Paolo Boschini – docente di filosofia e scienze sociali presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

Questa benedetta parola «crisi» accompagna noi europei da oltre un secolo e, ovviamente, non risparmia nemmeno i cristiani, le loro chiese, il loro vangelo.

C’è una differenza tra l’uso della parola «crisi» ai giorni nostri e nel primo Novecento. Allora bastava il sostantivo, perché la crisi era percepita come qualcosa che aveva il potere di frenare la gioiosa macchina da guerra del progresso. Oggi invece la crisi ha bisogno di almeno un aggettivo di accompagnamento: forse per rompere la monotonia di quel «siamo in crisi», che da almeno trent’anni ci è divenuto familiare come il pane. Ecologica, energetica, sanitaria, politica, economica, sociale, geopolitica, vocazionale, morale, matrimoniale, pastorale… La lista è ancora più lunga. Fatto sta che la parola «crisi» ha cambiato il suo antico significato. Prima indicava una situazione di soglia tra vita e morte, tra bene e male, di fronte a cui urgeva una decisione: ponderata e rischiosa al tempo stesso. Indicava tutte quelle situazioni in cui si è a mezza via tra la sfida e la scommessa, tra il pericolo di precipitare nell’abisso e l’improvviso colpo d’ala che riporta tutti in quota. Oggi, grazie anche all’uso discriminato che ne fanno i canali di comunicazione indica quasi esclusivamente il precipizio.

Quando vogliamo qualificare l’odierno essere in crisi riferendoci a noi stessi, alla nostra relazione con l’ambiente sociale e con quello vitale, usiamo l’aggettivo «antropologico». Non crisi però, ma sfide antropologiche. Il plurale è d’obbligo, perché viviamo in una realtà sempre più policentrica e pluralista, che chiede a tutti di pensare in modo prospettico e di riconoscere che l’essere dell’uomo si dice in molti modi; e parimenti chiede di cercare la verità sull’uomo con un atteggiamento di attenzione, di speranza e di attesa, aperto in tutte le direzioni. Ogni cambiamento d’epoca – quello che generò il Concilio Vaticano II, come quello odierno – richiede un «aggiornamento» della nostra antropologia. Non basta pensare all’uomo come animale sociale, ma occorre un’estensione della nostra sfera relazionale, fino a diventare animali «eco-sociali». Ciò significa che l’altro, ogni altro essere vivente non può più essere trattato come il termine di una capacità di dominio e di controllo. Il problema quindi non è l’umanità odierna, ma le categorie con le quali essa viene interpretata e spesso giudicata. Il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo porta con sé novità importanti anche per lo stile della vita cristiana, specialmente per ciò che riguarda l’evangelizzazione, intesa come l’insieme complesso di annuncio argomentato e di testimonianza vivente del vangelo. La «rivoluzione digitale» sta cambiando in profondità il nostro modo di comunicare: non solo perché adesso urliamo nel web 2.0 ciò che prima avremmo sussurrato nei bar, ma soprattutto perché negli ultimi vent’anni si è trasformata l’idea di comunicazione. In molte chiese nazionali europee, ad esempio, si sono avviati coraggiosi progetti di rinnovamento della catechesi e della pastorale giovanile, suscitando un movimento a tratti impetuoso di idee e pratiche educative, che almeno in Italia ha toccato il suo apice sul finire del secolo XX. Anche l’omiletica è stata ripensata dalle fondamenta, per adattarsi meglio alle domande spirituali del nostro tempo. Non esistono più i destinatari dell’evangelizzazione: a differenza della comunicazione pubblicitaria e del marketing, la comunicazione del vangelo non conosce un consumatore finale, da persuadere senza che egli se ne accorga. L’evangelizzazione è interlocuzione, in cui non ci sono un emittente e un ricevente di ruolo.

A che punto siamo con questo cambiamento di paradigma comunicativo: da destinatari a interlocutori? Nel 1992, poche settimane prima di morire tragicamente in un incidente stradale, un testimone autorevole dei tempi post-conciliari come Ernesto Balducci lamentava che la Chiesa cattolica non era ancora riuscita a sottrarsi all’«inesauribile monologo» degli uomini occidentali, che ascoltano soltanto se stessi e inesorabilmente si trasformano in «ragionieri che camminano dove camminavano i profeti». Balducci proponeva una decisa «svolta antropologica», che consiste nel mettersi in «umile ascolto dei segreti dell’uomo», facendo parlare gli altri: «i neri, i gialli, gli indios». Che dialogo è, se la Chiesa e i cristiani tengono sempre in mano il microfono, raccontando l’umanità degli altri e decidendo di volta in volta chi far parlare? Per rompere il monologo della convenzionalità, occorre dedicarsi all’«uomo inedito», l’uomo conviviale, capace di gioire delle differenze e di abitare in esse. Il vangelo suona così come un invito, rivolto a tutti, ad attingere all’inesauribile creatività del divino per rinnovare la memoria non solo della Chiesa, ma anche della società, traendo dal suo tesoro le risorse per intraprendere nuovi cammini, avviare nuovi processi che mettano al centro non l’uomo già visto di questa tarda modernità, ma l’uomo nuovo, che vive allo stato di latenza nelle profondità della storia dell’umanità. La Chiesa italiana ha molti spazi vuoti: le chiese e le sale parrocchiali, gli oratori e i seminari. Lo erano già prima della pandemia Covid-19, ma ora lo sono ancora di più. In questa situazione ci si affanna per riempire il vuoto tenendo sempre lo sguardo rivolto all’indietro, rimpiangendo e mitizzando le scelte e le situazioni che quel vuoto lo hanno creato. Mettere al centro il tempo non vuol dire cambiare tattica, né usare un linguaggio un po’ più moderno e neppure fare qualche ritocco qua e là all’organizzazione ecclesiale: significa invece diventare «chiesa della soglia», attingere dai «rincomincianti» energie e parole nuove per sostenere lo slancio dell’evangelizzazione, plasmare le relazioni di cura secondo i principi di reciprocità e di benevolenza che sin dagli inizi caratterizzano l’azione evangelizzatrice.

Questo ci pone di fronte a una visione teologica nuova della Chiesa e del suo abitare il mondo: non più un’idea uni-centrica, spaziale e inevitabilmente piramidale e burocratica; ma un’immagine policentrica, dinamica e felicemente sinodale e fraterna. Per supportare questo necessario cambio di paradigma ecclesiale, che è anche una trasformazione del nostro modello di evangelizzazione (dalla unidirezionalità alla reciprocità), è indispensabile un intenso lavoro culturale, che coinvolga in modo flessibile l’intero corpo ecclesiale: una rivitalizzazione della fede pensante, che necessariamente farà perno sulle facoltà teologiche italiane e sulle loro articolazioni locali. Se però non si innova il pensiero e la sua capacità di interagire con la prassi, difficilmente si riformano le organizzazioni e i ruoli al loro interno. Ciò vale anche per la Chiesa. È diventata famosa la richiesta di papa Francesco di «avere dappertutto chiese con le porte aperte» (EG 47): qui realtà e metafora si mescolano. Ci sono ancora molte barriere, soprattutto caratteriali, comportamentali e culturali. Perché le porte delle chiese rimangano aperte ai cercatori di Dio, occorrono visioni lungimiranti e strategie di lungo periodo, il che significa: passare dal sapersi depositaria di una verità infallibile a sentirsi portatrice di una verità itinerante e prospettica.

Da oltre vent’anni si discute delle relazioni tra l’evangelizzazione e gli ambienti digitali, che da allora a oggi sono diventati sempre più preponderanti nella vita di almeno metà dell’umanità contemporanea. Il web 2.0 pullula di progetti strutturati, ma anche di tentativi estemporanei per gettare la rete della Parola nel mare della nuova comunicazione mass-mediale. Anche nell’impegno dell’evangelizzazione non ha più senso contrapporre le relazioni on-line a quelle off-line, come se queste ultime fossero la matrice e le altre la copia. Le relazioni fatte di byte non sostituiscono, né surrogano quelle fatte di sguardi e di abbracci (e viceversa): esse si integrano, consentendo che la parola evangelica ascoltata all’orecchio sia gridata sulle terrazze. Da sole, le carovane chiassose e variopinte che si formano sulle autostrade digitali non riescono a far maturare quel senso di profonda appartenenza gli uni agli altri che forma una «comunità in cammino». Perché ciò avvenga, c’è bisogno di un tempo disteso, perché l’attimo del byte è un tempo troppo contratto: consente di vedere, ma non di incontrare l’altro. Ecco un’altra crisi, cioè un altro punto di svolta e di scelta, che attende dietro l’angolo gli evangelizzatori degli anni a venire. C’è da sperare che non sia una scelta dettata dalla paura degli spazi vuoti, ma dalla promessa della pienezza dei tempi.

Tratto da Orientamenti Pastorali n. 1/2(2023). EDB. Tutti i diritti riservati