Gigi De Palo –  presidente del Forum delle associazioni familiari

Anche quest’anno, appena un paio di mesi fa, l’ISTAT ha certificato nel 2020 il nuovo, ennesimo minimo storico di nascite dall’Unità d’Italia. Oltre a questo, stavolta, ha dovuto affiancare a questo stitico dato quello ben più tristemente corposo del numero di vittime: mai tante dal secondo dopoguerra. Ma mettiamo in ordine i dati: 404.104 bambini nati nel 2020. Un calo del 3,8% delle nascite, quasi 16 mila in meno rispetto al 2019. Con buona pace degli ottimisti della porta accanto, secondo i quali l’epidemia con i suoi lockdown avrebbe favorito la figliazione. Un’ipotesi che sarebbe stata possibile, se solo non ci fossero stati problemi economici, preoccupazione per il futuro prossimo, perdite di lavoro a centinaia di migliaia, disagi educativi e psicologici per eventuali figli già presenti a causa del protrarsi sine die della didattica a distanza. E, ancora, spazi stretti in casa, litigi per la condivisione dei dispositivi tecnologici, insofferenze, emergenza di disagi vecchi e nuovi che fino a quel punto era stato possibile tenere sopiti.

Una dinamica demografica che ha portato il nostro Paese ampiamente sotto il livello di guardia dei 60 milioni di abitanti. Oggi, in Italia, siamo più o meno 59 milioni 257 mila persone. I demografi, con voce crescente, preconizzano che ben prima del 2035 finiremo sotto la soglia psicologica dei 400 mila nuovi nati in un anno. E iniziano ad avvertire che i presagi nefasti relativi al crollo della popolazione residente, con l’Italia ridotta a 28-30 milioni di abitanti nel giro di un trentennio, non è ipotesi peregrina o irreale. Ma davvero vogliamo portare il nostro Paese a quel «traguardo»? Davvero vogliamo dimenticarci del futuro dei nostri figli e nipoti? Davvero non abbiamo a cuore il loro destino?

C’è ancora una speranza: trasformare il nostro sistema di politiche familiari asfittico e insufficiente in un piccolo grande capolavoro di sostegni alla natalità, misure di giustizia fiscale, iniziative di promozione del lavoro delle mamme, dotazione di strumenti anche culturali che invertano la rotta e il pensiero che ha portato al modello del momento dominante.

Ecco perché, quale prima pietra di una ricostruzione che passa inevitabilmente anche e soprattutto dalla famiglia, la nostra proposta è da ormai quattro anni quella di un assegno unico e universale per ogni figlio, in grado di attribuire finalmente un valore intrinseco alla nascita e alla crescita di un nuovo cittadino. E di restituire fiducia nel futuro alle famiglie, sfibrate e scoraggiate da troppo tempo a causa di uno Stato che è sembrato per lustri essersi dimenticato di loro. Dal 30 marzo l’assegno unico è legge dello Stato.

Come Forum delle associazioni familiari avevamo chiesto che diventassero realtà concreta le parole dell’attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi: 250 euro al mese per ogni figlio, con maggiorazioni per i figli disabili. Sì, perché quello che andremmo a fare consentendo finalmente al nostro sistema di valorizzazione del ruolo delle famiglie con figli di avvicinarsi a quello ben più virtuoso di vari Paesi europei – Francia, Germania, Svezia, Olanda, tra gli altri – è di spezzare il circolo vizioso per cui un figlio è un problema. Per cui un figlio è un bene privato della famiglia che lo cresce. Chi pagherà le pensioni dei lavoratori senza figli? Chi costruirà la spina dorsale dell’Italia dei prossimi 20-30 anni? Senza figli, non abbiamo futuro. Senza famiglia, non c’è welfare che tenga.

Le famiglie che crescono un figlio dalla nascita fino all’uscita dal portone di casa verso la propria avventura familiare e lavorativa meritano di essere riconosciute in questo compito, prezioso, importante, decisivo, impegnativo, costoso.

Se l’assegno unico fosse stato varato qualche anno fa, tante ingiustizie, ritardi, problematiche e anche il dramma di centinaia di migliaia di famiglie ridotte da un giorno all’altro in condizioni di povertà si sarebbero potuti evitare. Ora, è il tempo del coraggio. Di fare scelte che abbiano il «gusto del futuro».

Non si può far ripartire il Paese senza mettere al centro il tema della famiglia e quello, a essa connesso, della natalità. L’Italia è prima in Europa per denatalità e invecchiamento. Abbiamo un minore ogni cinque anziani. Un rapporto non più sostenibile per la tenuta del sistema. Senza una svolta sostanziale che incentivi l’incremento delle nascite e faccia decollare le politiche familiari in senso ampio, le disuguaglianze sociali diventerebbero ancora più acute, e assisteremmo impassibili al collasso sociale ed economico del Paese.

Vanno pensati investimenti e opportunità mirati per le nuove generazioni, affinché si possa arginare la fuga dei nostri figli verso i Paesi esteri. E non è solo una questione di cervelli: spesso i giovani vanno all’estero a realizzare i loro sogni familiari, prima ancora che lavorativi. La crescita della popolazione anziana non controbilanciata dalle nascite e da azioni di sostegno dei nuclei familiari porterebbe, inoltre, ad accentuare il carico di cura sulle famiglie, comprimendo, in particolare, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Solo innescando un nuovo processo di riconoscimento dell’importanza delle famiglie per il destino nazionale si potrà far fronte alle aumentate esigenze di welfare, evitando di ricorrere all’aumento del debito pubblico.

Non a caso, i fondi dell’UE sono stati inquadrati nell’ambito dell’iniziativa «Next Generation EU»: si parla di nuova generazione. Generazione che significa figli, famiglia, crescita, con un orizzonte lontano.

L’ho già detto in tante occasioni, lo ribadisco: i 209 miliardi di euro che abbiamo preso in gran parte a prestito dal futuro dei nostri figli e nipoti, denominati «Next Generation EU», se non vengono usati per far ripartire la natalità e dare a ragazzi e giovani un futuro adeguato, allora tanto vale chiamarli con un altro nome.

(Tratto da Orientamenti Pastorali 4/2021, EDB, Bologna. Tutti i diritti riservati)