Emilio Baccarini – professore associato di antropologia filosofica presso l’università di Roma Tor Vergata

Partiamo, in questo breve percorso che ci interrogherà sulla visione filosofico-antropologica dell’amore, anche nella prospettiva cristiana,  dalla domanda filosofica per eccellenza: che cos’è l’amore? Immediatamente però avvertiamo che l’amore non è una cosa e quindi non è una sostanza a cui si possa applicare la domanda «essenziale», che cos’è?  Non sappiamo cosa sia, né siamo in grado di esprimerlo. Possiamo dire che l’amore costituisce un bisogno ontologico originario la cui insoddisfazione priva la stessa umanità della sua valenza più propria di umanità. Che significa allora «bisogno d’amore»? È possibile un’antropologia senza amore? È possibile una visione dell’umano che prescinda totalmente da una doppia forma verbale costitutiva, che vedremo decisiva, amare ed essere amati?

L’amore, prima che un sostantivo è un verbo, amare, l’atto compiuto da un soggetto personale. Che cosa si intende oggi con «soggetto»? Il termine soggetto, nella sua polivocità può essere assunto secondo una valenza ontologica, logico-grammaticale, psicologica e gnoseologica. Queste poche indicazioni per dire la difficoltà di pensare un’antropologia dell’amore. Amare, infatti, è un atto in cui converge tutto l’ampio variegato mondo delle emozioni e quindi della corporeità. L’amore, nella duplice veste donare-ricevere, è veramente l’indicazione più autentica della manifestazione del senso compiuto dell’umano. Forse è proprio l’esperienza quotidiana della incompiutezza e della frammentazione della soggettività, della dispersione e quindi della mancanza di un centro di orientamento ciò che ci caratterizza. Nasce da questa particolare situazione anche la difficoltà di amare nel senso più autentico della parola. Un soggetto incapace di fare riferimento a sé stesso, di sentirsi centro delle proprie azioni o, anche, al contrario, chiuso esclusivamente dentro i propri confini, e quindi incapace di aprirsi, non sa amare. Un’analisi dell’atto d’amore consente di cogliere tre strati separati, ma profondamente interconnessi: lo strato dell’io, lo strato del tu, lo strato di Dio.

Abbiamo già detto che l’intenzione primaria dell’atto d’amore, dell’amare, deve necessariamente radicarsi in un soggetto che si definisca come soggetto d’amore. L’esplicitazione di questo radicamento non è però univoca se può esprimersi almeno in tre modi diversi: io amo, io mi amo, io ti amo. La prima espressione dice la consapevolezza di essere all’origine di un atto che muove da sé, ma è proiettato fuori di sé, verso una trascendenza che è sempre l’intenzione fondamentale di ogni atto d’amore. L’obiettivo dell’amore è sempre un’alterità che chiama e sollecita da fuori del sé. Ben diversa è la seconda espressione, io mi amo, che però è forse una delle forme decisive dell’amore contemporaneo soprattutto se si analizza il piano delle emozioni. È l’affermazione di un’identità senza alterità, di un’identità fluttuante e totalmente dipendente dalla suggestione delle emozioni. È quanto meno paradossale usare l’espressione mi amo e, tuttavia, è una delle modalità più frequenti di «chiusura all’amore», in quanto incapacità di uscire da sé e dalla propria immagine. L’innamoramento narcisistico è l’incapacità di vedere altri volti accanto al proprio, oltre al proprio. Essere soli al mondo, questa è l’illusione di Narciso da cui si origina l’incapacità di amare. O, più drammaticamente l’illusione che la pienezza dell’amore consista esclusivamente nell’amarsi. Il passaggio dalla prima alla seconda persona, ti amo, indica la trasformazione più significativa nell’espressione dell’amore. Il pronome personale dice immediatamente relazione, ma al tempo stesso il tu mette in gioco l’io in maniera diretta. Il verbo amare pur nella sua originarietà si manifesta come risposta, risposta affettiva a una chiamata. Il verbo amare ha certamente un valore in sé, ma non si può nascondere la sua valenza di «vocazione». L’amore può nascere solo da una chiamata all’amore. Chiamati all’amore dall’amore. Quando due persone si dicono reciprocamente ti amo, si riconoscono come convocati a un cammino in comune in cui si esce dalla chiusura di Narciso e si accoglie la differenza come significato della propria identità. A mio avviso è questa la radice antropologica, l’origine del senso della famiglia che, da un lato, trova in sé stessa la propria finalità, ma che è insieme il centro di convergenza e di ripartenza di strade di diversa provenienza. È una struttura che nasce da un imponderabile mistero, è l’evento che deborda e scompone ogni schema di indagine e che nasce dall’incontro amoroso di due libertà. L’origine della famiglia si colloca così nel mistero di una libera scelta d’amore. L’uomo e la donna protagonisti di questa reciproca libera scelta rispondono entrambi a una vocazione di vita al plurale. Questo è lo spazio più proprio degli affetti. Il soggetto della famiglia non è più io, ma noi. Ciò che si manifesta in questa vocazione è una vita che attraverso l’amore si pone come esigenza di espansione. La famiglia come struttura plurale è, allora, il paradosso di un evento che chiama a un radicale mutamento di prospettiva che passa dal mio al nostro e in tal modo ridefinisce il proprio spazio-tempo esistenziale. In questa vocazione alla pluralità risiede, credo, il significato più vero della fecondità coniugale, che non significa solo la procreazione, bensì crescita nella reciprocità. In questo senso acquista il senso più vero anche l’esercizio della sessualità. Parlare quindi della famiglia come struttura ha senso solo se questa è intesa come mai definitiva, ma sempre in divenire. Si diventa sempre più famiglia nell’intreccio continuo delle cure, del prendersi cura reciproco, e degli affetti che di queste cura sono la manifestazione. In questo dinamismo acquista il suo senso più pieno la struttura relazionale della persona. L’identità relazionale reclama per sé, come si accennava sopra, il bisogno di uscire dai rigidi confini che costituiscono l’identità statica per proiettarsi oltre sé.

Il primo amore che si dà all’imperativo è però l’amore di Dio filosoficamente e teologicamente ambivalente nella forma soggettiva e oggettiva del genitivo: l’amore per Dio e l’amore di Dio per noi. In ogni amore l’essere umano cerca la pienezza del significato; ogni amore umano, per potersi mantenere al livello di umanità, ha bisogno di questa mediazione assoluta. Nell’amare Dio, nell’amore per Dio trova compimento il desiderio assoluto dell’Assoluto che abita il cuore dell’uomo. Ogni amore, infatti, è per definizione «desiderio di trascendenza». Al tempo stesso si riconosce Dio come la fonte dell’amore. In questa ottica amare Dio acquista il significato del riconoscimento della gratuità dell’amore di Dio. Entriamo qui nella logica dell’agape che è il proprio del messaggio evangelico. Logica della gratuità e del dono. A questo punto si interrompe la logica performativa dell’atto d’amore a cui accennavo e siamo condotti in un’altra dimensione in cui anche l’amore cambia di significato e diventa invito (comandamento) ad assumere un altro modello che è il Cristo stesso.

Abbiamo accennato all’amore del prossimo che l’evangelista Marco (12,31) narrando una risposta di Gesù su qual era il comandamento più grande riprende: «Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». La novità cristiana, quella che costituisce la sfida più radicale, da un punto di vista esistenziale ed antropologico, la troviamo espressa nella maniera più efficace dall’evangelista Giovanni (13,34-35): «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». Il criterio dell’amore oltrepassa qualsiasi misura e si colloca nel piano dell’assoluto (come io ho amato voi). Resta questa la sfida più radicale che ha come proprio obiettivo la costruzione di una comunità umana in cui dichiarare: ti amo, significa immediatamente anche attestare di essere consegnato all’altro secondo una logica della sequela per dirla con Bonhoeffer o secondo il logos tou staurou, la logica della croce, per riprendere Paolo.

(Tratto da Orientamenti pastorali n. 5/2022, EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati)