1.   A partire dal contesto culturale ed ecclesiale attuale

Nel periodo in cui viviamo, ci stiamo misurando con una crisi che non è solo economica, ma che investe diversi aspetti della vita dell’uomo: è il risultato di una concezione liberista non soltanto dell’economia, ma anche della società.

Il benessere materiale, la competizione e l’individualismo, sono diventati i nuovi idoli e l’obiettivo di riferimento totalizzante. Nel cercare un livello di vita migliore, si aspira a stili di vita che non rispondano tanto alla realizzazione della persona, quanto al bisogno di riconoscimento sociale e di identificazione con l’immagine prodotta dalla cultura dominante, mentre i valori spirituali e culturali non vengono per nulla considerati. La post-modernità, che ha prodotto una «società liquida», ha abbandonato la comunità per l’individualismo, convinta che il cambiamento è l’unica dimensione permanente e che l’incertezza è l’unica certezza.

Pertanto, la realtà nelle sue manifestazioni più diffuse, persino nei fenomeni considerati più effimeri (la trasformazione del corpo, i tatuaggi, la chirurgia estetica, le dinamiche dell’aggressività, il fenomeno del bullismo, le trasformazioni sessuali), si impone con forza e ci interpella direttamente come operatori pastorali.

Inoltre, la nostra società è diventata multietnica e multiculturale, con i problemi, ma anche con le opportunità che questo comporta; infatti, se da un lato c’è difficoltà nell’accettare il diverso e preoccupazione per la propria sicurezza, dall’altro può esserci un’opportunità per recuperare la propria identità e arricchire la propria cultura.

Ancora, si assiste alla crisi della famiglia, che diventa sempre più instabile e incapace di dare punti di riferimento significativi e di educare a valori condivisi, anche perché manca un orizzonte comune di valori, a causa di una dittatura del relativismo anche negli ambienti cristiani. Di conseguenza, il pensiero debole che caratterizza il nostro tempo si traduce in un pluralismo interpretativo e comportamentale, da cui anche diversi cristiani non sono esenti. L’instabilità corrente si traduce, a livello esistenziale, in una crisi della progettualità: senza fondamenti valoriali solidi, non ci si sente motivati a progettare a lungo termine e ci si accontenta di orizzonti limitati nel tempo ma anche nella qualità.

Si cercano emozioni forti ma di breve durata, che diano un godimento momentaneo; si ricerca il «tutto-subito» col minimo sforzo, evitando ogni fatica, al prezzo però di identità e personalità fragili. Si privilegia l’emotività, a scapito della responsabilità e le relazioni interpersonali vengono gestite pensando alla persona in modo strumentale e utilitaristico: e una persona vale nella misura in cui è utile.

A tutto questo, c’è da aggiungere che si sta vivendo anche una crisi della comunicazione; a fronte di uno sviluppo crescente della rete informatica sempre più sofisticata e virtuale, corrisponde la superficialità e l’anonimato della comunicazione stessa, che porta di fatto all’annullamento delle relazioni interpersonali vere, favorendo l’individualismo e l’isolamento.

Questo scenario culturale mette in crisi anche la fede, che si vuole relegare sempre più nella sfera del privato, escludendola dalla vita sociale e politica in quanto considerata rischiosa: si ritiene infatti che istighi al fondamentalismo e all’intolleranza. Si accetta la religione quando legittima valori utili per la coesione civile, o quando interviene curando le piaghe sociali con interventi assistenziali.

Riguardo all’appartenenza ecclesiale, si nota una certa incoerenza di atteggiamenti: se da un lato si sente il bisogno di religiosità, dall’altro i comportamenti effettivi divergono dalle esigenze di fede, all’insegna di un soggettivismo che stabilisce il bene e il male e, riguardo agli insegnamenti etici della Chiesa, vengono assunti quelli ritenuti validi secondo il proprio criterio. Come anche è frequente che ciascuno selezioni nella propria esperienza di fede alcune verità, alcuni valori e alcuni insegnamenti, ignorando quelli che meno aggradano. Di contro, molti credenti vivono la difficoltà di una testimonianza cristiana in contesti estranei alla fede, trovando scarso sostegno nelle comunità di appartenenza.

Proprio in questo contesto di scontri, di muri, di punti di vista che anziché unire ci dividono e ci contrappongono progressivamente, è ancora più urgente far crescere la cultura dell’incontro, della relazione interpersonale, dell’accompagnamento, e la pastorale non può sottrarsi dal confrontarsi con questa realtà complessa e frammentata, con la cultura post-moderna in generale, in cui i cambiamenti molteplici e rapidi sono la cifra che la contraddistingue.

 

2. Una conversione pastorale nella dimensione della cultura dell’incontro e della relazione

Nello scenario complesso sopra accennato, ma che può offrire opportunità di consolidamento e di crescita dell’identità cristiana, la sfida e il compito della pastorale sta nel puntare all’obiettivo dell’incontro di Dio con l’uomo, realizzato nella forma più alta e coinvolgente dell’incarnazione. Da tale incontro, è necessario recuperare una dimensione antropologica e promuovere un insieme di legami che contribuiscano a rinnovare il tessuto relazionale, sociale e culturale di oggi.

Negli ultimi decenni le indicazioni del magistero, e attualmente l’insegnamento e i gesti concreti di papa Francesco, ce ne danno un esempio generoso e coraggioso. Si tratta di recuperare, enucleare e rilanciare questo patrimonio, necessario per attuare una vera conversione pastorale all’insegna dell’incontro e della relazione interpersonale.

In effetti, è stata questa una necessità avvertita dai nostri vescovi fin dagli anni novanta, quando si è iniziato a parlare di «nuova evangelizzazione». Esattamente in Evangelizzazione e testimonianza della carità, si intendeva come «nuova evangelizzazione» «l’accompagnare chi viene toccato dalla testimonianza dell’amore a percorrere l’itinerario che conduce, non arbitrariamente ma per la logica interna dello stesso amore cristiano, alla confessione esplicita della fede e dell’appartenenza piena alla Chiesa […] il ricordare che il centro del vangelo è l’amore di Dio per l’uomo, annunciato, spiegato e sperimentato e, in risposta, l’amore dell’uomo per i fratelli ».[1]

Anche al Convegno ecclesiale di Palermo nel ’95, i vescovi avevano sottolineato che in una situazione di pluralismo culturale, la pastorale deve saper andare oltre i luoghi e i tempi dedicati al «sacro» e raggiungere i luoghi e i tempi della vita relazionale ordinaria: famiglia, scuola, comunicazione sociale, economia e lavoro, arte e spettacolo, sport e turismo, salute e malattia, emarginazione sociale.[2]

Inoltre, la nota pastorale pubblicata dopo il Convegno ecclesiale di Verona del 2006, «Rigenerati per una speranza viva: testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo», auspicava una pastorale capace di convergere sull’unità della persona, capace di rinnovarsi nel segno della speranza integrale, dell’attenzione alla vita, dell’unità tra le diverse vocazioni.[3] Venivano anche indicate le prospettive verso cui puntare: la centralità della persona e della vita, la qualità delle relazioni all’interno delle comunità, le forme della corresponsabilità tra le diverse soggettività e realtà ecclesiali.[4]

Infatti, l’uomo di oggi che vive in una cultura frammentata e dispersiva, ha fortemente bisogno di sperimentare la bellezza dell’incontro, del dialogo fraterno e della relazione. La promozione di relazioni vere e mature, capaci di ascolto e reciprocità, che mostrano come essere discepoli di Cristo, non solo è possibile, ma arricchisce la propria umanità e dovrebbe riguardare ogni battezzato. Si tratta di dare testimonianza dell’amore di Dio che dall’ambito trinitario si è manifestato attraverso il Figlio che, entrando in una relazione di totale condivisione con l’uomo, ha fatto sua la condizione umana.

Giovanni Paolo II all’inizio del Novo millennio evidenziava come «fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione, è la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese del mondo».[5] Si tratta di due immagini molto evocative, che evidenziano la necessità di una pastorale improntata all’incontro con un clima caldo di accoglienza, tipico della casa; ma che sia anche capace di dar vita a luoghi dove ci si educa all’incontro e si apprende la bellezza della relazione. Di fronte a questa affermazione, sarebbe però sbagliato se il discorso si facesse immediatamente operativo, pensando di mettere in atto strategie e modalità pratiche, perché «prima di programmare iniziative concrete, occorre promuovere una spiritualità della comunione come principio educativo, in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo, il cristiano, i ministri dell’altare, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità» (NMI 43). A questo riguardo, Giovanni Paolo II esplicita in modo significativo cosa bisogna intendere per spiritualità della comunione: «Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto […]. Significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede come uno che mi appartiene, per saperne condividere le gioie e le sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper “far spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni gli altri” (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie» (NMI 43).

Dopo queste specificazioni, è interessante la conclusione a cui arriva Giovanni Paolo II: «Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino di spiritualità, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senza’anima, maschere di comunione» (NMI 43).

 

3. Alcune note sull’educazione all’incontro e alla relazione secondo gli Orientamenti pastorali della CEI Educare alla vita buona del vangelo per il decennio 2010-2020

L’educazione cristiana è il tema centrale di questi Orientamenti pastorali. Un’educazione che troppo spesso, anche in ambito ecclesiale, rischia di essere ridotta a didattica, a trasmissione di abilità tecniche, di competenze professionali o di aridi principi.

Questi Orientamenti insistono invece su un’idea di educazione che, radicandosi nella figura di Gesù maestro, ha quale meta esplicita la perfezione nella carità [6] e si caratterizza come:

  • atto d’amore e, in quanto tale, capacità di riconoscere la libertà come presupposto indispensabile per la crescita della persona;
  • considerazione integrale della persona umana, nella reciproca fecondazione tra sfera razionale e mondo affettivo, tra intelligenza e sensibilità, tra mente, cuore e spirito;
  • centralità della relazione come percorso (segnato da conflitti e riconciliazioni, perdite e ritrovamenti, tensioni e incontri), processo di crescita che avviene in tempi lunghi e con molta pazienza;
  • formazione di persone capaci di vivere la relazione in vista di cooperare al bene comune, di dare un senso alla propria vita e compiere scelte responsabili.[7]

L’incontro e la relazione avvengono all’interno di un processo educativo che interessa contemporaneamente il singolo e l’intera comunità. A questo riguardo, è emblematico il racconto dei discepoli di Emmaus dove Gesù si affianca ai due che camminavano tristi e l’incontro avvia una relazione che apre loro la mente e scalda il loro cuore (cf. Lc 24,213-35). Si tratta di un processo che richiede:

a.          Saper partire sempre dal dove si trova il singolo, disponibilità a un abbondante ascolto di chi si incontra, un’ampia osservazione e un appassionato accompagnamento: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui». L’esito è un cambiamento che porta a dire: «Resta con noi, perché si fa sera»; all’aprirsi degli occhi e a diventare testimoni di quanto sperimentato dentro l’incontro; a diventare pane di amicizia e vino di fraternità, per ogni fratello che incontriamo sul nostro cammino. Incontro e relazione sono particolarmente necessari quando si verificano momenti di depressione, di scoraggiamento, di regressione, di confusione, di conflittualità, di disorientamento, di rottura.

b.         Saper individuare con cura il passo possibile da compiere e da far compiere: alla bambina dodicenne Gesù chiede di partire dal mangiare (Mc 5,43); all’indemoniato guarito, che vuole stare con lui, Gesù lo manda dai suoi (Mc 5,19); al giovane ricco chiede il massimo: «Va, vendi, vieni e seguimi» (Mc 10,21). Ciò fa capire che all’interno dell’incontro servono proposte ricche di tenerezza, di coraggio, di accompagnamento, di compagnia.

c.          Saper considerare che l’incontro non è un fatto isolato, ma è dentro un percorso fatto di gesti, fatti e parole. Come nell’economia della rivelazione, che «avviene con eventi e parole intimamente connessi». [8]

Presupposto però importante di ogni incontro, è considerare che «se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori» (Sal 127), e che «io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1Cor 3,6). È Dio l’attore principale dell’incontro relazionale. E comunque ciò non esclude, anzi esige il lavoro dei costruttori e degli agricoltori. Dio svolge la parte essenziale mostrandosi Padre, iniziando il rapporto con noi attraverso il dono della vita, nella pazienza, nella forza con cui ci corregge e guida, nel dono che ci fa di suo Figlio. Su questo rapporto relazionale, gli Orientamenti tornano con insistenza, perché nella storia la Chiesa ha il compito di esplicitarlo con lo stile di Gesù maestro.[9]

 

4. Papa Francesco e la cultura dell’incontro

Nel nostro presente problematico e conflittuale, si delinea un tempo fecondo di rinnovamento per tutta la Chiesa, che papa Francesco ci sta continuamente sollecitan­do a vivere. Il cuore di ogni cambiamento è interiore: le riforme partono dal cuore, non dalla mera riorganizzazione esteriore. Il magistero pastorale di papa Francesco, fatto di gesti e immediatezza di linguaggio, è rivolto a ogni uomo o donna di buona volontà, credente o non, perché possa accogliere questo cambiamento, custodirlo nel cuore e richia­marlo alla mente ogni qualvolta ve ne sia l’occasione.

Tra le direttrici di percorso che in que­sti primi anni di pontificato papa Francesco ha più di frequente indicato, è l’impegno per la Chiesa a vivere e diffondere una vera cultura dell’incontro. È la cifra di riconoscimento del suo servizio pastorale e anche un com­pito urgente a cui richiama con insistenza ciascuno di noi.

Per papa Francesco una cultura dell’incontro rettamente intesa rappresenta di fatto una via privilegiata per promuo­vere un’efficace presenza della Chiesa in tutte le periferie esistenziali e contribuire al raggiungimento della pace duratura tra i popoli. Forse proprio per questo ne ha fatto il filo conduttore dei suoi insegnamenti pastorali.

Riguardo a questa tematica è davvero abbondante la ricchez­za di contenuti e valenze che questa «via» porta inscritti in sé. Gli accenni che seguono, intendono evidenziare alcuni aspetti preziosi perché ciascuno ne possa aver maggiore consapevolezza nello svolgimento del servizio, in base alle responsabilità ecclesiali e civili che gli competono.

 

4.1 L’incontro, evento in una duplice direzione: orizzontale e verticale

Quando papa Francesco invita a rinnovare il pensiero e l’azione orientandoli a una cultura dell’incontro, si rifà alla struttura stes­sa del nostro essere, naturalmente orientato alla relazione, alla scoperta dell’altro, all’interazione, al dialogo. È il richiamo al dato antropologico che caratterizza la nostra esistenza relazionale che, se ben vissuto, arricchisce e definisce la nostra persona.

All’essere umano che nasce da un incontro, da una relazione, per natura appartiene l’aprirsi all’incontro con l’altro, il percepire di non bastare a se stessi, lo scoprire ogni momento che la risposta efficace al nostro bisogno di compimento e pienezza non risiede in noi stessi, ma sta «di fronte» a noi, vale a dire nella nostra capacità d’incontro e relazione.

Insieme a questo, però, per papa Francesco alla base dell’incontro necessita recuperare uno «spirito contemplativo»: la consapevolezza cioè di essere stati amati per primi da Gesù e l’esperienza di essere salvati da lui. Questo ci permette di riscoprire che siamo depositari e portatori di un bene che umanizza[10] e ci fa «raccogliere la sfida di scoprire e trasmettere la mistica del vivere insieme, del lasciarci ferire dal “grido” dei fratelli, dalle piaghe incise nella loro vita. Significa incontrarci, prenderci in braccio […], in una carovana solidale» (EG 87).

È questa una dimensione essenziale e caratterizzante per noi cristiani perché in sostanza, afferma papa Francesco, si tratta di essere contemplativi della Parola e contemplativi del popolo (EG 154), altrimenti, «la contemplazione che lascia fuori gli altri, è un inganno» (EG 281). Per cui, come cristiani non dobbiamo rimanere al margine di questo cammino della speranza viva (cf. EG 278).

Attuare pienamente la relazione, che segna alla radice il nostro essere, ci rende uomini e donne capaci di vivere l’incontro, anzi, in qualche modo, capaci di essere incontro. Questo implica la scelta consapevole di aprirsi al dono di sé, ma, insieme, anche la disponibili­tà ad accogliere il dono dell’altro. «La cultura dell’incontro richiede che siamo disposti non soltanto a dare, ma anche a ricevere dagli altri», ci ricorda papa Francesco. Dunque, un dare e ricevere, segnato dalla gratuità reciproca, che garantisce l’autenticità dell’in­contro interpersonale.

 

4.2 Invito a uscire e inclusione sociale dei poveri

È frequente da parte di papa Francesco l’invito a «usci­re». È questa un’espressione ricca di significati. Innanzitutto indica l’impegno a «uscire da se stessi», «uscire da se stessi ed essere pellegrini» (cf. EG 124). È la premessa di fondo per essere autentici apostoli dell’incontro. Ciò significa accettare di non rinchiudersi nelle proprie cer­tezze e acquisizioni «prefissate», essere aperti e liberi di uscire verso gli altri, verso il mondo, non certo per occupare spazi ancora non «colonizzati», ma per avviare processi. Si tratta di privilegiare incontri che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi (cf. EG 223).

Da parte della comunità dei credenti, occorre vivere questo con un atteggiamen­to capace di superare la tentazione di prestare attenzione alla complessità del tempo in maniera semplicemente difensiva, per ripensare l’azione pasto­rale alla luce del bene dei fedeli e dell’intera società.

Una delle priorità che papa Francesco ha a cuore, è l’inclusione sociale dei poveri. Pertanto, sollecita a incontrarli e a entrare in relazione con loro. Per evitare però ogni lettura di tipo sociologico o demagogico, afferma che l’incontro con i poveri deve scaturire «dalla fede in Cristo fattosi povero e sempre vicino ai poveri e agli esclusi». Quindi, per noi cristiani è da questa prospettiva di fede che «deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società» (EG 187). Per di più, si tratta di un impegno che riguarda ogni cristiano e ogni comunità, un impegno fattivo che suppone di essere docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e a soccorrerlo (EG 87). La conclusione a cui arriva papa Francesco è perentoria. Sottrarsi a questo impegno è rischioso in quanto, «rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e del suo progetto» (EG 187), in quanto noi cristiani siamo chiamati a prenderci cura dei più fragili della terra (EG 209).

 

4.3 Due culture contrapposte: incontro ed esclusione

Una contrapposizione che papa Francesco evidenzia frequentemente, di fronte alla quale la società e la Chiesa devono fare le proprie scelte, riguarda la contrapposizione tra l’incontro e l’esclusione. «Ecco due culture opposte – dice papa Francesco –, la cultura dell’incontro e la cultura dell’esclusione, la cultura del pregiudizio, perché si pregiudica e si esclude». Non è difficile intravedere le ferite che la «cultura dello scarto e del pregiudizio» lascia ogni giorno nella comunità umana.

Si scarta ciò che è rite­nuto inutile, ciò che non corrisponde ai cliché omologanti di una mentalità consumistica ed efficientista tanto diffusa nelle società occidentali, ma che si sta espan­dendo anche in altre culture. Papa Francesco ricordava ai membri del Parlamento europeo che non possiamo «rassegnarci a quella “cultura dello scarto” e del consumismo esasperato che grida nelle fin troppe situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti, dei quali si può programmare la concezione, la con­figurazione e l’utilità, e che poi possono essere buttati via quando non servono più, perché diventati deboli, malati o vecchi».[11]

Qualche mese prima, davanti ai giovani riuniti per la GMG a Rio de Janeiro, papa Francesco aveva ammonito: «Si è fatta strada una cultura dell’esclusione, una “cultura dello scarto”. Non c’è posto né per l’anziano né per il figlio non voluto; non c’è tempo per fermarsi con quel povero nella strada. A volte sembra che per alcuni i rapporti umani siano regolati da due “dogmi” moderni: efficienza e pragmatismo».

Di fronte a questa perdita di umanità genuina, papa Francesco propone che «l’incontro e l’accoglienza di tutti, la solidarietà e la fraternità, sono elementi che rendono la nostra civiltà veramente umana. Essere servitori della comunione e della cultura dell’incontro! Vi vorrei quasi os­sessionati in questo senso. E farlo senza essere presuntuosi, impo­nendo “le nostre verità”, ma bensì guidati dall’umile e felice cer­tezza di chi è stato trovato, raggiunto e trasformato dalla verità che è Cristo e non può non annunciarla».[12]

Lavorare per la costruzione di una civiltà permeata e rinnovata dalla cultura dell’incontro ha a fondamento il nostro essere credenti in Cristo. La vita nuova che ci è stata donata, infatti, si radica in un incontro originario che ha cambiato alla radice la nostra esistenza, un in­contro che sempre deve essere custodito e rinnovato. «Invito ogni cristiano – esorta papa Francesco –, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta» (EG 3), perché «all’ini­zio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva» (EG 7). Da questo incontro personale con Gesù Cristo scaturisce la costruzione di una cultura dell’incontro che sia via di pace per l’umanità.

 

5.  La sfida per la Caritas

Nel contesto sopra delineato, è chiamata in causa anche la pastorale della carità per raccogliere la sfida del mondo di oggi e dare risposte significative e alternative.

Accanto a interventi concreti per arginare le povertà vecchie e nuove la Caritas, in quanto organismo pastorale con la prevalente funzione pedagogica, ha il compito di incidere sul cuore e sulla mentalità della comunità ecclesiale e civile, proponendo un’alternativa alla cultura dominante. A fronte di una chiusura egoistica e individualistica, cerca di proporre l’attenzione all’altro, l’incontro e l’accoglienza senza pregiudizi, riconoscendo il valore di ogni uomo; a fronte di una concezione utilitaristica della persona, cerca di proporre la relazione, la cura e la promozione del fratello in difficoltà, perché ci si faccia prossimi, diventando voce di chi non ha voce, nella convinzione che ciascuno ha una sua dignità intrinseca e diritti inalienabili; a fronte di un consumismo e di un benessere economico a ogni costo, cerca di proporre stili di vita improntati alla sobrietà e alla condivisione.

Ancora, la Caritas ha il compito di promuovere la pastorale della carità che mette in campo azioni che combattano la solitudine e l’isolamento, promuovendo la dimensione relazionale nel servizio e nella fraternità; opera per creare occasioni di incontro, di dialogo e di partecipazione per un inserimento concreto nelle comunità, ma anche di educazione alla partecipazione e alla cittadinanza, allo scopo di promuovere un’integrazione reale ad ogni livello. Si tratta di puntare a un lavoro di insieme per costruire comunità solidali, ribadendo la centralità della persona sia a livello sociale, politico ed economico.

Benedetto XVI nella Caritas in veritate afferma che «il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità» (n. 25). E sempre nella stessa enciclica viene affermato che lo sviluppo economico, sociale e politico perché sia autenticamente umano, ha bisogno di far spazio al principio della gratuità come espressione di fraternità (CV 34).

Come è emerso al Convegno ecclesiale di Verona, la pastorale in generale, quindi anche quella della carità, è chiamata ad abbracciare l’uomo nella sua vita quotidiana: «Nelle esperienze ordinarie tutti possiamo trovare l’alfabeto con cui comporre parole che dicano l’amore infinito di Dio […] La scelta della vita come luogo di ascolto, di condivisione, di annuncio, di carità e di servizio costituisce un segnale incisivo».[13]

Ciò significa che siamo chiamati a raccogliere la sfida di «impastare emergenza e quotidianità […]. Oggi deve prevalere una pedagogia di fatti quotidiani che entrano tra le pieghe della società […]. L’esperienza delle piccole comunità radicate in un territorio, ci consegna la concreta possibilità di promuovere una carità di popolo: una diffusa solidarietà di quartiere, di contrada, di condominio e una cultura dell’incontro, dell’ospitalità fatta di ascolto, di sospensione del giudizio sulla diversità dell’altro, di simpatia. Si è chiamati a promuovere un modo di abitare il quartiere e la città alimentando la cultura delle relazioni e della condivisione».[14]

Occorre quindi immergersi in realtà come la famiglia, la scuola, il lavoro, l’oratorio, con occhio vigile per scorgere le fragilità e le ferite, su cui versare «olio e vino» (cf. Lc 10,34), coinvolgendo altri nella cura, e magari nella prevenzione, di queste ferite.

La Caritas, pur avendo a disposizione strumenti preziosi, non può però realizzare da sola tutto ciò: anch’essa dovrà mostrarsi capace di entrare in rete e interagire con le altre forze e risorse presenti all’interno ma anche all’esterno della comunità ecclesiale, dando così il suo contributo per una pastorale integrata. «La rete non ha solo un valore utilitaristico o efficientista in ordine alla risposta ai bisogni, che pure può essere un buon punto di partenza. Lavorare in rete e di rete può diventare una precisa scelta pastorale, come ci ricordano i vescovi nel IV capitolo della Nota pastorale dopo Verona. Una scelta improntata alla comunione, alla corresponsabilità, alla collaborazione»,[15] nello stile che valorizza ogni persona, in un clima di fraternità e di dialogo nella ricerca di ciò che corrisponde al bene della comunità intera.

Infine, la Caritas è chiamata a facilitare l’incontro, la collaborazione la relazione con le altre realtà ecclesiali, per lavorare in rete e ovviare al protagonismo delle opere ecclesiali. Anche questo è parte essenziale del mandato di animazione del senso della carità affidato al compito della Caritas. Si tratta di assumere, nei confronti delle diverse realtà ecclesiali, la stessa scelta e lo stesso stile vissuto con i poveri. Scelta e stile caratterizzati innanzitutto dalla volontà di esserci e di fermarsi, di investire tempo e risorse per l’incontro, l’ascolto e la cura delle relazioni.

 

Salvatore Ferdinandi, già responsabile del Servizio promozione Caritas di Caritas italiana

 

 

[1] Cf. CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, nn. 10 e 25.
[2] Cf. Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 25.
[3] Cf. CEI, Rigenerati per una speranza viva: testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo, nn. 4, 11, 21-25 passim.
[4] Rigenerati per una speranza viva, n. 21.
[5] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 43 (d’ora in poi NMI).
[6] Cf. CEI, Educare alla vita buona del vangelo, n. 7.
[7] Cf. Educare alla vita buona del vangelo, nn.26-28.
[8] Cf. Dei Verbum, nn. 1, 2.
[9] Cf. Educare alla vita buona del vangelo, n. 37.
[10] Cf. Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 264 (d’ora in poi EG).
[11] Papa Francesco, Discorso ai membri del Parlamento europeo, 25 novembre 2014.
[12] Papa Francesco, Udienza del 27 luglio 2014.
[13] CEI, Rigenerati per una speranza viva, n. 12.
[14] V. Nozza, «Prospettive di lavoro pastorale», in Atti del 34° convegno delle Caritas diocesane «Educati alla carità nella verità. Animare parrocchie e territori attraverso l’accompagnamento educativo», 250.
[15] Ivi, 244-245.