Giancarlo Tettamanti – giornalista pubblicista, socio fondatore dell’AGESC

La morte di Indi e le vicende che ne hanno caratterizzato gli ultimi momenti – giorni – della sua vita, pongono certamente delle domande. Ciascuno di noi di fronte a questi eventi, e ciò pur non essendo medici, né giudici, ma ancor più come genitori, e come nonni, viene sollecitato a delle riflessioni. Solo a queste condizioni ci permettiamo di giudicare l’amore di due genitori colpiti dal dolore di una figlia malata, molto malata, e la decisione dei giudici, decisione arrogante, di staccare la spina, che contrasta con la volontà dei genitori, ai quali va comunque riconosciuto il diritto e il dovere di crescere, sostenere e accompagnare i figli anche nel doloroso approccio con una situazione sanitaria difficile, e forse anche immutabile. Ci si chiede sin dove va la responsabilità dei genitori e quella dei giudici. La prima va necessariamente riconosciuta ai genitori, la seconda soltanto una intrusione giudiziaria. In questo caso, come ha sottolineato Mario Melazzini in Avvenire, la sentenza dei giudici inglesi ha confermato lo stop al supporto vitale: per i medici di Nottingham continuare con il sostegno sanitario della bimba, affetta da una malattia giudicata inguaribile, sarebbe stato accanimento terapeutico, per cui la malata non ne avrebbe avuto alcun beneficio, anzi le cure palliative le avrebbero causato solo dolore. Una diagnosi assurda che trova radice in parole arroganti: accanimento terapeutico, interruzione di cure, parole che hanno sapore di disattenzione e di diniego della speranza dei genitori e del diritto alla vita della piccola, considerata ormai come uno scarto da eliminare. E, ciò nonostante, la drammaticità che ci interroga sul senso della vita. La stessa disponibilità dell’ospedale del Bambino Gesù di Roma ad accogliere la bimba, opzione negata dai giudici, è stata decisione che non dovrebbe essere assunta da un tribunale, il quale non può e non deve decidere dove e come curare i malati o negando ai genitori il diritto di trasmettere i propri figli, Indi in questo caso, in uno dei migliori ospedali pediatrici al mondo. Perché negare ai genitori questo sacrosanto diritto di scelta? Abbiamo assistito a una Magistratura ben lontana dal diritto dei genitori di rispettare la loro responsabilità e quello del malato con il suo diritto alla vita.

Analizzando questa situazione – pur con alcuni limiti conoscitivi –, viene in mente il sopruso perpetrato nei riguardi di ginecologo Leandro Aletti, con l’ostracismo più assoluto e una denuncia per avere aiutato una donna a rinunciare all’idea di abortire, fatto giudicato come violazione della legge 194. Anche qui, mi permetto scorgere una sorta di arroganza, giocata non più a difesa della vita ma di una ideologia artefatta e di una accusa di violenza impropria. Aletti, alla Mangiagalli di Milano dove operava, fu emarginato, condannato in base al «valore sociale», in quanto «il comportamento di coartazione tenuto dal ginecologo apparve un disvalore sociale in ordine alla qualità perseguita di conservare la vita del feto a ogni costo, anche se ritenuto gravemente malformato, non rende assolutamente di particolare valore». Anche in questo caso l’azione della magistratura colpì Aletti perché oppositore alla legge 194/1978, ed ebbe a dettare che “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce e tutela il valore sociale della maternità e la vita umana sin dal suo inizio”, e aggiunse che “la legge non è mezzo per il controllo delle nascite, e che l’aborto è consentito solo in caso specifici di stupro e di condizioni psichiche e fisiche della puerpera e del nascituro…”. Ma ormai l’aborto aveva contagiato gli stessi adolescenti. Aletti convinse la puerpera a non abortire, trovando in essa certamente una condivisione, tant’è che fu poi particolarmente contenta di tornare a casa con in braccio il suo bambino. Il medico fu poi assolto poiché il fatto non consisteva reato, ma la discriminazione sul posto di lavoro non venne meno.

Analizzando i due fatti, mi chiedo se spesso – da noi come in altri luoghi – la magistratura non agisca ideologicamente. Dove sta la libertà di cura? Diritto che tutti difendono a parole ma che spesso ignorano. Perché viene emarginato il diritto dei genitori? Il bambino e la sua famiglia sono un’unica identità, che va riconosciuta, mai emarginata: non si possono scindere le due entità – figlio/genitori – e la libertà di scelta dei genitori di Indi, richiedenti il trasporto all’ospedale di Roma, non avrebbe dovuto essere negato da un potere giudiziario che scavalca l’amore di due genitori richiedenti legittimamente di provare a percorrere la via della cura piuttosto che quella frettolosa della morte cagionata. La persona ammalata non è mai uno scarto! Giacomo Poretti, in “Condominio mon amour”, si domandò: “Chi si prenderà cura degli altri quando a dominare il mondo saranno le macchine e gli algoritmi?”. E così Luca Dominelli, in Avvenire: “La vicenda di Indi pone una domanda: che ne sarà di noi, quando vedremo riconosciute tutte le nostre ragioni e i nostri diritti, ma non saremo più capaci di prenderci cura della vita, che il Mistero indefinibile ma più reale di ogni realtà continua a evocare, per noi, dal nulla?”.