Piergiorgio Liverani – giornalista

Terra e Paradiso possono essere – e sono almeno per molti – una cosa sola. Infatti, molti di noi finita la vita sulla terra, cambiano, a scelta precedente, la nuova residenza. Ed è realtà anche spirituale perchè Dio – lui può farlo – è sempre presente sulla terra sia nelle forme umane sia in quelle spirituali e noi ci alimentiamo di lui. Queste cose le disse e le spiegò a una donna, molti anni fa, il Dio in terra, entrambi seduti presso un pozzo nella Terra Santa.

Invece, ai tempi nostri, nel 1989 e in Sicilia, un giovane magistrato e socio dell’Azione cattolica, Rosario Livatino, fu ucciso dalla mafia in Sicilia proprio perché operava mettendo in atto l’insegnamento e l’amore per l’umanità del Dio del pozzo della Terra Santa.

Per Rosario Livatino, tutto questo era, ovviamente, ovvio, ma non è frequente incontrare un giudice che si sacrifichi per aver mantenuto la propria fede fino a una morte feroce e dimostrando che la fede e la giustizia possono e sanno operare anche insieme e di fronte alla morte. Per questo Rosario non si trovava mai nella condizione di dover mettere la fede contro le leggi o le leggi contro la fede. E questo avveniva proprio perché egli conosceva pienamente e seguiva la linea della legge e amava la sua fede e la sua professione. Sulla prima pagina della sua agenda di lavoro, che sempre sul comodino Rosario aveva scritto: Sub Tutela Dei.

Era questo per lui come dire che Dio era di casa e, al tempo stesso, che il cristiano vive in due mondi: quello terreno e quello celeste, ciascuno con le proprie leggi: il Vangelo e la Costituzione; due aule: la chiesa e l’aula del tribunale; due luoghi per scontare la pena: il carcere e l’inferno; due linguaggi: il Codice e la preghiera…

Ad Agrigento ogni mattina Rosario usciva di casa mezz’ora prima del necessario e andava a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe. Sul comodino della sua camera teneva la Bibbia, che tra le sue pagine era piena di foglietti di appunti e lasciava la corona del rosario per la sera.

Così, con questo non leggero peso di duplice responsabilità – quella pubblica, civile, della «gente comune» – Rosario affrontò la fede e la giustizia, in condizioni di una vita difficile, perché era un tempo in cui l’una dominava l’altra, cioè la mafia e la «gente comune». Rosario, giovane magistrato, apparteneva a questa «gente comune». Ma proprio per questo era forte, più forte perché non era «comune», si era formato in Azione cattolica e le sue armi erano l’amore per il prossimo, per la giustizia, per la «Carità», tutti amori che si fondano nella fede, che ti aprono la loro forza e talvolta anche la forza della morte.

Rosario lo sapeva e, nonostante ciò, rifiutò più volte la scorta: «Tardiva, soldi sprecati», diceva. Sapeva di essere l’obiettivo di molte pistole e nella sua agenda scrisse: «Vedo nero nel mio futuro e Dio mi perdoni». Dio non aveva niente da perdonare, lo volle con sé, se lo prese.

La mattina del 21 settembre del 1989 il giovane magistrato prende la sua auto per andare a Canicattì dai genitori e come al solito prende la via che a un certo punto diventa un viadotto che sorpassa una scarpata. Lì un’altra macchina lo raggiunge e lo affianca. Dall’altro lato adesso c’è anche una moto e parte il primo colpo che forse è un segnale. Rosario ferma l’auto, vuole fuggire nella scarpata, ma sette colpi di pistola lo uccidono.

Un casuale passante ha visto tutto e lo racconta. Così gli assassini sono riconosciuti, arrestati e condannati. Uno solo, dopo molto anni in carcere, si pente e fornisce particolari di tutto e importanti alla commissione vaticana che studiava e preparava la proclamazione a «beato» del giudice Rosario Livatino, che era diventato magistrato a soli 26 anni e aveva la stima di tutta la gente.

La sua non è stata una morte e neanche un assassinio, ma un martirio.