Umberto Folena, giornalista e scrittore, già inviato speciale e caporedattore di «Avvenire»

1.Fenomenologia di un mestieraccio

Ci sono titoli semplici, complicati e mostruosi. Un titolo semplice è composto da una o due parole di immediata comprensione e lascia ampia libertà a chi scrive. Ad esempio: «Giornalismo, che mestieraccio». Un titolo complicato si allunga e propone una tesi, da confermare o smentire: «Giornalismo, un mestieraccio in via di estinzione?», con un punto di domanda pleonastico ma capace di aggiungere pathos. Un titolo mostruoso è invece questo, composto da due sostantivi, tre aggettivi e pure un interrogativo finale. Il «quale» iniziale è poi un invito a delineare una sorta di giornalismo ideale ed è ben diverso da un minuscolo, innocuo «un». Per farla breve, mi sono ficcato nei guai. Ma a me certi guai piacciono.

Avviso ai naviganti. Userò a volte la prima persona, cosa che un buon giornalista non dovrebbe fare mai; ma in questo caso eccezionale, potrei essere costretto a ricordare qualche esperienza personale, di giornalista iscritto all’Albo da 42 anni e professionista da 38, con una discreta esperienza di informazione ecclesiale. Chiedo venia, spero non sia interpretato per narcisismo, patologia purtroppo diffusa tra i giornalisti ma solo tra quelli che se lo possono permettere, e se possono o no dipende dal loro conto in banca e dalle apparizioni televisive. Davvero possono in pochi.

Il giornalismo sta cambiando, ma attenzione a non commettere l’errore di chi è di memoria pigra, ignora tenacemente la storia e sentenzia: ah, non c’è più il giornalismo di una volta, quello di (segue un elenco abbastanza casuale di giornalisti e testate del passato). Il giornalismo è sempre stato un mestieraccio, fatto di un’élite di baciati dal talento e dalla buona sorte, tutti bene in vista, e una grande massa di badilanti, espressione gergale (la meno inelegante tra le tante) per definire la carne da cannone della redazione, ossia chi passa in rassegna i lanci di agenzia, decide che cosa pubblicare e come e dove, sistema i pezzi altrui (corregge, accorcia e allunga), disegna pagine, scrive titoli e sommari, tutte queste cose necessarie per fare un quotidiano, un TG o un giornale radio. Pochissima gloria, visibilità quasi nulla, importanza decisiva.

È sempre stato un mestieraccio che una volta godeva di una reputazione ben peggiore di quella attuale, se Mark Twain alla fine del secolo XIX amava chiedere agli amici: «Non dite a mia madre che faccio il giornalista, lei crede che io faccia il pianista in un bordello». Erano i bei tempi di una volta. Hollywood ci ha regalato film memorabili su giornalisti eroi e giornalisti spregevoli, e giornalisti tutti da ridere.

2.Esame di giornalismo

Ecco come un genio come Ennio Flaiano, nel 1954, immagina (è satira, esagera, ma quanto?) un esame da giornalista dei bei tempi di una volta (dal Taccuino notturno): «“Lei è cronista? Mi dica della Testimone”. “Indossava un abito di seta viola con borsa e guanti neri e scarpe alte di camoscio”. “E il Presidente?”. “Il Presidente è sceso dalla sua Fiat 1400, targata Roma 179553”. “E l’Avvocato?”. “Indossava un vestito grigio scuro di flanella con cravatta nera ed è sceso dalla sua Fiat 1100 grigiolatte targata Roma 182100”. “Passiamo allo sport. Descriva liricamente qualcosa”. “La difesa è un sol uomo, un sol cuore, annienta sé stessa nello spasimo di un finale che brucia e travolge”. “Sia lirico e patriottico”. “Undici macchie azzurre, centomila cuori che dagli spalti gridano nel solenne tramonto un sol nome: Italia!”. “Sia lirico e pessimista”. “Il sole si nascose tra le nubi quasi temesse di turbare con la sua presenza la mesta cerimonia”. “Sia lirico e ottimista”. “Verso la fine della mesta cerimonia un timido sole invernale squarciò le nubi, quasi a porgere il suo estremo saluto”. “Bene. Torniamo alla cronaca. Se avessi un amante, che cosa sarei?”. “Un maturo Don Giovanni”. “E se fossi anche povero?”. “Un Don Giovanni da strapazzo”. “Chi era Don Giovanni?”. “Un prete, immagino”».

È un mestieraccio al pari di tanti altri mestieracci che non prevedono orari certi, né sabati e domeniche e festivi liberi, e sono quindi incompatibili con una famiglia normale e necessitano di coniugi assai comprensivi… a riprova che anche quello del coniuge è spesso un mestieraccio, da scegliere con cautela.

3.Mestieraccio, ma splendido

Completato questo quadretto a tinte fosche, va subito aggiunto che il giornalismo è il mestiere più bello del mondo, per chi lo fa per vocazione e lo interpreta come una missione; ha l’umiltà di voler apprendere e migliorarsi fino all’ultimo giorno della sua vita; sa di essere al servizio della comunità e non della propria vanagloria; servizio, non potere. E lo è sempre stato. Perché le forme e gli strumenti cambiano, ma lo scopo è sempre lo stesso: raccontare quello che gli esseri umani pensano, dicono e fanno, bello o brutto che sia; e cercare tenacemente la verità, con la consapevolezza che, come disse una volta Norman Mailer: «Pretendere di dire la verità e tutta la verità con un giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un’ocarina: lo strumento non è molto adatto». I mass-media, per quanto ammantati da un’aura di potenza, sono imperfetti: rendersene conto ci mette al riparo da delusioni e recriminazioni. Cercare la verità sì, sempre; pretendere che un giornale ce la dia tutta, subito e per intero, è eccessivo. Tra parentesi: chi può dire di conoscere tutta e per intero la verità su sé stesso?

Il giornalismo è dunque un mestieraccio, ma è anche il più bello del mondo. Non è per tutti, anzi è per pochissimi e un guaio, comune ad altri mestieracci più belli del mondo – medico, insegnante, politico… – è quando qualcuno, pur non essendovi tagliato, si ostina tenacemente a volerlo praticare. Quando ho incontrato qualcuno del genere, ed è successo spesso, è sempre stato un disastro. Ma ci torneremo.

Sta cambiando? Sì, ma è sempre cambiato. In meglio o in peggio? Entrambi. Le tecnologie consentono una circolazione sempre più rapida delle informazioni; la carta stampata, essendo lenta, soccombe al cospetto di tanta velocità; i giornali, dopo secoli, si fanno immateriali. Non sono cambiamenti di poco conto e la velocità impedisce un controllo meticoloso delle notizie e induce a errori sempre più frequenti. In più, oggi basta che un cittadino possieda uno smartphone con cui scattare foto, filmare e scrivere testi perché si senta un giornalista. E questa è una catastrofe perché, alla lunga, potrebbe uccidere il mestiere del giornalista: tutti sono giornalisti, nessuno lo è davvero. Non accadrà. Ma non è del tutto scontato.

4.Il giornalismo dell’attrazione

Ma al di là delle tecnologie che progrediscono così veloci da rendersi inafferrabili e talvolta incomprensibili, il vero punto di svolta del giornalismo moderno è avvenuto nel momento in cui da servizio della comunità, e strumento di democrazia, è stato tramutato in semplice, banalissima merce. Un po’ lo è sempre stato: per sopravvivere, un’azienda editoriale deve stampare e vendere giornali in edicola e per abbonamento; e un Tg deve avere telespettatori da «offrire» agli inserzionisti pubblicitari. Ma ad un certo punto è accaduta una cosa così descritta da uno dei più grandi cronisti del Novecento, Ryszard Kapuscinski: «Nella seconda metà del XX secolo improvvisamente il grande mondo degli affari scopre che la verità non è importante, ciò che conta è l’attrazione. E, una volta che abbiamo creato l’informazione-attrazione, possiamo vendere questa informazione ovunque. Più l’informazione è attraente, più denaro possiamo guadagnare. Mentre, un tempo, a capo dei giornali, delle emittenti televisive o radiofoniche c’erano dei redattori pieni di passione che combattevano per qualcosa, oggi non ci sono che uomini d’affari. Persone che non hanno, né vogliono avere, niente a che fare con il giornalismo. Dalle mani di persone che lottavano per la verità, l’informazione è passata in quelle di uomini d’affari preoccupati non che l’informazione sia vera, importante o di valore, ma che sia attraente. Oggi, per potersi vendere bene, l’informazione deve essere un prodotto in confezione di lusso. Il passaggio dal criterio della verità a quello dell’attrattiva rappresenta la grande rivoluzione culturale di cui tutti siamo i testimoni, i partecipanti e, in parte, le vittime. Il caporedattore non chiede se una cosa sia vera, ma se sia vendibile e procuri la pubblicità che gli dà da vivere».

L’attrazione al posto della verità. E la comunità ecclesiale non è immune dal virus.

5.Innanzitutto i destinatari

Il secondo sostantivo del titolone è «comunicazione». In ogni processo comunicativo l’errore più banale che possiamo commettere è decidere che cosa comunicare, mettendo in secondo piano i destinatari della comunicazione, con la loro cultura, pensieri, pregiudizi, stanchezze, desideri. In realtà i destinatari sono al primo posto e nel nostro caso la domanda cruciale è: la comunità ecclesiale – presbiteri, religiosi, laici – desidera una comunicazione intraecclesiale? Ne avverte la necessità? La sta aspettando?

La mia sensazione, discutibilissima, è che nella larga maggioranza dei casi non sappia che cosa farsene. Precisiamo. La comunità ecclesiale in Italia, da tempo immemorabile, non è davvero «cattolica», ossia non ha un senso profondo di appartenenza universale. Ogni diocesi fa da sé, e andrebbe anche bene se si dota di strumenti di comunicazione interna «efficaci e trasparenti». Ma sempre più la chiesa in Italia è un insieme assai poco comunicante di aggregazioni laicali, ossia associazioni, movimenti, realtà spirituali ed entità che sfuggono a una definizione, ciascuna delle quali dotata del proprio strumento interno di comunicazione. Ciascuno conosce, forse, le proprie cose e ignora quelle altrui, per le quali prova una curiosità tiepida o nulla. Si chiama autoreferenzialità e non è una cosa positiva. Detta brutalmente: ci ignoriamo.

Esiste anche una minoranza di fedeli attenti e curiosi, presbiteri e laici; a volte cercano di contagiare i fratelli, ma sono sforzi destinati al fallimento. Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla ritirata, talvolta alla chiusura, di storiche testate diocesane. «Avvenire» per ora regge bene, ma è tutto da dimostrare che sia letto in prevalenza dai cattolici praticanti. Andando per approssimazione, nelle 226 diocesi italiane le parrocchie attive sono circa 20mila; sarebbero di più, ma qui consideriamo solo quelle dotate di un consiglio pastorale funzionante. Basterebbe che dieci membri del consiglio, sentendosi investiti di una forte responsabilità, avvertissero anche la necessità di tenersi informati su quanto avviene nel mondo e nella chiesa, a questo punto «Avvenire» conterebbe su uno zoccolo duro di 200 mila lettori, solo per cominciare, e sarebbe probabilmente il primo quotidiano italiano. Questo è il «potere» della chiesa che la chiesa non sa riconoscere e getta al vento.

Se non accade, è perché il desiderio di «comunicazione intraecclesiale» è debole. Di conseguenza, il primo compito del giornalista impegnato della comunità è far sorgere e crescere questo desiderio. Come? Impossibile saperlo. L’unica cosa che può fare il giornalista di area cattolica è lavorare bene, con passione, con «efficacia e trasparenza». Magari contando su un aiuto delle gerarchie. Sull’incoraggiamento di vescovi e presbiteri. Ma giornalisti così non sbucano dal nulla. Sono figli di ambienti ecclesiali vivi, culturalmente aperti e curiosi, che danno fiducia e non temono le intelligenze brillanti. E qui sono costretto a ricorrere alla prima persona.

6.Quanto investire in formazione

Moltissimi anni fa mi capitò di sentire un prete importante di una diocesi importante, con un delicato incarico in curia, lamentarsi della carenza di giornalisti cattolici capaci di fare informazione in campo ecclesiale. Persone di fiducia. Io gli chiesi allora quante risorse la diocesi aveva investito per far sbocciare vocazioni al giornalismo. Mi guardò stranito. Ma certo, ribattei io polemicamente (è il mio guaio): ad esempio quanto investite per la formazione dei futuri preti? Lo so che non è la stessa cosa, ma in generale quanto la chiesa investe nella formazione delle future professioni cruciali? Ad esempio – feci nome e cognome di un giovane di sicuro talento che cercava di poter fare il giornalista a tempo pieno, da professionista – perché con le vostre conoscenze non lo mandate per uno stage al «New York Times»? Di sicuro l’arcivescovo di New York vi darà una mano; potrete anche fare uno scambio; finanziate al giovane sei mesi negli Usa ad allargare i suoi orizzonti, quando tornerà sarà un campione. La mia era una provocazione che però racchiudeva una domanda radicale: quanto siamo disposti a investire per la formazione di giornalisti cattolici, preparati, competenti, all’altezza dei migliori? Il prete importante mi dice, serio: sì, noi investiamo, poi lui torna e ci dice addio, e abbiamo buttato i soldi. A prescindere dall’attitudine distruttiva al pensiero negativo – pensare subito all’ipotesi peggiore, non alla migliore – avrei voluto ricordargli tutti gli studenti di teologia, sui quali investivano, e avrebbero lasciato e detto addio. Ma sarebbe stato crudele. La verità triste è che quel prete, per quanto santo e stimabile, non credeva davvero nei laici. Non credeva nella loro formazione. O meglio: ci credeva, ma non fino al punto di investirvi reali risorse. La soluzione è sotto gli occhi di tutti. Ogni giornalista che si senta di appartenere alla comunità ecclesiale e accetti di fare anche informazione religiosa deve arrangiarsi. Talvolta, come portavoce e corrispondenti locali, vengono scelti non i più preparati ma i devoti. Ne ho conosciuti tanti. Sante donne e santi uomini, con una fede sicuramente più profonda e solida della mia fragilissima; purtroppo bisognava riscrivergli il pezzo da cima a fondo perché non avevano le basi minime per fare il giornalista. E non inviavano notizie davvero interessanti; non erano capaci di raccontare la loro realtà ecclesiale; mandavano le notizie della curia, come se la curia esaurisse la comunità diocesana. Non era tutta colpa loro: nessuno gli aveva insegnato niente, nessuno aveva ritenuto di investire alcunché nella loro formazione.

Senza competenza non ci può essere efficacia. Ma senza formazione non c’è competenza. E senza una comunità che aneli a una comunicazione intraecclesiale, continueremo a parlare nel vuoto, fino a tacere scoraggiati; magari incolpando chi non ci ascolta, anziché noi che non sappiamo comunicare.

7.Distinguere il bene dal male

A un giornalista che aspiri a farsi paladino di una «comunicazione efficace e trasparente» non mancano certo ottimi consigli e autorevoli esortazioni. Ricorderemo qui le parole di papa Francesco ai soci dell’UCSI (Unione cattolica stampa italiana) ricevuti in udienza il 23 settembre 2019: «Per rinnovare la vostra sintonia con il magistero della chiesa, vi esorto a essere voce della coscienza di un giornalismo capace di distinguere il bene dal male, le scelte umane da quelle disumane. Perché oggi c’è una mescolanza che non si distingue, e voi dovete aiutare in questo. Il giornalista – che è il cronista della storia – è chiamato a ricostruire la memoria dei fatti, a lavorare per la coesione sociale, a dire la verità a ogni costo: c’è anche una parresia – cioè un coraggio – del giornalista, sempre rispettosa, mai arrogante». L’espressione «cronisti della storia» è bella e impegnativa. I giornalisti «capaci di distinguere il bene dal male» sono di un’altra razza da quelli impegnati a distinguere ciò che è attraente da ciò che non lo è. Decisamente diversi dai giornalisti ironicamente descritti da un direttore del secolo scorso: «Il compito del giornalista è impegnativo. Passa tutto il giorno a dividere il grano dalla zizzania. E alla fine pubblica la zizzania». Il papa prosegue: «Questo significa anche essere liberi di fronte all’audience: parlare con lo stile evangelico: “sì, sì”, “no, no”, perché il di più viene dal maligno (cf. Mt 5,37). La comunicazione ha bisogno di parole vere in mezzo a tante parole vuote. E in questo avete una grande responsabilità: le vostre parole raccontano il mondo e lo modellano, i vostri racconti possono generare spazi di libertà o di schiavitù, di responsabilità o di dipendenza dal potere. Quante volte il giornalista vuole andare su questa strada, ma ha dietro di sé un editore che gli dice: “no, questo non si pubblica, questo sì, questo no”, e si passa tutta quella verità nell’alambicco delle convenienze finanziarie dell’editore, e finisce per comunicare quello che non è vero, che non è bello e che non è buono. Da molti vostri predecessori avete imparato che solo con l’uso di parole di pace, di giustizia e di solidarietà, rese credibili da una testimonianza coerente, si possono costruire società più giuste e solidali. Purtroppo però vale anche il contrario. Possiate dare il vostro contributo per smascherare le parole false e distruttive».

8.La chiesa può permettersi la trasparenza?

E in ambito intraecclesiale? Siamo giunti al tema fatale della trasparenza. Alla «verità a ogni costo» ricordata dal papa all’UCSI. Dichiararla e proclamarla, invitando gli operatori della comunicazione a esserle fedeli, è facile e strappa l’applauso. Poi però bisogna fare i conti con la realtà. E la realtà è fatta di avvenimenti interni alla chiesa che risultano scomodi, perché hanno per protagonisti negativi membri della comunità, perlopiù presbiteri e religiosi, infedeli. Compiono atti assai poco nobili. Commettono perfino dei reati. In questi casi, non infrequenti, in che cosa consiste la trasparenza? Bisogna essere trasparenti sempre e comunque? Oppure, per non danneggiare la Chiesa, è opportuna un po’ di opacità? La verità va detta sempre tutta e per intero, oppure qualche omissione si rende necessaria per «salvare» l’istituzione, il suo buon nome, la sua buona immagine, la sua buona reputazione? Per dirla in modo diretto, perfino brutale: la chiesa può permettersi di esercitare la trasparenza, sempre e comunque? Può permettersi la «verità a ogni costo»? Ci sono infiniti modi per aggirare la trasparenza tacitando la coscienza. Il più comune è appellarsi alla «verità sì, ma nella carità». In nome della carità particolari scabrosi, dettagli irregolari, perfino piccoli e (ahinoi) grandi reati che danneggerebbero persone o istituzioni, possono e addirittura devono essere taciuti? La verità va sempre detta oppure a volte, quando conviene, è opportuno tacerla? Verità sì, ma non a ogni costo? Nella vita quotidiana dei giornalisti interni all’istituzione ecclesiastica questi casi possono costituire autentici drammi di coscienza: se io non sono del tutto trasparente, sono un fedele devoto o un banale complice? Spesso, poi, l’addetto stampa o portavoce che sia viene spedito in pasto ai media senza che gli siano stati raccontati tutti i fatti per intero, esponendolo quindi al disastro. È capitato anche a me per una vicenda di Imu. Di fronte al solito affondo dei radicali, un’importante diocesi mi disse che era tutto in ordine e mi diede pure le ricevute dei pagamenti, che pubblicai sul mio quotidiano convinto di sbugiardare i radicali. Il direttore e io ci beccammo una querela (poi rientrata, per fortuna) perché le ricevute si riferivano solo al piano terra dell’edificio, affittato a dei negozi; un piano che ospitava preti e laici di passaggio non aveva pagato e non era chiaro se dovesse farlo, un caso abbastanza irrisorio di opacità in cui i radicali si infilarono giulivi. I responsabili della Curia non mi avevano detto tutto. Perché non si fidavano del giornalista cattolico, ma pur sempre non presbitero ed esterno all’istituzione? Per un esagerato senso di riservatezza? Mistero. Ma questa piccola vicenda è la prova provata che la trasparenza è un valore tanto nobile quando difficile da praticare. La sensazione – non una certezza – è che probabilmente nessuna istituzione umana, nemmeno la chiesa che pure è sacra, può permettersi la trasparenza assoluta. E se lo facesse non riceverebbe elogi, da sorrisi di compatimento. Nessuno può rinunciare a un minimo di riservatezza.

E il giornalista? Deve sempre e comunque scrivere tutte le informazioni di cui è venuto in possesso? Anche se danneggiano lui, il suo editore, la realtà civile, politica o ecclesiale a cui appartiene? A volte è meglio lasciare la domanda sospesa, affidandola al giudizio e alla coscienza del lettore, piuttosto che azzardare risposte parziali e insoddisfacenti. La trasparenza è sicuramente una nobilissima aspirazione, ma talvolta collide con l’efficacia. Se per essere efficaci è opportuno non dire proprio tutto, a essere sacrificata sarà la trasparenza, non l’efficacia.

9.La dura arte del possibile

Alla fine, è necessario ammettere che questo meraviglioso mestieraccio consiste nell’esercizio continuo dell’arte del possibile. Non ci sono assoluti né eroi alla conquista della Verità con la maiuscola. Ci sono soltanto professionisti ai quali dobbiamo chiedere di essere colti, preparati, esigenti con sé stessi. Mai approssimativi né improvvisati. Che amino la verità, intesa come le tante verità con la minuscola di cui la cronaca di tutti i giorni, la vita quotidiana dei nostri contemporanei, è impastata insieme a piccole e grandi menzogne, insieme, come il grano con la gramigna… ma, alla fine, pretendere che sia pubblicato il grano. Tuttavia, un giornalista, anche il migliore, non è nulla senza i lettori. I lettori devono essere «professionisti» della lettura tanto quanto i giornalisti sono professionisti della scrittura. E qui si torna alla domanda iniziale: quanta fame c’è, nella comunità ecclesiale, di conoscere i fatti? Quanta passione per ciò che donne e uomini del nostro tempo pensano, dicono e fanno? E infine, è possibile essere apostoli, annunciare il vangelo, ignorando a chi lo si annuncia?

C’è un passaggio mai abbastanza citato del decreto conciliare Apostolicam actuositatem (29b) decisamente esplicito: «La formazione all’apostolato suppone che i laici siano integralmente formati dal punto di vista umano, secondo il genio e le condizioni di ciascuno. Il laico, infatti, conoscendo bene il mondo contemporaneo dev’essere membro della propria società e al livello della cultura di essa». I fedeli laici «conoscono bene il mondo contemporaneo»? E come potrebbero ignorando l’informazione, a cominciare da quella cristianamente ispirata? E quanto questo invito del concilio, gentile ma stringente, è preso sul serio non solo e neppure tanto dagli uffici di curia, ma dalle singole comunità parrocchiali? Fedeli laici a livello della cultura della società… Davvero, purtroppo, non pare un’urgenza così presente nelle nostre comunità. E quindi non sarà urgente guardare ai giornalisti, che hanno la fortuna di poter dedicare tutto il proprio tempo a indagare e raccontare la società. Compreso il mondo cattolico nelle sue tante diramazioni e sensibilità, che della società sono parte.

Tratto da Orientamenti Pastorali 1-2/2024, EDB. Tutti i diritti riservati.