Domenico Sigalini – presidente del COP 

C’è qualcuno che mi può dire dove sta la pienezza della vita, che non mi dice che devo far tacere i sogni, ma che posso realizzarli? Esiste qualcuno che è la felicità, che mi toglie dall’attenzione alle cose, ma che mi riempie lui come persona di felicità perché è la felicità stessa?

Diceva uno dei catechismi della CEI che «la vita non è una nave tranquilla che scivola da sola verso il porto della felicità. Su di essa in ogni momento siamo impegnati noi come timonieri, con la responsabilità di definire la rotta. A noi tocca decidere quale esperienza fare dell’amore, come affrontare i giorni della solitudine, che tipo di felicità ricercare, che senso dare ai nostri insuccessi, come investire le nostre qualità a favore della vita di tutti, che direzione dare all’economia, alla scienza, alla politica».

Il primo compito è di aiutare i giovani a formulare in maniera piena la domanda di felicità, senza accontentarsi del piattume imperante. Siamo in grado di formulare una domanda così di felicità? Già formulare così la domanda è indirizzarci a una risposta: la felicità è una persona, non possono esserlo le cose. Diceva Giovanni Paolo II, in un memorabile discorso fatto ai giovani durante la GMG del 2000: «Ogni essere umano, prima o poi, si ritrova a esclamare con Pietro: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Solo Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio e di Maria, il Verbo eterno del Padre nato duemila anni or sono a Betlemme di Giudea, è in grado di soddisfare le aspirazioni più profonde del cuore umano. Nella domanda di Pietro: “Da chi andremo?” c’è già la risposta circa il cammino da percorrere. È il cammino che porta a Cristo».

È una risposta che può avere il sapore di un corto circuito, mentre vorremmo ancora indugiare a interrogare la nostra vita, a dirci dove abbiamo trovato felicità, dove siamo stati felici, chi ci ha aiutato a vincere quella voglia di prendere la finestra di corsa. Certo, può essere un corto circuito se la prendiamo come rispostina del catechismo, come formula che fa tacere il problema, come un’altra botola che chiude un tombino; ma nessuno la crede se non regge alla prova della vita.

Questa domanda è legata alla voglia di novità, che non è solo di cose, ma di essere donne e uomini nuovi, ragazze e ragazzi nuovi.

 Uomo «vecchio» è il giovane che cerca la novità per se stessa e si affanna a inventare il cambiamento per il cambiamento, immergendosi così in una vita sradicata, ridotta a continua esplorazione senza meta in una sorta di soggettività «senza dimora».

Uomo «vecchio» è il giovane che affida la sua fame di novità a desideri senza limite, come se in essi ci sia una promessa di eternità.

Uomo «vecchio» è il giovane che si lascia imbrigliare dalle opere dell’egoismo: avidità di denaro e conseguenti atti delinquenziali per ottenerlo, disprezzo della propria e altrui vita, tempo libero vissuto nella noia, uso di droghe, violenza e libertinaggio sessuale, fragilità e suicidio, sfruttamento dei genitori, sincretismo religioso, satanismo e magia, rigurgiti razzisti e disprezzo degli immigrati, cecità di fronte alle tragedie umane…

Uomini e donne nuovi sono invece giovani vivi, ricchi di umanità, piegati fino in fondo al servizio e all’amore, alle prese con i problemi, le difficoltà, gli entusiasmi e le incertezze di ogni giorno, che si affidano e fanno riferimento esplicito a Gesù di Nazaret e al suo progetto di vita, radicati dal suo stesso Spirito su di lui, roccia indistruttibile.

È un giovane nuovo il cristiano che compie con franchezza scelte contro corrente, trovandosi di fronte a chi non riesce a capire,

È un giovane nuovo il giovane che sogna. Il sogno è sinonimo di libertà, di intuizione, di vedere prima e lontano, di tenacia contro ogni avversità o difficoltà, di non adattamento, di superamento della gravità dell’essere, di superamento dei paletti, di speranza, di vocazione, di progetto, la bocca fino alle orecchie dalla meraviglia, l’amore e le sue sorprese.

È sempre più grande il numero di giovani che hanno sete di Dio e non trovano fontane a cui estinguere la loro sete; a volte hanno una domanda religiosa, ma non incrociano le proposte della comunità cristiana e disperdono l’intensità della ricerca nei rivoli delle sètte, della superstizione e della magia.

La scuola cattolica si deve sbilanciare dalla parte della relazione globale educativa, coinvolgendo anche i genitori e il territorio. Immagino che la scuola cattolica renda obbligatori corsi formativi per genitori, capaci di creare una costituente educativa tra tutti gli interattori della vita dei ragazzi e stabilisca tutti i tavoli possibili per creare un ambiente educativo con il mondo dello sport, del tempo libero, del volontariato, delle istituzioni.

La scuola cattolica è in grado di rispondere a questa domanda religiosa se come scuola sa allargare lo spazio della razionalità. Siamo di fronte a una grande sfida culturale!

L’articolo completo su Orientamento Pastorali n. 10/2022 (EDB – tutti i diritti riservati)