Fabio Scarsato – già direttore editoriale del Messaggero di sant’Antonio

Nel titolo di questo contributo, parliamo di virtù in senso analogico… ma il fatto stesso che a qualcuno sia venuto in mente di chiamarle così, e non, supponiamo, metodologie, tecniche, attenzioni, ci autorizza a rileggerle proprio a partire da questa alta e ingombrante definizione…

Ne parliamo certo non nel senso delle virtù cardinali, che sostengono, come altrettanti cardini, l’intera vita cristiana, per non parlare poi delle tre teologali. È anche vero che molte altre probabilmente potrebbero essere proficuamente le virtù da invocare. Ma certamente, non ne parliamo nel senso loro attribuito da Aristotele, per il quale la virtù è una disposizione acquisita con il proprio sforzo, per fare il bene secondo quanto viene dettato dalla retta ragione. Definirle virtù, cioè, significa per noi considerarle non solo umane, troppo umane, ma frutti dello Spirito Santo: le azioni buone del cristiano dipendono quindi, sì, dal libero sforzo umano, ma più ancora dallo Spirito.

La virtù, secondo le classiche definizioni, è un abito operativo buono, è perciò creativo, e la carità è la forma delle virtù, almeno cristianamente intese… perché tutto deve indirizzare infine a Dio. La virtù, di nuovo, non è una posa, ma un movimento, tanto più se è in cammino, per strada.

Pensare che queste siano virtù, ci aiuta anche ad essere consapevoli che niente, neanche una Chiesa perfetta, sarà semplicemente frutto nostro e delle nostre presunte o vere capacità. In tal senso, il contrario della virtù non è il vizio, se non eventualmente quello del delirio di onnipotenza, ma piuttosto la mancanza di fede… E, subito dopo, una religione da sdraiati.

Non ci interessa qui cogliere la corrispondenza o meno tra le virtù del nostro titolo e quelle enumerate da Francesco, né usarne alcune delle sue per arricchire il nostro carniere «virtuoso». Alcune analogie però saltano all’occhio e vorrei evidenziarle, se può essere utile.

Intanto l’accoppiamento delle virtù a due a due, neanche anch’esse fossero evangelicamente inviate nel mondo a due a due a preparare l’arrivo di Gesù (cf. Lc 10,1). Qualcosa di più posso ardire di condividere con voi sulla scelta invece di Francesco. Che accoppia le virtù, insistendo su questa idea definendole tra loro persino «sorelle», quasi per sprigionare da ognuna tutta la loro forza. Ma allo stesso tempo per porre un argine a ciascuna di esse, che, appunto, solo nell’accoppiata con la propria sorella sembrerebbero scaturire tutta la propria potenzialità. Come se ognuna da sola fosse incompleta, mancante di qualcosa di essenziale o a rischio di qualche deviazione. Ognuna è quasi «correzione» dell’altra.

Facciamo solo un esempio: la santa povertà e sua sorella la santa umiltà. Francesco è consapevole che la povertà, tanto più se radicale (e lui sapeva di cosa si stesse parlando!), se non va a braccetto con l’umiltà può facilmente degenerare in orgoglio, giudizio, superbia, o anche più semplicemente nel sentirsi migliori e più bravi degli altri. Insomma, che l’umiltà «corregge» la povertà.

E, ugualmente, un solo esempio dal nostro titolo: ascolto-dialogo.

Da una parte l’ascolto, del resto molto citato nei documenti preparatori del Sinodo e della sinodalità della Chiesa italiana, è la capacità di attivare mille orecchie e mille occhi. Che però se non diventa dialogo è sterile, e soprattutto autoreferenziale. Perché si può vedere senza aver in realtà visto nulla, e udire senza comprendere (cf. Lc 8,10). Mentre è il dialogo che ci fa umani, ci fa andare-nella-prossimità.

«Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. “Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (Evangelii gaudium, 227) […] Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia».[1]

Viviamo in tempi difficili, non c’è dubbio, anche se forse non molto più di quanto non lo fossero tutti i tempi che ci hanno preceduto. «C’è chi non sa dove andare [anche nella Chiesa], ma sta correndo per andarci subito», per dirla con Tonino Guerra. «Oggi il cristianesimo non sta più – anche laddove esso ancora c’è – sui suoi piedi. Nella misura in cui esso vive ancora, sta in affitto in casa d’altri»,[2] per dirla invece con Karl Barth.

Che le virtù di cui abbiamo parlato ci aiutino a ricalcolare il percorso verso il paradiso.

[1] Papa Francesco, Incontro con i rappresentanti del V convegno nazionale della Chiesa italiana. Cf. Commissione teologica internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 2 marzo 2018: «Attenzione alle esperienze e ai problemi reali di ogni comunità e di ogni situazione» (114).

[2] K. Barth, citato in A. Riccardi, La sorpresa di papa Francesco, Mondadori, Milano 2013, 162.

(tratto da Orientamenti Pastorali n.12/2021, EDB)