, aperti a una formazione permanente secondo il lifelong learning (LLL), sfida culturale per rimanere connessi con la realtà; una formazione permanente che, secondo l’UNESCO, va intesa come valore pubblico e privato, nonché come un nuovo diritto umano.[2] In questo scenario, s’impongono due differenti processi di formazione professionale, identificati rispettivamente dalle parole chiave reskilling e upskilling. La differenza tra questi due processi è nell’obiettivo che si propongono: il reskilling mira a far acquisire nuove competenze in vista di un cambio di mansione; l’upskilling, invece, al miglioramento della perfomance per continuare nell’esercizio della propria mansione.
La traduzione letterale del termine reskilling, «riqualificazione delle competenze», ne dice il significato in modo infelice. In ambito di risorse umane, infatti, il termine identifica un processo strategico di acquisizione o sviluppo di competenze completamente nuove da parte di una persona, per affrontare sfide professionali differenti rispetto a quanto fatto in precedenza. Si tratta di un concetto rilevante per questo cambiamento d’epoca in cui l’automazione dei processi, l’intelligenza artificiale e altre tecnologie digitali impongono una trasformazione del panorama lavorativo in sempre più ambiti, rendendo obsolete alcune professioni e perorandone nuove. Il reskilling è quindi un processo che valorizza i dipendenti dell’azienda mediante percorsi di formazione in linea con i nuovi obiettivi aziendali,[3] andando a riempire le posizioni vacanti attingendo alle risorse già inserite in azienda prima ancora di assumerne di nuove. Un percorso di reskilling ben progettato consentirà quindi a un’azienda di risparmiare e rinnovarsi a partire dalle risorse che già possiede, ricollocandosi sul mercato in modo competitivo. Inoltre, l’investimento dimostrato nei confronti dei dipendenti si tradurrà da parte di questi in maggiore fidelizzazione. Di fatto, la riqualificazione e l’assegnazione a una nuova mansione, faranno sentire il dipendente «non superato», valorizzato, con ricadute benefiche sulle motivazioni e sull’attaccamento all’azienda.
Il termine upskilling, ben reso in italiano dall’espressione «miglioramento delle competenze», è un processo strategico che permette ai lavoratori di aggiornarsi apprendendo nuove conoscenze e abilità per svolgere meglio il proprio lavoro, migliorando così in termini di performance. In questo modo viene stimolata la capacità professionale, migliorata la flessibilità e l’adattabilità, promossa l’autorealizzazione e la sicurezza in sé, aumentata la produttività. L’upskilling, pertanto, permette al lavoratore di essere al passo con i tempi e a un’azienda di avere una forza lavoro altamente qualificata e motivata. Chiaramente, anche per l’upskilling vanno previsti dei percorsi mirati in base alle esigenze specifiche di ogni azienda, al settore in cui opera e, in particolare, agli obiettivi che essa si è data.
Al di là della specifica scelta aziendale e dei processi formativi da attivare, sia il reskilling che l’upskilling, nell’era delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione dovranno attivare processi di sempre maggiore immersione nel digitale. Per una formazione onlife, ci si potrà avvalere anche della realtà aumentata[4] e di quella virtuale.[5]
Competitività con l’intelligenza artificiale, nel solco legislativo europeo
Dinanzi al tema dell’intelligenza artificiale è interessante doveroso ricordare che qualche interessante osservazione sulle prospettive lavorative può maturare alla luce del regolamento UE 2024/1689 (13 giugno 2024), meglio noto come IA Act. Esso stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale, con lo scopo di migliorare il funzionamento del mercato interno istituendo un quadro giuridico uniforme, in particolare per quanto riguarda lo sviluppo, l’immissione sul mercato, la messa in servizio e l’uso di sistemi di intelligenza artificiale nell’Unione – in conformità dei valori dell’Unione –, nonché di promuovere la diffusione di un’intelligenza artificiale antropocentrica e affidabile. Alla questione dell’autonomia della machina sapiens, il regolamento risponde con un approccio risk based, classificando i sistemi di IA secondo quattro livelli rischio: rischio inaccettabile, rischio elevato, rischio limitato e rischio minino o nullo. Nel commento ufficiale all’articolo 14 si legge: «I sistemi di intelligenza artificiale ad alto rischio devono essere progettati in modo tale da consentire agli esseri umani di supervisionarli efficacemente. L’obiettivo del controllo umano è prevenire o ridurre al minimo i rischi per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali che potrebbero derivare dall’utilizzo di questi sistemi. Le misure di supervisione dovrebbero corrispondere ai rischi e al contesto di utilizzo del sistema di IA. Queste misure potrebbero essere integrate nel sistema dal fornitore o implementate dall’utente. Il sistema di IA dovrebbe essere fornito in modo da consentire al supervisore di comprenderne le capacità e i limiti, rilevare e affrontare i problemi, evitare un’eccessiva dipendenza dal sistema, interpretarne l’output, decidere di non utilizzarlo o interromperne il funzionamento. Per alcuni sistemi di IA ad alto rischio, qualsiasi azione o decisione basata sull’identificazione del sistema deve essere verificata da almeno due persone competenti».[6]
Con l’intelligenza del cuore
Siamo all’alba di una nuova era lavorativa. Lo scenario tracciato fa comprendere che è tempo di impegnarsi e attivare nuove prassi sul territorio, sensibilizzando sia i giovani, futuri lavoratori e imprenditori, sia i lavoratori e gli imprenditori d’oggi, coinvolgendo competenze specifiche, confrontandosi con quanto di buono è già in opera. In un contesto dove la tecnica diviene sempre più ambiente, occorre sicuramente tenere alta la norma umana. Si tratta di rigenerare il concetto di lavoro, condurlo cioè al suo punto più elevato, perché esso possa generare bellezza.
Significative le parole rivolte da Francesco il 17 dicembre 2024 ai partecipanti alla terza edizione di «Labordì»: «Ascoltando il grido della terra, dell’aria, dell’acqua, che un modello sbagliato di sviluppo ha tanto ferito, ho compreso meglio una realtà […]: nel creato “tutto è connesso” […] Per la Bibbia il cuore è il luogo delle decisioni. Lì nascono le aspirazioni, lì sorgono i sogni, lì si fanno sentire le resistenze, lì si insinuano le pigrizie. […] Carissimi, nel mondo del lavoro si entra insieme. Non ciascuno per conto suo: diventeremmo rapidamente ingranaggi di una macchina e chi ha potere potrebbe fare di noi qualunque cosa. […]. E quando il lavoro viene organizzato senza cuore, allora è in pericolo la dignità umana di chi lavora, o non trova lavoro, o si adatta a un lavoro indegno. Oggi è l’economia stessa ad accorgersi che il saper fare non basta, che le prestazioni non sono tutto. A questo basteranno sempre più le macchine. Umana, invece, è l’intelligenza del cuore, la ragione che sente le ragioni altrui, l’immaginazione che crea ciò che ancora non è, la fantasia per cui Dio ci ha resi tutti diversi […] Il cuore umano sa sperare. Il lavoro che non aliena, ma libera, comincia dal cuore».
L’intero articolo su Orientamenti Pastorali 12 (2024), EDB. Tutti i diritti riservati.
[1] https://www3.weforum.org/docs/WEF_Future_of_Jobs_2020.pdf (ultima consultazione: 30 dicembre 2024).
[2] Cf. Unesco Institute for Lifelong Learning (UIL), Embracing a culture of lifelong learning: contribution to the Futures of Education initiative. Report. A transdisciplinary expert consultation, Hamburg, Germany 2020, pp. 52.
https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000374112 (ultima consultazione: 30 dicembre 2024).
[3] «Per essere efficace, un processo di gestione del cambiamento va disegnato dall’inizio alla sua conclusione, per avere una visione complessiva delle attività da portare a compimento, e per sviluppare un piano efficace ma al contempo realistico da concretizzare e sostenibile sia operativamente che economicamente». Come afferma Elisabetta Del Mare, senior manager sul fronte del change management e gestione delle risorse umane, «fare cambiamento in azienda significa attivare un processo di azioni trasversali, pianificate e sinergiche, in grado di modificare cultura e comportamenti da vigenti ad auspicati, funzionali per il raggiungimento degli obiettivi strategici. L’insieme di aspettative, valori, prassi, tradizioni, riti, miti, stili di vita e di lavoro sono la cultura di un’impresa e il change management risponde alla necessità delle aziende di attivare una trasformazione originata dalle spinte di un mercato in continua evoluzione, che richiede una costante capacità di innovare vision, strategia, modelli di business e prodotti».
[4] La realtà aumentata consente di sovrapporre informazioni multimediali a ciò che del mondo fisico si sta guardando attraverso un dispositivo dotato di telecamera.
[5] La realtà virtuale presuppone la creazione di un mondo parallelo completamente simulato, in cui la persona può essere calata attraverso un visore connesso al computer.
[6] https://artificialintelligenceact.eu/article/14/ (ultima consultazione: 30 dicembre 2024).