Giorgio Bonaccorso – monaco benedettino e docente presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Santa Giustina (Padova)

Il problema umano della morte è fondamentalmente il problema delle sue mediazioni culturali, perché a fronte della cessazione della vita a cui sono sottoposti tutti gli esseri viventi, l’uomo ha reagito elaborando un complesso sistema simbolico, fatto di riti, miti, arti, scienze, tecniche. Si potrebbero descrivere le culture umane come dispositivi più o meno elaborati con i quali la vita reagisce alla morte. Alla base sta l’esperienza biologica, con la quale si deve intendere non solo l’organizzazione pluricellurare di un determinato organismo ma anche la capacità del medesimo organismo di orientarsi nell’ambiente circostante. L’organizzazione e l’orientamento, che sono le qualità primarie della vita, costituiscono anche i modelli operativi fondamentali di qualsiasi cultura. Quando i bisogni della vita diventano anche il bisogno di dare senso alla vita, l’organizzazione e l’orientamento si qualificano come trame culturali. La morte non pone solo fine alla vita ma mette anche a rischio il senso della vita. Per questo motivo, le società umane elaborano sistemi simbolici più o meno complessi sia per ritardare la fine della vita, con tecniche venatorie, mediche, magiche, sia per conservare il senso della vita, con creazioni mitiche, religiose, filosofiche. In ogni caso, è inevitabile il confronto con la morte che assume un ruolo centrale nell’elaborazione dei simboli e dei racconti di una determinata società.

L’ipotesi, allora, è che se la spinta a elaborare un senso della vita è data dalla morte, il rifiuto di confrontarsi con la morte sia anche l’anticamera della perdita di senso. Un’ipotesi che sembra applicarsi alla nostra società, il cui problema, forse, non è quello di non saper affrontare la morte (e tutte le perdite che anticipano il morire) perché si è perso il senso della vita, ma che si è perso il senso della vita perché ci si rifiuta di affrontare la morte. Più precisamente, oggi la morte sembra ridotta a un semplice «fatto»: un fatto da nascondere o da spettacolarizzare, da ignorare o da sfidare, ma mai da elaborare come momento intrinseco al percorso, e quindi al senso, della vita. Nonostante tale rifiuto, però, la morte fa sentire il suo peso, e forse lo fa sentire più che in altre civiltà: la morte eliminata come momento della vita raggiunge il massimo effetto distruttivo sulla vita. Alla base sta il fatto che la situazione umana originaria e insuperabile non è quella della vita o della morte ma della dinamica vita-morte, con la conseguenza che non si può «salvare» la vita senza salvare la nostra capacità di confrontarci con la morte. Diversamente si profila un’esistenza di ottimismo vitalistico che si accompagna schizofrenicamente a un inesorabile pessimismo quasi necrofilo. L’arte più grande e da riconquistare è quella del dialogo tra la vita e la morte.

Sappiamo molto bene che la morte non è un’esperienza che ognuno di noi può fare «attualmente» per poi rifletterci e parlarne agli altri. Noi possiamo riflettere solo sulla vita e sulle esperienze che la attraversano, la caratterizzano e la compromettono. Ciò non significa, però, che la vita sia a nostra disposizione più di quanto lo sia la morte. La vita non è il decidere di percorrerla (progetti, impegni, svaghi) così come la morte non è il decidere di provocarla (omicidio, suicidio). Si prenda il caso in cui si decide di togliersi la vita: la morte non avviene, anzitutto, nel momento del suicidio, ma quando gli eventi hanno spinto l’individuo a togliersi la vita. C’è qualcosa di peggio della morte, ed è precisamente ciò che ci induce a invocarla, ossia ciò che è prima della nostra decisione. Parallelamente, la vita non consiste solo nelle scelte che facciamo per gestirla, ma anzitutto in ciò che ci consente di fare delle scelte. La parola chiave è anticipazione. La vita ci anticipa nel nostro essere organismi biologici, psichici e sociali. Il modo di tale anticipazione, poi, consiste non in questo o quell’aspetto dell’esistenza, ma nella complessità delle componenti che si intrecciano nel costituirsi della persona, ossia nell’armonizzare le sfere delle emozioni, delle azioni, delle conoscenze. La seconda parola chiave è, quindi, complessità. Ogni individuo sperimenta tale complessità nel costante confronto con se stesso, con gli altri e più generalmente con l’ambiente circostante. Abbiamo, così, la terza parola chiave del rapporto vita-morte, che è la relazione.

1. L’anticipazione

L’anticipazione è la prima mediazione culturale della morte. Alla base, come si è detto sopra, è la valenza anticipatrice della vita: valenza che viene espressa dalle diverse società e trasmessa alle nuove generazioni attraverso la costruzione culturale di simboli, miti e riti. A questo livello, le culture operano come dispositivi che tendono a creare equilibrio tra ciò che appartiene a un gruppo umano (che in buona parte coincide con la tradizione degli anziani) e le nuove situazioni che esso si trova ad affrontare (soprattutto a causa delle istanze dei giovani). Poiché la conflittualità è il rischio costante di ogni società, è indispensabile conservare e promuovere l’equilibrio attraverso i dispositivi culturali, e in particolare attraverso i processi di iniziazione. La strategia fondamentale consiste nel pre-avvertire dei rischi insiti nella vita (aggressività, violenza, guerra, malattia, vecchiaia) in modo che gli individui non si trovino del tutto sorpresi e sconcertati quando quei rischi si presentano in tutta la loro drammaticità. Il rischio assolutamente inevitabile è la morte. Per questo motivo, essa è trascritta in simboli costantemente presenti negli universi di senso di tante società. Un caso tipico è costituito dall’iniziazione, con la quale i giovani (spesso adolescenti), nel pieno vigore della vita, sono posti di fronte alla morte con processi educativi che tentano di integrarla nella più ampia visione del gruppo, e, soprattutto, di confrontarla con la vita. La morte, che biologicamente sembra confinata alla fine della vita, viene culturalmente anticipata in modo da ottenere due effetti di notevole rilevanza. Il primo effetto è che le diverse forme di perdita, tra le quali la morte è l’espressione emblematica, vengono integrate nell’approccio globale alla vita: il limite, la finitezza, il fallimento, non sono semplici e imponderabili errori di percorso, ma parte di una vita che è sempre in dinamica con la morte. Ma vi è di più. L’immagine che ci facciamo dell’esistenza può essere così sprovvista di senso del limite da portarci a comportamenti irresponsabili, e ultimamente distruttivi della vita. La morte, come parte integrante del proprio immaginario, costituisce forse la più grande disciplina della vita. Essa sottopone i percorsi dell’esistenza al senso di relatività perché ne smonta una delle illusioni più frequenti con cui li carichiamo: l’eternità. Abbiamo, qui, il secondo effetto dell’anticipazione culturale della morte, ossia la disciplina della vita attraverso la sua riconduzione alla relatività del tempo. La morte disciplina la vita dandole il senso del tempo.

La tesi emergente è che una cultura di vita è sorprendentemente legata alla memoria anticipatrice della morte. Senza questa memoria anticipatrice, si tende a un’eternità («prima» della morte) che finisce per sovraccaricare la vita facendola scoppiare dall’interno. Un rischio a cui non sfugge la nostra società, tesa a un «oggi» intramontabile che rende incapaci di sentirsi contemporanei delle diverse tappe della propria età, dei propri venti, quaranta o sessant’anni. La posta in gioco è di camminare col tempo, di camminare col cambiamento delle proprie condizioni fisiche e mentali, ossia di accogliere le possibilità della vita senza cadere nella presunzione di onnipotenza. Con l’emarginazione culturale della morte la vita è un delirio di onnipotenza che prima o poi si trasforma in violenza o emarginazione. La vita è indubbiamente compromessa dal fatto che sia interrotta dall’evento della morte, ma è altrettanto compromessa dalla dimenticanza di tale evento. La nostra situazione attuale, quella cioè della nostra cultura, presenta dei problemi, come si è accennato sopra, ma anche delle possibilità da non trascurare. Mi riferisco al fatto che ci si sta allontanando dall’illusione di una realtà solo e tutta al positivo (tipica della prima modernità), per accogliere la complessità della condizione umana, con l’intricato, ma più autentico, gioco tra positivo e negativo. Soprattutto ci si sta sempre più accorgendo della complessità delle dinamiche che operano negli individui.

2. La complessità

La tendenza alla complessità implica anzitutto il superamento del riduttivismo intellettuale, ossia il superamento della convinzione che il senso del vivere e del morire riguardi prevalentemente la componete razionale dell’uomo. A tal proposito, sarebbe un grave fraintendimento confondere l’anticipazione culturale della morte, di cui si è parlato sopra, con la trasmissione di un pacchetto di informazioni sul morire. Come la vita, nel suo senso autentico, riguarda tutto l’uomo e non una sua parte, anche la morte non riguarda un aspetto dell’uomo, e meno che mai il solo aspetto conoscitivo, ma la complessità delle sue componenti costitutive. Insieme al dolore, la morte, è un fenomeno che investe le azioni e le emozioni, oltre che le conoscenze. Il lavoro culturale non può quindi limitarsi a un semplice insegnamento scolastico, anche perché in tal modo si rimarrebbe su un piano astratto e poco incisivo. Com’è stato più volte sottolineato, l’idea astratta della morte ha poco in comune con la sua prossimità esistenziale. Il primo impatto significativo, infatti, è di tipo emotivo: la morte è la paura (di perdere la vita), talvolta il desiderio (di lasciare una vita insopportabile) o altro ancora, ma in ogni caso non è mai un semplice concetto. Ciò significa che la cultura riesce a integrare la morte nel senso della vita, solo a condizione di attivare la sfera emotiva soprattutto durante i percorsi di educazione, formazione, iniziazione. A ciò si deve aggiungere il riferimento alla sfera dei comportamenti, sui quali incidono profondamente la paura, il desiderio e le altre emozioni coinvolte dalla vita e dalla morte. Le azioni, tanto sotto il profilo dei motivi che le precedono quanto sotto il profilo delle modalità con cui sono compiute, sono strettamente connesse al senso del tempo, e in particolare del futuro, che è anche il tempo strettamente connesso alla morte. Ma vi è di più. L’azione è anzitutto la «possibilità di agire», nel senso che svela le condizioni e i limiti del nostro potere. La possibilità di agire, con le varianti personali (età, sesso, salute…), è la vita in costante confronto con i suoi limiti, e soprattutto con la morte. La prima impressione di fronte a un cadavere è che non agisce. L’azione diventa così la demarcazione elementare tra vita e morte. Di conseguenza, l’educazione culturale a una vita che si confronta con la morte, non può compiersi senza passare attraverso delle azioni, così come non può esimersi dal confronto con le emozioni. Su questo punto si apre un capitolo particolarmente difficile per un aspetto rilevante della nostra società, e più precisamente per quello riguardante la tecnica. Questa, infatti, sembra proporsi come un’azione che si fonda su una vita senza morte. Il punto critico è però presto raggiunto, dato che all’immortalità della tecnica (dei suoi continui e sempre più accelerati progressi) non corrisponde l’immortalità dell’uomo. La tecnica diventa, così, l’unica cosa importante, dato che è immortale, mentre l’uomo è solo un sottoprodotto, destinato a scomparire perché mortale. Si incomincia, per esempio, a comunicare con l’altro attraverso il computer, ma alla fine si è interessati a comunicare col computer, quasi figura dell’eterno, più che con l’altro, figura deludente di mortalità. Rimane ancora forte il fascino di incontrare l’altro, ma il rischio è di rimanere delusi. La questione apre il capitolo sulla relazione. Ora interessa solo segnalare che le azioni sono forme di vita tutt’altro che innocue e indifferenti, tanto più che sono strettamente connesse alle emozioni e alle conoscenze. Da tutto ciò emerge l’esigenza di un’anticipazione culturale della morte fondata sul coinvolgimento globale dell’uomo, ossia fondato su percorsi che dicono la dinamica vita/morte attraverso le emozioni, le azioni e le conoscenze.

3. La relazione

La complessità è intrinsecamente legata alla relazione, sia per quanto riguarda la vita in genere sia per quanto riguarda il morire. Il fenomeno del morire appartiene, indubbiamente, a ognuno di noi: è qualcosa di profondamente personale. Sappiamo che l’uomo è solo con la propria morte, dato che i vivi non possono condividere col morente ciò che non hanno ancora sperimentato. I vivi possono essere vicini al moribondo ma non possono comprendere fino in fondo ciò che sta provando. È un fatto incontrovertibile che ognuno di noi non può parlare della morte se non per interposta persona. Nessuno di noi può parlare, adeguatamente, della propria morte. Chi è ancora in vita può parlare solo della morte dell’altro: per chi è ancora in vita la «morte» e l’«altro» sono inscindibili. In tal modo il fenomeno del morire, almeno per coloro che ne possono parlare perché ancora vivi, è segnato dall’alterità: se mi occupo della morte, mi occupo dell’altro, perché la morte è un fenomeno che posso osservare solo nell’altro. Ecco perché la dimenticanza della morte è la dimenticanza dell’altro: una società che anestetizza dal senso della morte, anestetizza dal senso dell’altro. L’umanità, nelle più diverse aree geografiche ed epoche storiche, non si è lasciata anestetizzare, ma ha reagito alla morte di un proprio membro prendendosi cura di lui, del suo corpo, della sua casa (parenti, amici). Il «lutto» è questo «prendersi cura dell’altro». Alla base sta la convinzione che le vicende dell’altro, e soprattutto l’ultima vicenda visibile dell’altro, non sia indifferente per la società e per i suoi singoli membri. Questo «prendersi cura» ha subito cambiamenti radicali in tempi più recenti, dato che i legami parentali e sociali sono segnati da un diverso modo di vivere la propria individualità e da un diverso coinvolgimento dei sentimenti. Su questi punti, gli ultimi due secoli presentano delle grandi novità. Le espressioni del lutto subiscono forti cambiamenti, particolarmente evidenti nel XX secolo, anche se le premesse di tali cambiamenti affondano le radici in epoche precedenti. Per rendersi conto di questi mutamenti è bene tener presente un fatto che sembra incontrovertibile: nella maggior parte delle società umane, il lutto ha la forma di un rito, in cui vengono coinvolti individui, tempi, spazi, gesti, abbigliamenti, pasti, danze, e altro ancora. Proprio su questo punto l’epoca moderna mostra i segni di profondi cambiamenti rispetto alle altre epoche e società umane. Se però ci si riferisce a tempi più recenti (alla tarda modernità o postmodernità) si possono registrare sensibilità di controtendenza. La vita appare sempre più legata a fattori che sono molto più ampi rispetto alle concezioni meccanicistiche di un certo scientismo passato. In modo particolare, il pluralismo culturale ha consentito alla nostra civiltà occidentale di confrontarsi con percorsi diversi, tanto nel modo della vita quanto nei confronti della morte. Indubbiamente, il pluralismo pone seri problemi alla costruzione di una cultura e di una iniziazione compatti e impegnativi, ma consente anche di approfondire le radici profonde dei nostri problemi.

Un caso emblematico e su cui vale la pena soffermare l’attenzione è l’atteggiamento ecologico. Non tanto l’attenzione a una pretesa natura pura dalle incursioni umane, ma al senso di appartenenza a un tutto che qualifica ogni fenomeno, evento, individuo in relazione agli altri fenomeni, eventi, individui. La vita e la morte sono componenti di una rete di relazioni che rende ormai desueta ogni impostazione o soluzione parziale e individualistica. Non perché non sia prezioso il singolo, ma perché la stessa esistenza del singolo è rintracciabile solo nella relazione con tutto ciò che è «altro» dal singolo. La vita e la morte sono indubbiamente «fatti» personali, ma non isolati, dato che sono inscritti nell’insieme della biosfera e della sociosfera. Il ricorso al termine «relazione» è fondamentale, perché con il riferimento all’ambiente biologico e sociale non si intende rimandare alle componenti comuni agli individui, ma proprio ciò che rende possibile la differenziazione degli individui. Con atteggiamento ecologico (fisico e culturale, biologico e sociale) si intende che la relazione al differente è la condizione della propria identità. Su questa linea si potrebbe profilare una nuova cultura e, quindi, una nuova mediazione culturale della morte.