Gaetano Bonicelli – presidente emerito del COP

Con un semplice motu proprio datato simbolicamente l’11 febbraio 2017, memoria della prima apparizione di Maria  a Lourdes, papa Francesco passava le competenze sui santuari dalla Congregazione per il clero e anche del culto divino e la disciplina dei sacramenti al Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione.

L’intervento poteva sembrare una scelta di migliore ripartizione dei compiti nella curia romana: da una congregazione a un pontificio consiglio. Anche questo. La decisione del papa si collocava sul fronte di una rivisitazione di tutto l’impianto tradizionale dell’azione pastorale impostato sulle indicazioni del concilio di Trento. Mi spiego. L’asse portante della pastorale secondo Trento è la parrocchia, la catechesi, la sacramentalità. Così l’hanno vista pastori come san Carlo Borromeo, che resta il modello insuperato di questa lunga stagione ecclesiale. E tale, sostanzialmente, è tuttora l’impianto prevalente, almeno nella nostra tradizione italiana e in larga parte dell’occidente.

Cosa diceva di nuovo il motu proprio sui santuari? Non molto direttamente, ma spinge a considerare una realtà che, secondo l’enciclica Evangeli gaudium, è più importante delle idee. Proviamo, a rifletterci un poco, senza pretese naturalmente.

La situazione è largamente cambiata e nulla fa supporre che a lungo possa ancora continuare. La parrocchia fa riferimento a una società rurale, con insediamenti prevalentemente chiusi. Ma oramai, almeno da noi, il 60% della gente vive in città. E anche quanti si trovano in piccoli borghi vengono bombardati da una cultura non certo rurale. Quello che ancora non hanno fatto le migrazioni, l’ha già operato il sistema di comunicazione che ha raggiunto anche i pochi che ancora non navigano in internet e non usano i mezzi più raffinati del sistema. Ci si deve anche complimentare per lo sviluppo della tecnologia che consente esperienze nuove e la moltiplicazione delle prestazioni di lavoro e di svago, grazie alle quali durante l’esperienza del Covid, non ancora del tutto conclusa, non si sono del tutto abbandonate, e perse, esperienze lavorative e liturgiche, seppure a distanza.

Tutto bene dunque? Purtroppo no! Il progresso tecnico non è un vero progresso umano se soffoca o ignora la dimensione spirituale e si riduce ad appiattire la vita, cioè sulle cose che passano.

Si possono moltiplicare le analisi, ma la crisi religiosa che coinvolge anche la Chiesa si basa su questa rottura netta coi valori della trascendenza. Ci sono fortunatamente persone che resistono alla tentazione del disimpegno religioso e magari, proprio nel vuoto culturale imperante, trova lo stimolo a valorizzare e meglio vivere gli imperativi della vita cristiana. Ma la pratica religiosa senza slancio diventa sempre più frequente come è sotto gli occhi di tutti.

Proprio per questo si parla di nuova evangelizzazione che è poi lo sviluppo dell’«aggiornamento» indicato da papa san Giovanni XXIII e sviluppato poi senza pari dalla finezza e precisione di san Paolo VI. Non è senza significato che papa Francesco si rifaccia spessissimo alla esortazione apostolica Evangelii nuntiandi.

Ma perché un santuario si presterebbe più di altre strutture ecclesiali alla evangelizzazione? Paolo VI inserisce nella sua ineguagliabile esortazione le esigenze del popolo, dei poveri, cioè dell’essenziale. Nel secolo scorso molti studiosi a fatica hanno saputo vedere nella gente semplice la capacità di entrare nella lettera e perciò nello spirito del vangelo. La sua precisa attenzione alla religione popolare risolve per sempre la perplessità della cultura e pone in primo piano, nella nuova evangelizzazione, il posto del popolo.

Ma perché i santuari devono essere più considerati nella pastorale? Cosa si trova in essi di più accessibile? «Il santuario possiede nella Chiesa una “grande valenza simbolica” e farsi pellegrini è una genuina professione di fede. Attraverso la contemplazione dell’immagine sacra, infatti, si attesta la speranza di sentire più forte la vicinanza di Dio che apre il cuore alla fiducia di essere ascoltati ed esauditi nei desideri più profondi. La pietà popolare, che è un’«autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio», trova nel santuario un luogo privilegiato dove poter esprimere la bella tradizione di preghiera, di devozione e di affidamento alla misericordia di Dio inculcati nella vita di ogni popolo».[1]

Vediamo un poco più da vicino questa qualificazione.

I santuari sono luoghi che custodiscono il ricordo di un particolare avvenimento e, per questo motivo, parlano al nostro cuore e, in qualche modo, ci coinvolgono nell’avvenimento stesso. La Bibbia, per fare un esempio, parla di una straordinaria esperienza della presenza di Dio che Giacobbe provò durante una particolare notte in un preciso luogo (Gen 28,1-22).

Così nasce un «santuario»: da una intensa e inattesa irruzione del cielo nelle vicende della Terra. E questa irruzione non è intrusione, ma è un dono, una grazia, è una luce che rimane legata al luogo e parla alle generazioni successive. In particolare, ha acquistato un posto di rilievo nella vita spirituale dei popoli la nascita dei santuari mariani.

Senza pretese definitorie ci resta di specificare meglio il perché di questa vera o presunta prevalenza del santuario, o almeno il suo stile di presenza e di azione nella pastorale del nostro tempo, tempo di mobilità estrema e di cultura immanentistica, cioè laica e indifferente.

Il concilio di Trento col suo rigido impianto pastorale legato alla parrocchia ha potuto creare, per quasi cinquecento anni, almeno nel nostro continente, una società che si poteva qualificare come cristiana. Punti forti dell’aggregazione era la presenza capillare di tutti ì suoi organismi strettamente collegati con le parrocchie, cui praticamente tutto era legato. Ma spesso senza attenzione alle nuove esigenze di orari, flessibilità, di apertura alle nuove esigenze dell’organizzazione sociale. «Questi luoghi, nonostante la crisi di fede che investe il mondo contemporaneo, vengono ancora percepiti come spazio sacro verso cui andare pellegrini per trovare un momento di sosta, di silenzio e di contemplazione nella vita spesso frenetica dei nostri giorni. Un desiderio nascente fa sorgere in molti la nostalgia di Dio; e i santuari possono essere un vero rifugio per riscoprire se stessi e ritrovare la necessaria forza per la propria conversione. Nel santuario, infine, i fedeli possono ricevere un sostegno per il loro cammino ordinario nella parrocchia e nella comunità cristiana. Questa osmosi tra il pellegrinaggio al santuario e la vita di tutti i giorni è un valido aiuto per la pastorale, perché le consente di ravvivare l’impegno di evangelizzazione mediante una testimonianza più convinta». [2]

Cosa è cambiato in concreto con questo motu proprio del Papa? Vorrei ricordare, tra le tante, due opportunità. La prima è di principio, e cioè che la Chiesa esercita il suo compito pastorale non solo legata alla tradizione, ma alle esigenze del momento.

In queste giornate estive, Covid permettendo, migliaia di persone sono in movimento nelle valli del nord Italia: gare o circuiti ciclistici, maratone o maratonine per ragazzi. Le parrocchie non riescono più ad attirare fedeli. I santuari mariani però, a ore insolite per il ritmo normale della parrocchia, ancora si riempiono. Non si tratta certo di rovesciare gli impegni, ma di valorizzare armonicamente in base alla preferenza. Papa Francesco, nel suo documento più volte citato, evoca l’importanza del pellegrinaggio: «Camminare verso il santuario e partecipare alla spiritualità che questi luoghi esprimono sono già un atto d’evangelizzazione, che merita di essere valorizzato per il suo intenso valore pastorale».[3]

La seconda opportunità è rivedere seriamente le occasioni normali di ogni pastorale per l’evangelizzazione. Solo un esempio. Nei nostri paesi − forse meno in città − le chiese si riempiono per i funerali. Dove meglio profittare per un annuncio motivato dello sbocco cristiano della vita e cioè della risurrezione? Non è con un semplice giro di parole che possiamo cavarcela. Forse sarebbe bene che i pastori d’anime fossero più attenti ai grandi e ripetuti annunci di Gesù e alle testimonianze dei padri, a cominciare da san Paolo fino ai nostri tempi. Sant’Alfonso Maria de Liguori sarà un poco fissato ma sempre attuale. Che dire del cardinal Martini o Comastri − per restare a casa nastra − o ad autori come il fondatore della Comunità di Bose o di tanti altri? Forse la parabola del ricco epulone ha ancora molto da dite ai vivi, in previsione della morte.

Ma soprattutto c’è un’altra opportunità che collega la devozione, nel pieno concetto di san Francesco di Sales, coi santuari: è la presenza e il richiamo della Madonna. La maggior parte dei nostri santuari sono tributari a quel «rinascimento mariano» privilegiato dalle apparizioni dì Maria o comunque diventano un polo di attrazione indubitabile, anche se la cultura non è più quella contadina. Nonostante il contesto oramai investito dalla secolarizzazione, sembra che questi luoghi sappiano ancora custodire quell’incanto del mondo capace dì schiudere una fessura sul regno dell’invisibile.

Davvero nei santuari può fiorire la speranza della Chiesa nel vangelo Gesù.

[1] Francesco, Lettera apostolica in forma di Motu proprio Sanctuarium in Ecclesia”, 01 aprile 2017, n.1.

[2] Ivi, n.3.

[3] Ibidem.