Giancarlo Tettamanti – giornalista pubblicista, socio fondatore AGESC

Dolore e speranza: una riflessione ricca di proposizioni e di prospettive. Con il dolore ciascuno di noi, almeno una volta nella sua vita, ha avuto occasione di fare i conti. E i conti hanno finito per mettere «in crisi l’immagine che noi abbiano di noi stessi»Il dolore è una realtà che agisce nella totalità delle persone, ed è una realtà personale che spacca tra ciò che ciascuno è e ciò che vorrebbe essere. Con esso l’uomo impara a sue spese, e di colpo, a dover dipendere. E impara anche che di fronte al dolore egli è solo con sé stesso. La società, infatti, di fronte al dolore è muta, perché la sua cultura, la cultura, cioè, che esprime, è solo cultura del successo e della felicità, in cui ovviamente il dolore non trova posto. Per la società il tempo trascorso nella sofferenza non ha senso, è tempo perduto, non ha valore: per questa ragione il dolore è “scandalo”.

Ma quali sono le spiegazioni del dolore che la nostra cultura ci propone?

Noi cerchiamo sempre di identificare il dolore con una parte precisa del nostro corpo. Perciò cerchiamo di spiegare sempre il dolore attraverso il tentativo di renderlo fatto fisico. Mai il dolore è visto come metafora. Se il dolore viene isolato e messo da parte, conseguentemente viene anche negato che è tutta la persona che soffre. In questo modo, viene però negato il valore del dolore: si soffre per il bene del tutto. Se infatti la sofferenza diventa la strada tortuosa che conduce a qualche meta più grande, allora il dolore ha un senso, ha un significato, ha un suo valore: la negazione del dolore invece si pone in un’ottica idolatra con la quale si tenta sempre di spiegare e di ordinare la realtà su motivi parziali, rompendo la tensione unitaria dell’armonia totale ed innegabilmente scontrandosi con tentativi idolatri altrui. In questo senso si può dire che il dolore non è mai riconducibile ad una ideologia: «l’idolo non corrisponde mai esaurientemente alle domande umane cui pretende essere risposta» (L. Giussani, Il senso religioso)

Da qui la domanda del perché si soffre. Ma la spiegazione del dolore non si radica nell’arco dell’esperienza umana, ma richiede una prospettiva più ampia: Giobbe chiama Dio non altri a dialogare con lui sul suo dolore! Da qui la prospettiva della fede: «Il dolore, infatti, è una condizione particolare che permette di giungere alle questioni ultime dell’esistenza, andare cioè al fondo della vita» (non è, perciò, come si vorrebbe far credere dalla attuale cultura dominante, obiezione alla vita). Il dolore ovviamente non è una garanzia, ma una possibilità. Il dolore coinvolge direttamente Dio . Infatti: “perché Dio permette questo?”, si chiede Giobbe. È chiamata in causa l’onnipotenza di Dio, non in quanto “potere” ma in quanto “amore”. «Dio è profondamente presente nella nostra vita e nella nostra realtà. Non possiamo pensare a un Dio fuori dal mondo e che non c’entra nulla con la nostra vita». Non a caso, il mondo dell’uomo radicale è un mondo privo di Dio e privo anche di una qualche provvidenzialità immanente: è il mondo del frammento. Non esiste una storia con un passato e un futuro nel mondo dell’uomo radicale, ma solo una successione fortuita di accadimenti. Non esistono finalità ultime che trascendano la parabola dell’esistenza (nascere, crescere, morire), ma obiettivi limitati, concreti, ben definiti, a portata di mano.

Ma «se Dio non c’è, ciò che è permesso è anzitutto di essere disperati» (F. Muriac). Ed è qui che si affaccia, ed emerge prepotentemente, la possibilità della speranza: «Dolore come luogo privilegiato di singolare approfondimento della propria umanità»Peguy affermava che: «la mia piccola speranza è quella che tutte le mattine ci dà il buongiorno». E ciò è molto significativo in un mondo che tenta in ogni modo di esorcizzare il pensiero della morte e del dolore. Per questo il mondo dell’uomo radicale è un mondo che non ha più il senso della speranza cristiana, quella speranza che pone le sue radici nella fiducia, cioè nella fede, fede in una salvezza totale.

I credenti hanno una grande responsabilità: sono comandati a sperare, sono chiamati a essere uomini di speranza. Detto in altre parole: «Io credo che Dio è amore; credo che il creatore non si prende gioco delle creature; credo che la morte nel Cristo è già resurrezione; credo che l’intera creazione geme nei dolori del parto, nella speranza di essere anch’essa liberata dalla servitù e dalla corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio; credo che in quel giorno Dio asciugherà tutte le lacrime dei nostri occhi: non ci sarà più morte; non ci sarà più pianto e pena; credo che saremo simili a Lui» (Pedro Maria Casaldaliga, vescovo di Sao Felix in Amazzonia).

La fede, perciò, prende il volto della speranza. Il nostro essere cristiani si misura non solo sulla domanda: che cosa credi? ma anche su quella: che cosa speri? E in un mondo che ha smarrito il senso della speranza, possiamo essere significativi e comunicativi soltanto se ci facciamo – come ebbe a dire Giorgio La Pira di sé stesso – «venditori di speranza».