Mariano Crociata, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno

Quello sul «martirio cristiano oggi» è un discorso non semplice da svolgere. Per rendersene conto basta soffermarsi sull’aggettivo «cristiano» e sull’avverbio temporale «oggi». L’aggettivo «cristiano» non è l’unico a qualificare il martirio: se ne parla in altre religioni (una per tutte, l’islam, ma prima ancora l’ebraismo) e anche in ambito profano (incontriamo martiri della patria, della libertà, della solidarietà, e così via).[1] Quanto all’«oggi», avvertiamo – per così dire – a pelle che, quanto meno nelle società occidentali, parlare di martirio crea un qualche disagio, dà un po’ fastidio, in ambienti ecclesiali non meno che in quelli dichiaratamente laici; è un argomento che si preferisce rimuovere.[2] E tuttavia i martiri cristiani non sono un fenomeno del passato, se è vero che «il XX secolo è stato definito, a ragione, il «secolo dei martiri», e da quanto risulta coloro che hanno subito la morte in nome della fede in Cristo sono in numero maggiore rispetto ai primi tre secoli».[3] E i primi anni del terzo millennio non fanno che confermare tale dolorosa contabilità.[4]

La tesi che voglio sostenere in questa sede è che oggi è più che mai necessario parlare di martirio e che esso ha un’importanza inconfondibile per la fede cristiana, che è anche all’origine della specificità del concetto.[5] Non solo la sua storia, soprattutto la sua drammatica attualità non cessa di inquietare le nostre coscienze. Esporsi ai suoi pungenti interrogativi mostra il coraggio della realtà, soprattutto allarga i cuori e le menti all’amore della verità.

L’epoca delle persecuzioni e il concetto classico di martirio

Non possiamo dilungarci sulla storia del martirio, ma dobbiamo almeno richiamare che i primi secoli cristiani sono intrisi del sangue dei martiri e ne hanno fissato il significato e il valore. Non sempre furono tempi di persecuzioni, ma quelle che a varie riprese esplosero furono particolarmente crudeli. Seppure i cristiani non rappresentassero una minaccia per un impero peraltro tollerante verso tutte le forme di religiosità che incontrava nella propria formidabile espansione, era per loro inaccettabile la richiesta di una sottomissione di tipo religioso al Cesare di turno e la rinuncia all’adorazione dell’unico Dio. Gli Atti dei martiri raccontano della richiesta di abiurare, e quindi di rinnegare Cristo, per adorare al suo posto l’imperatore, come motivo tipico di avvio del processo che si concludeva con la professione di chi resisteva alle minacce con una dichiarazione quasi gridata con orgoglio: sono cristiano, e quindi inevitabilmente con la condanna.

Si insiste giustamente sul significato di testimone proprio della parola greca «martire» (martys). In realtà la parola assumerà un significato specifico. A partire dal martirio di Policarpo, e comunque intorno al 160 d.C., negli ambienti cristiani la parola greca «martire» perde il suo significato generico di testimone per passare a indicare colui che viene ucciso a motivo della sua fede in Cristo, e si porrà dunque – anche nel latino – accanto a quella generica di testimone. Martire è colui che testimonia Cristo non con parole, ma con l’offerta sacrificale della propria vita. Anche la sua è una testimonianza, ma ben diversa da tutte le altre forme, perché compiuta con la vita e senza bisogno di discorsi.

Un aspetto fondamentale del martirio è che la vittima non è uno che cerca la morte, ma nemmeno uno che combatte con le stesse armi del persecutore per difendersi; piuttosto è uno che offre la propria vita senza opporsi alla violenza di chi gliela toglie, come Gesù, che preferisce subire violenza piuttosto che fare violenza. Ricordiamo, in proposito, il «Rimetti la spada nel fodero» di Giovanni (18,11). In tale atteggiamento bisogna cogliere alcuni aspetti che hanno bisogno di essere evidenziati. Innanzitutto, l’assimilazione a Cristo. Era forte nei cristiani dei primi secoli la consapevolezza che quelli che venivano uccisi a motivo della loro fede, non facevano altro che rivivere nella loro carne l’esperienza di Cristo, il primo vero martire, il martire per eccellenza, che l’Apocalisse chiama «il testimone fedele» (Ap 1,5), evocando più di una volta «il sangue dell’Agnello» (Ap 7,14; 12,11). Il riferimento a Cristo non sta tanto nell’imitazione,[6] ma piuttosto nella assimilazione a lui resa possibile dalla condivisione della sua forza. Un’esperienza costante nei martiri era la coscienza della propria debolezza, che li faceva sentire incapaci di affrontare prove così estreme come quelle a cui si trovavano esposti i perseguitati per il nome di Cristo. Il fatto sorprendente era costituito, però, dalla forza che essi sentivano infondersi in loro nell’imminenza della morte. La loro fede viva li rendeva certi che Cristo non solo trasmetteva una forza nuova, ma si rendeva personalmente presente,[7] e soffriva in loro e con loro.[8] S. Agostino dice in proposito con il suo peculiare stile icastico: «Vinse in loro colui che visse in loro».[9]

Il martirio non era, dunque, espressione di un eroismo personale. Piuttosto l’assiduità di una vita di fede e di preghiera si apriva alla presenza potente dello Spirito di Cristo, capace di trasmettere non solo forza, ma anche consolazione e gioia nel momento della persecuzione. Era di vitale importanza che la fede difesa dal martire fino all’estremo fosse vissuta nella comunità ecclesiale e che questa lo accompagnasse con la sua preghiera sino alla fine[10]. Il martirio non è una vicenda privata, ma un evento di Chiesa,[11] che non a caso viene assimilato al sacramento dell’Eucaristia, riconosciuto nella macerazione della carne e nel versamento del sangue come segni inequivocabili della partecipazione al mistero pasquale e alla sua consegna nella cena del Signore. Scrive s. Ignazio di Antiochia: «Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro di Cristo».[12]

Il martirio contiene anche un significato escatologico; un uomo che muore per la fede in Cristo è uno che anticipa nella propria persona il regno di Dio e la gloria del Signore risorto, perché, vincendo la morte con una fede più forte della morte, entra già nella luce della vita di Dio e annuncia il destino definitivo dei salvati.

In questo contesto si definiscono i tre aspetti del concetto classico di martirio: la causa, che è il motivo principale,[13] la forma violenta, l’odio del persecutore (odium fidei). La testimonianza dei martiri assunse una importanza così grande, che presto si sentì il bisogno di mettere per iscritto il loro ricordo perché rimanesse per sempre. Da questo nascono gli Atti dei martiri (Acta martyrum).[14] che al di là degli aspetti a volte leggendari delle narrazioni, racchiudono il ricordo vivo e la fede profonda di quanti si erano sentiti consolati e rafforzati dalla loro testimonianza.[15]

Il seguito della storia vede, nel quarto secolo, esaurirsi il fenomeno del martirio, ma non l’esigenza di mantenerne vivo il senso, per la sua qualità di espressione suprema dell’adesione di fede totale a Cristo nella Chiesa. E così, in un mondo sempre più estesamente cristiano, la testimonianza resa in forma martiriale si trasferisce all’ascesi della vita monastica e alla fedeltà a Cristo praticata in una vita ordinaria (il cosiddetto martirio bianco o incruento, o anche martyrium cotidianum), che conserverà sempre una profonda continuità con la forma cruenta del martirio.[16] Bisogna richiamare che in altre epoche il martirio è tornato nella sua forma classica di professione della fede in Cristo di fronte alla richiesta di rinnegamento, come per esempio nel corso della predicazione missionaria nell’Estremo Oriente e in Giappone nei secoli XVI e XVII.[17]

Non è possibile, poi, ignorare un capovolgimento di fronte che si verificherà una volta che il cristianesimo sarà diventato religione di stato; un capovolgimento che consisterà nel vedere dei cristiani trasformarsi da perseguitati in persecutori. È una storia che da allora si perpetua, anch’essa, fino ad oggi o comunque fino ad anni recenti, come è avvenuto e avviene soprattutto in America Latina, o ancora nei totalitarismi del Novecento, o, andando all’indietro, nelle guerre di religione nel cuore dell’Europa e, prima ancora, nella lotta senza quartiere contro gli eretici.[18] Altre pagine dolorose sono quella dell’antisemitismo e quella delle crociate contro i musulmani.

Proprio in rapporto ai musulmani, bisogna puntualizzare che al martirio cristiano non può essere accostato ciò che oggi viene dai media qualificato impropriamente come martirio quando invece si tratta di attentati suicidi, poiché in questo caso è solo terrorismo; e almeno una differenza è ben evidente: mentre il cristiano respinge ogni violenza e ogni ricerca della morte, e si offre inerme alla violenza del persecutore, il fanatico islamista progetta la morte e la infligge a se stesso in un attentato suicida compiuto allo scopo di provocare la morte di altri.[19]

Alla fine di questo excursus, però, bisogna raccogliere ancora l’esigenza di spiegare il senso originale ultimo del martirio cristiano; lo troviamo lucidamente interpretato dal teologo von Balthasar, il quale lo pone direttamente in rapporto con la morte di Cristo. «Qui c’è uno che, anteriormente a tutta la mia esistenza, ha sofferto un martirio completamente diverso da quello che posso soffrire io o qualche altro […]. Per il cristiano credente è dunque effettivamente vero che la sua vita si basa su una morte vicaria, e non solo la sua vita fisica, bensì anche la sua vita spirituale, la sua vita davanti a Dio, il senso ultimo della sua esistenza. Egli deve se stesso ad un altro […]. Questa è la caratteristica particolare del martire cristiano: egli è “crocifisso con Cristo”, il sacrificio della sua vita è un atto di conveniente risposta, di naturale riconoscenza. Egli non muore per una idea, sia pure la più elevata, per la dignità dell’uomo, la libertà, la solidarietà con gli oppressi (tutto questo può essere presente e giocare un suo ruolo), egli muore con qualcuno che è già morto precedentemente per lui».[20] Questa idea rimane al fondo dell’esperienza e della visione cristiana del martirio, anche attraverso le trasformazioni che subirà soprattutto in epoca contemporanea.

L’allargamento del concetto di martirio

Degli sviluppi successivi meritano di essere richiamati due esempi per mostrare che l’allargamento del concetto di martirio avvenuto soprattutto di recente non è un’invenzione moderna. Il primo di essi è s. Tommaso Becket.[21] Il suo martirio (il 29 dicembre 1170) è sì un morire per e come Cristo, ma la vita non gli è tolta a motivo della fede come tale, che anche i suoi uccisori professano, bensì a difesa della libertà della Chiesa, minacciata nel confronto tra potere politico e istituzione ecclesiastica. La causa del martirio di Tommaso non è la difesa della fede: «a un mondo che è cristiano (o si riconosce o si dice tale), egli non confessa Dio; egli muore, non per la libertà di culto, ma per l’autonomia organizzativa del clero».[22] Si tratta della possibilità dei cristiani di condurre la propria vita di fede senza che a decidere di essa siano autorità e interessi politici; si tratta della necessaria separazione di istituzione politica e istituzione ecclesiastica nel loro carattere di realtà autonome e indipendenti ciascuna nel proprio ordine.[23] È in gioco, dunque, la libertà della Chiesa e della prassi cristiana. Curiosamente, una situazione simile porterà un altro Tommaso, Moro, sempre in Inghilterra alcuni secoli dopo (precisamente il 6 luglio 1535), a morire martire per difendere la verità cristiana, ancora una volta contro un potere politico che voleva piegarla ai propri, peraltro immediatamente privati, interessi. Anche questo è morire per Cristo e per la fede in lui, sebbene la causa immediata sia la difesa dei diritti della Chiesa quale comunità dei credenti in Cristo e, ultimamente, quale spazio della libera azione di Dio attraverso i sacramenti e l’insegnamento della vera dottrina.

Va segnalato, ancora, che in pieno Medioevo una visione più ampia del martirio viene formulata già da Tommaso d’Aquino (1225-1274), il quale pone insieme alla fede, e anzi come inseparabili da essa, l’amore e la giustizia quali cause del martirio. Scrive infatti: «Tra tutti gli atti virtuosi il martirio è quello che dimostra meglio la perfezione dell’amore».[24] In ogni gesto vissuto con fede e con amore si può raggiungere la perfezione del bene. «Il bene dell’uomo può diventare bene di Dio se viene riferito a Dio. Perciò ogni bene umano, se riferito a Dio, può essere ragione del martirio».[25] O in altri termini: «Per Cristo non soffre solo chi soffre per la fede in Cristo, ma anche colui che per amore di Cristo soffre per qualsiasi opera della giustizia».[26] Il martire cristiano offre la propria vita per Cristo e gli rende testimonianza non solo quando professa la propria fede di fronte a chi lo minaccia a motivo della stessa fede, ma anche quando lo fa mantenendosi fedele al nome di Gesù nel compimento di qualsiasi opera di bene.

Il concilio Vaticano II riprende questo filone e lo riafferma aprendo la strada ad una comprensione più ricca del martirio. La Lumen gentium definisce il martirio «suprema testimonianza d’amore», e spiega: «Il martirio rende il discepolo simile al suo maestro che accettò liberamente la morte per salvare il mondo, e lo conforma a lui nell’effusione del sangue; perciò il martirio viene stimato dalla chiesa come dono esimio e prova suprema di carità».[27] Il Vaticano II riconosce, poi, anche un ecumenismo del martirio, poiché non mancano altri cristiani i quali «rendono testimonianza a Cristo talora sino all’effusione del sangue».[28]

Il legame costitutivo con l’amore rende la fede l’anima della donazione di sé propria del martire anche quando egli muore per la giustizia e per la pace. Nel caso dei totalitarismi in Europa e delle dittature in America Latina nel corso del Novecento, «i cristiani non furono formalmente perseguitati, torturati e uccisi per la loro fede, ma perché si opponevano alla rivendicazione di potere del sistema e protestavano pubblicamente contro l’ingiustizia».[29] Jürgen Moltmann propone tre figure come esempi concreti di questa esperienza più larga del martirio rispetto al passato: il pastore calvinista Paul Schneider (1897-1939), il quale soffre e muore nel campo di concentramento di Buchenwald per amore della fede; il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), vittima della resistenza a un potere ingiusto e illegittimo quale era il nazionalsocialismo in Germania, giustiziato a pochi giorni dalla fine della seconda guerra mondiale nel campo di concentramento di Flossenbürg; il vescovo cattolico Oscar Arnulfo Romero (1917-1979), ucciso mentre celebrava a San Salvador per la sua solidarietà attiva nei confronti del popolo oppresso e delle sue sofferenze.[30]

Un esempio di martire per la giustizia, di cui si vede sempre meglio la luminosità, è il prete palermitano Giuseppe Puglisi. Non a caso è stato definito un prete «senza aggettivi». Egli non è un prete «antimafia», nel senso di chi fa della battaglia antimafia una bandiera con cui identificarsi e così diventare un personaggio. «L’unica sua preoccupazione è la salvezza delle anime, che passa anche e necessariamente attraverso la promozione della persona umana».[31] Ciò che dà fastidio agli stessi mafiosi, fino a diventare il motivo dell’aggressione assassina, è che egli «predica sempre». È un semplice e autentico prete, sempre votato all’annuncio. Egli «non ebbe interessi diversi dall’evangelizzazione, rifuggì da prospettive di carriera ecclesiastica, non inseguì suggestioni accademiche o culturali, non si sentì mai un attivista politico o un assistente sociale. Vive la stagione conciliare attraverso un intenso impegno pastorale. Riservato e restio alla ribalta, […] uomo di dialogo, sempre aperto al confronto […] sa essere, con finezza pastorale, elemento di riconciliazione cristiana».[32]

Don Pino Puglisi «ha punte di vera fermezza quando ritiene che vengano toccati gli aspetti fondanti della sua vita di cristiano e di prete. D’altro canto, […] è esclusivamente un parroco che vive accanto al suo gregge e per esso. Il suo apostolato ha il sapore della cura animarum di tridentina memoria, aggiornata ai tempi del suo vissuto […] cercando così di immettere valori cristiani in un ambiente ad alto tasso mafioso».[33] Appare pericoloso perché «affascina le nuove generazioni, proponendo loro un’alternativa di vita, fondata sul vangelo, inconciliabile con la mafia».[34] La sua è un’azione educativa concreta che cerca lo sviluppo integrale della persona umana; ma è la quotidianità semplice della pastorale della Chiesa «la cifra del suo ministero»,[35] da cui «emerge chiara la limpida disponibilità a offrire anche la vita per amore del vangelo».[36]

Martirio e vita cristiana

Questo esempio così vicino a noi introduce spontaneamente all’ultima parte della nostra riflessione, e cioè a quella sul rapporto tra martirio e vita cristiana. Il martirio appare davvero distante in tempi di pace, come quelli che viviamo, anche se non mancano nemmeno in essi apparizioni luminose di segni di martirio come eventualità latente in ogni epoca e ambiente in cui i cristiani vivono. La domanda che si impone è la seguente: il martirio rappresenta un fatto eccezionale e, per ciò stesso, marginale rispetto alla vita cristiana? Oppure ha qualcosa da dire e da esigere anche da un cristianesimo ordinario, protetto e tranquillo come il nostro?

Potremmo accontentarci di una risposta a partire da considerazioni di ordine sociale e giuridico, come quella che viene dalla evocazione del principio della libertà di religione e quindi della libertà di culto come propri di una società democratica. Ci si deve chiedere però se davvero la condizione dei cristiani in una società democratica sia l’ideale a cui tendere e, soprattutto, se una tale condizione basti per cancellare dall’orizzonte cristiano la possibilità del martirio. La risposta è necessariamente negativa. Nessuna situazione sociale o ordinamento giuridico – nemmeno nella società più libera e democratica – è in grado di escludere l’insorgere di un contrasto tra la scelta di fede e altre scelte religiose, etiche e culturali, con cui essa si trova a convivere e talora a entrare in rotta di collisione.

E la ragione è che la fede comporta di per sé una scelta evangelica radicale che differenzia e a volte separa da coloro che vivono e pensano diversamente, i quali per lo più possono rimanere indifferenti ad essa, ma che possono diventare, come altri, ostili. La Chiesa può anche – e forse deve – preoccuparsi della maggiore sicurezza e delle garanzie perché i propri fedeli possano professare e praticare la fede in pace e libertà, e perché siano mantenuti rapporti di rispetto, di stima e solidarietà con tutti. La stessa Chiesa può perfino sentire l’intima necessità di intraprendere rapporti di dialogo con tutti sui temi più vivi che toccano l’umanità intera al di là delle differenze culturali e religiose (pensiamo in tal senso al magistero di papa Francesco e alla sua insistenza sui temi della povertà, dell’immigrazione, della difesa dell’ambiente, e più recentemente della fratellanza universale), un tratto, questo, che nasce dalla volontà di riconoscere e promuovere, proprio in forza della fede cristiana, ciò che è più profondamente umano in chiunque esso si trovi (in conformità all’insegnamento sociale della Chiesa).

Tuttavia, ciò non toglie che il vangelo si ponga sempre come una provocazione e una sfida a uscire dal proprio modo ordinario di pensare e di vivere, per passare al modo di Gesù. La sua sfida punta al cuore della cultura venata di scetticismo delle società più avanzate e consiste nella necessità di spiegare come possa esserci qualcosa di più importante della propria vita, della cura della propria famiglia, della libertà, tale da meritare il sacrificio della stessa vita.[37] Se anche si provasse con argomenti razionali a trovare motivi per sacrificare la propria vita, solo nell’esempio di Gesù risplende per noi la luce che si riflette sul volto dei martiri e di ogni vero credente.

Il modo di pensare e di vivere di Gesù culmina nella passione e nella morte, a motivo del contrasto insanabile che il suo messaggio e il suo modo di agire scatenano (soprattutto il suo privilegiare le fasce più deboli e marginali della società del tempo).[38] La croce non è altro che l’effetto del rifiuto, sia frontalmente sia indirettamente, opposto a Gesù e quindi al vangelo e agli atteggiamenti e ai comportamenti che scaturiscono dalla pratica coerente ad esso. Sono gli atteggiamenti e i comportamenti che producono il martirio per amore – pensiamo a san Massimiliano M. Kolbe (1894-1941) – o per la giustizia – è il caso di don Pino Puglisi (1937-1993) – o ancora per la pace – così il contadino austriaco Franz Jägerstätter (1907-1943),[39] obiettore di coscienza, che rifiuta l’arruolamento nell’esercito nazista; e gli esempi potrebbero continuare.

Il martirio è dunque l’attualizzazione della croce di Cristo nella vita dei suoi discepoli e di tutti i credenti in lui. Vissute nella fede, tutte le prove e le sofferenze provocate dalla sequela di Cristo e dalla fedeltà al vangelo diventano partecipazione alla croce di Cristo e in qualche modo anticipazione del martirio. Una condizione di rinuncia e di sofferenza prolungata abbracciata nel nome di Cristo e come partecipazione alla sua croce assume per analogia il carattere di martirio, anche quando non si dà la sua consumazione cruenta.[40] Il martire è colui che, con la grazia di Cristo e per amore suo, resiste e resta dove la chiamata di Cristo e la sequela di lui lo pongono, richiedendogli una qualche forma di sacrificio.[41]

La risposta del martire alla chiamata di Cristo portata fino alle estreme conseguenze, svela la verità non solo della sua, ma dell’umanità di tutti. Il martire risveglia l’uomo, e non solo il credente, al definitivo, perché non vuole la morte, ma essere discepolo di Cristo, e in tal modo essere se stesso.[42] Il martire respinge la pretesa del persecutore di deformare o, peggio, rinnegare la sua identità e di spezzare la sua adesione alla verità e al bene. «Con la propria fermezza, detta al persecutore condizioni “altre” e, in qualche modo, lo obbliga a sottoscriverle».[43] In questo modo risaltano in lui «gli atti fondativi della persona: atti “centrali”, che scaturiscono dal suo nucleo più profondo e […] impegnano una vita».[44] Il martirio «non è un cammino di morte: la morte è la conseguenza (voluta dal persecutore) di tutta una storia di fedeltà, testimonianza, passione per il vero, rapporto agli altri e anzitutto discepolato del Signore, nella Chiesa».[45] Possiamo sentire l’eco di Ignazio di Antiochia: «là giunto sarò uomo».[46]

Una riflessione ancora deve essere suggerita riguardo al significato del martirio cristiano, e precisamente in rapporto al problema del male. Ciò che si erge contro Dio e il suo Cristo non è altro che il peccato e il male del mondo. Il rifiuto di Cristo è ultimamente opera del peccato e del male per combattere e distruggere il quale egli è venuto. Ne segue che il martirio, dopo e a somiglianza della croce di Cristo, è la risposta cristiana al problema del male e della sofferenza, perché la morte e la risurrezione di Gesù costituiscono l’evento escatologico, definitivo, attraverso il quale il male e la morte – sia pure in forma iniziale, ma reale ed efficace – vengono sconfitti e si compiono incoativamente la salvezza e l’avvento del regno di Dio. Per un verso la morte di Gesù (inseparabile dalla sua risurrezione) è il risultato dell’aggressione che il male e il peccato esercitano contro di lui, contro l’uomo e contro Dio; ma nella stessa morte e risurrezione è già attiva, prima di ogni altra, l’iniziativa di Dio che redime e salva, trasformando la morte in passaggio di vita, il martirio in vittoria e risurrezione. Il cristianesimo, di fronte al mistero del male, non elabora innanzitutto una teodicea, ma annuncia e testimonia la croce di Cristo, nella quale il male viene respinto e distrutto in un primo atto che inizia e anticipa la vittoria finale. Il martirio è l’attualizzazione della croce di Cristo come vittoria sul male e sulla morte. Per questa ragione esso è parte costitutiva dell’esperienza cristiana e della fede che la anima, non solo nelle situazioni estreme del sacrificio cruento, ma nella condizione ordinaria dell’esistenza credente. Non si è cristiani se non si è in comunione con la croce di Cristo e con tutto ciò che essa chiede ai suoi discepoli. In tal modo si attiva la resistenza al male e la riaffermazione del senso a fronte della sua negazione da parte del male.

Nella riflessione su questo tema non si può non essere catturati da una suggestione potente di un caro amico recentemente scomparso, don Giuseppe Bellia. La sua riflessione fa leva sul concetto di «spreco». È un concetto tutt’altro che peregrino, che è balenato qua e là nel corso della storia della teologia cristiana. È infatti l’idea che si affaccia talora quando pensiamo all’incarnazione e alla redenzione come modalità scelte da Dio per venire incontro all’uomo e salvarlo. Una domanda che sorge in proposito è infatti: se Dio è onnipotente, non poteva compiere la sua opera con un semplice atto della sua volontà o comunque in modo diverso? C’è un eccesso nella morte di Gesù che non ha una spiegazione plausibile. Ma ascoltiamo le sue parole: «La pasqua di Gesù, alla fine, si rivela uno “spreco”: che cosa c’è di più eccessivo e smisurato della morte di Dio per salvare un uomo che spesso di questa salvezza non sa che farsene? […] Che altro mai è il martirio della fede, agli occhi di un mondo mondanizzato, se non uno sciupio inutile, uno “spreco” assoluto? I testimoni fino al sangue per Cristo si differenziano, infatti, da tutti gli altri martiri, ideologici, etici e politici, proprio per questa peculiare gratuità del loro sacrificio, perché compiuto quasi senza motivo, senza tornaconto pubblico o finalità politica. Chi perde la propria vita a motivo di Cristo e del suo vangelo, compie un vero “spreco”. Il martirio si presenta in tutta la sua irritante inutilità, come gesto eccessivo che solo l’occhio della fede sa comprendere come verità profetica».[47] Siamo, in altre parole, dinanzi al riflesso e al prolungamento della sovrabbondanza incomprensibile (eccessiva) dell’amore di Dio.

La fede ci dice che a interpellarci sempre è la morte di Gesù e la domanda inaggirabile riguarda il posto della croce nella vita del cristiano. Il contrasto da cui proviene la persecuzione scaturisce dalla logica evangelica della sequela di Gesù fino al Calvario, che presto o tardi fa esplodere l’incompatibilità del vangelo non solo con il mondo che gli si oppone, ma anche con tutto ciò che nella vita del credente gli resiste o non vi aderisce completamente. «Secondo l’insegnamento di Cristo lo stato di persecuzione è lo stato normale per la Chiesa nel mondo, ed il martirio del cristiano è la sua situazione normale. […] E non nel senso che ogni singolo cristiano debba subire il martirio cruento, ma nel senso che egli dovrebbe considerare il caso che si presenta come la manifestazione esterna di una realtà interna, della quale egli pure vive. Il martirio è l’orizzonte della vita cristiana».[48]

Conclusioni

Il martirio attiva una profezia ogni volta che torna a compiersi. Una profezia che tocca chi si colloca al di fuori della comunità ecclesiale. Il martirio, infatti, condanna il male e coloro che lo compiono, mettendo in evidenza le conseguenze di distruzione e di morte che comporta lo sceglierlo. Come tale diventa un richiamo continuo al ripensamento e alla riflessione, un invito alla conversione rivolto a tutti.

Ma tale invito e il richiamo valgono innanzitutto per gli stessi credenti, è perciò una profezia per essi, per confermarli nella fedeltà a Cristo e per risvegliarli dal torpore che produce la tentazione dell’adattamento e del compromesso, tendenti a stemperare la radicalità e la serietà del vangelo: una profezia a favore di una vita che della sequela di Cristo non conservi solo l’etichetta, il nome, quanto piuttosto la verità e l’amore assoluto al Signore.

(Tratto da Orientamenti Pastorali, 11/2020, EDB. Tutti i diritti riservati)

[1] «Molti rivendicano il “martirio” laico di uomini giusti che hanno dato la vita per ciò in cui credevano […]. Ogni società civile, in tal senso, ha i propri “martiri”» (L.M. Zanet, Martirio. Scandalo, profezia e comunione, EDB, Bologna 2017, 9-10). Possono essere detti martiri tutti quelli che si sono posti al servizio di una causa per la quale valeva la pena morire. Il punto da chiarire è che non basta che essi abbiano «trovato per se stessi un significato personale», ma che «il loro volontario morire abbia un senso anche per altri» (E. Schockenhoff, Fermezza e resistenza. La testimonianza di vita dei martiri, Queriniana, Brescia  2017, 6-7).

[2] «La società del consumo e la modernità liquida, soprattutto nella parte opulenta del globo, non sembrano dare spazio né alla figura del martire (destinata all’oblio) né a quella dell’eroe (affidata a una memoria breve), per due motivi in linea con la logica stessa che il consumo prevede: non ha senso sacrificare soddisfazioni subito disponibili per obiettivi troppo distanti e che non pagano immediatamente; è del tutto insensato sacrificarsi per il benessere di un gruppo o a motivo di una qualsiasi causa superiore» (U. Sartorio, Martirio, Messaggero, Padova 2019, 51).

[3] Ib., 10.

[4] C’è una radice comune nella violenza contro i cristiani. «Non si tratta di un unico disegno distruttivo, ma certo va colta la radice comune: l’eliminazione del cristianesimo come riserva di umanità, come riserva di fede, come spazio di libertà» (A. Riccardi, «I “martiri” del secolo XX», in N. Valentini (a cura di), Testimoni dello Spirito. Santità e martirio nel XX secolo, Paoline, Milano 2004, 19-46, qui 36).

[5] La visione cristiana del martirio include ed esalta il suo valore di «testimonianza umana, l’inalienabile caratterizzazione simbolica di noi persone» (L.M. Zanet, Martirio, cit., 10), a somiglianza di Mosè, il quale «rimase saldo, come se vedesse l’invisibile» (Eb 12,17).

[6] Significativamente, gli atti dei martiri portano talora il titolo di «passione», come nel caso della nota Passio Perpetuae et Felicitatis (cf. La passione di Perpetua e Felicita, prefazione di E. Cantarella, a cura di M. Formisano, RCS, Milano 2008).

[7] «Christus in martyre est» (Tertulliano, De pudicitia, XXII, 6).

[8] Scrive Erik Peterson: «a fare i martiri non sono delle convinzioni e opinioni umane, anzi, detto in termini ancora molto più forti: non è neppure lo zelo umano della fede, ma Cristo stesso che chiama al martirio e che quindi rende il martirio una grazia speciale» (in E. Schockenhoff, Fermezza e resistenza, cit., 43).

[9] «Vicit enim in eis, qui vixit in eis» (Agostino, Discorsi, 280, 4).

[10] «Esse martyr non potest qui in Ecclesia non est» (Cipriano, De catholicae ecclesiae unitate, 14). Per Joseph Ratzinger «i martiri sono il vero indicatore di dove sta la chiesa» (Chiesa, ecumenismo e politica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1987, 41).

[11] «La Chiesa […] ha da sempre il compito di discernere il dono del martirio e al contempo deve lasciarsi giudicare dai suoi martiri» (U. Sartorio, Martirio, cit., 10).

[12] Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, IV, 1.

[13] S. Agostino dice al riguardo che «Christi martyrem non facit poena, sed causa (non è la pena che fa il martire, ma la causa)» (Discorsi, 169, 15). «Al vero martirio manca […] qualsivoglia dinamica di personalizzazione: l’interpretazione simbolica prevale su quella letterale, perché il persecutore colpisce nella vittima soprattutto ciò che essa rappresenta ai suoi occhi» (L.M. Zanet, Martirio, cit., 25).

[14] Cf., per una visione d’insieme, Fondazione Lorenzo Valla, Atti e passioni dei martiri, Mondadori, Milano 1987.

[15] Non si deve per questo omettere che ci furono anche cristiani che non riuscirono ad affrontare la prova estrema, e che furono vinti dalla paura della sofferenza e della morte. Sono i cosiddetti lapsi, attorno ai quali la Chiesa soffrì di divisioni anche gravi per non breve tempo. Cf. H.J. Vogt, «Lapsi», in Nuovo dizionario patristico e di Antichità cristiane, Marietti 1820, Genova-Milano 20072, II, 2737-2739.

[16] «Chi accetta di essere fedele nel poco della quotidianità, nella paideia della vita di preghiera, di studio e di vigile impegno nel mondo, non si deve preoccupare di cosa dire nel momento della prova» (G. Bellia, «Dietrich Bonhoeffer, testimone di Cristo nei luoghi dello sterminio», in N. Valentini (a cura di), Testimoni dello Spirito, cit., 86). Anche: «Il valore di un martirio non si misura dai grandi ideali e nemmeno dall’enormità delle sofferenze patite, quanto piuttosto dalla fedeltà spesa nell’opaca quotidianità» (Ib., 80).

[17] Esemplare e drammatica la vicenda narrata dallo scrittore giapponese Shusaku Endo nel romanzo Silence, del 1966 (l’edizione italiana più recente presso Corbaccio, Milano 2013), portato sugli schermi da Martin Scorsese nel 2016.

[18] «Non c’è fine alle atrocità cristiane che continuano nelle torture e nelle prigioni degli stati militari del Sudamerica, ma anche nella durezza di cuore di alcuni imprenditori capitalisti cristiani che sconsideratamente sfruttano popoli e paesi poveri» (H.U. von Balthasar, Nuovi punti fermi, Milano 1980, 156). Da questo punto di vista non c’è molto da gloriarsi, tanto più che i perseguitati cristiani si inseriscono nella serie infinita dei perseguitati per le cause più disparate. «Nell’enorme formicaio dell’umanità vi è una quantità straordinaria di coraggio di vivere e di morire, in cui ha certamente posto anche il martirio cristiano: ma esso si eleva qualitativamente talmente al di sopra dell’altro coraggio da essere degno di particolare attenzione?» (Ib., 157). La domanda in realtà trova risposta solo nella specificità del martirio cristiano.

[19] Riguardo all’islam, bisogna stare attenti a distinguere il jihad come distruzione degli altri (opera di frange fanatiche ed estremiste che piegano l’islam in funzione di lotta politica e terroristica), dal jihad come lotta contro il male che risiede nel cuore e nella vita del fedele.

[20] H.U. von Balthasar, Nuovi punti fermi, cit., 159.

[21] Di ampio respiro e documentazione storica P. Aubé, Thomas Becket, Jaca Book, Milano 1990.

[22] C. Leonardi, «Thomas Becket: il martirio di fronte al potere», in Martiri. Giudizio e dono per la chiesa, Marietti, Casale Monferrato 1981, 34.

[23] Da questo punto di vista, quello di Tommaso è un gesto profetico. «Il significato teologico del martirio di Tommaso è qui. Se il martirio è come tale il momento profetico, non quello intimo, spirituale, mistico della testimonianza cristiana, poiché è la testimonianza cristiana in quanto si misura frontalmente con la storia, quello di Tommaso significa l’apparire della Chiesa come società separata dalla società politica, una società politica che pure è cristiana nei suoi valori e nei suoi ideali; una differenza e separazione della Chiesa che non comporta l’isolamento dal mondo per poter ascendere a Dio, comporta invece la presenza nel mondo per lasciar scendere e comparire in esso il compimento escatologico. Il martirio di Tommaso è legato a questa comparsa: la Chiesa come luogo escatologico, la libertà giuridica come segno che denota visibilmente il luogo escatologico. Dopo Tommaso ogni potere cristiano di tradizione costantiniana apparirà tirannico, e ogni potere ecclesiastico privo di coscienza escatologica apparirà teocratico, e dunque a sua volta e ancor più radicalmente tirannico» (Ib., 47-48).

[24] STh IIaIIae q124, a3: «Martyrium autem, inter omnes actus virtuosos, maxime demonstrat perfectionem caritatis».

[25] STh IIaIIae q124, a5: «Quia tamen bonum humanum potest effici divinum, ut si referatur in Deum; potest esse quodcunque bonum humanum martyrii causa secundum quod in Deum refertur».

[26] «Patitur etiam propter Christum, non solum qui patitur propter fidem Christi, sed etiam qui patitur pro quocumque iustitiae opere, pro amore Christi» (Super epistolam ad Romanos, caput 8, lectio 7).

[27] Lumen gentium, n. 42.

[28] Unitatis redintegratio, n. 4.

[29] E. Schockenhoff, Fermezza e resistenza, cit., 215.

[30] Cf. J. Moltmann, «La comunione con le sofferenze di Cristo: il martirologio oggi», in Id., La via di Gesù Cristo. Cristologia in dimensioni messianiche, Queriniana, Brescia 1991, 227-235.

[31] V. Bertolone, La sapienza del sorriso. Il martirio di don Giuseppe Puglisi, Paoline, Milano 2012, 57.

[32] Ib., 82.

[33] Ib., 56.

[34] Ib., 63.

[35] Ib., 78.

[36] Ib., 71. Merita di essere letto il romanzo di un giovane e noto scrittore che rende testimonianza al sacerdote che proprio negli ultimi anni della sua vita ebbe come docente: A. D’Avenia, Ciò che inferno non è, Mondadori, Milano 2014.

[37] Cf. E. Schockenhoff, Fermezza e resistenza, cit., 24-25.

[38] Cf. G. Bellia, «Ministero e martirio: una riflessione biblica», in Don Pino Puglisi prete e martire, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2000, 11-24.

[39] Notevole su di lui il film La vita nascosta (2019).

[40] Richiederà adeguato approfondimento il Motu proprio di papa Francesco, Maiorem hac dilectionem sull’offerta della vita (11 luglio 2017), il quale introduce come «nuova fattispecie dell’iter di beatificazione e di canonizzazione» l’offerta della vita, specificando, tra altre, come condizione: «offerta libera e volontaria della vita ed eroica accettazione propter caritatem di una morte certa e a breve termine» (Art. 2, a).

[41] Cf. L.M. Zanet, Martirio, cit., 16-17.

[42] «Diventiamo uomini nella misura in cui, nella nostra esistenza, ci avviciniamo al Figlio dell’uomo. La forma più alta di avvicinamento al Figlio dell’uomo nella sua sequela è quella del martire» (E. Peterson, in E. Schockenhoff, Fermezza e resistenza, cit., 22).

[43] L.M. Zanet, Martirio, cit., 86.

[44] Ib., 134.

[45] Ib., 135.

[46] Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, VI, 2.

[47] G. Bellia, Dietrich Bonhoeffer, cit., 66-67.

[48] H.U. von Balthasar, Cordula ovverossia il caso serio [1966], Queriniana, Brescia 51993, 27. In maniera simile: «Esiste, infatti, anche il martirio del cuore come luogo naturale di ogni santità e testimonianza cristiana. Nell’ordine dei segni, la martyria “fino alla morte” è operata dallo Spirito in alcuni discepoli e ha valore profetico. Si deve perciò avere una familiarità e giudicare il martirio non una realtà limite verso cui solo pochi coraggiosi possono incamminarsi, ma l’orientamento assoluto e ordinario dell’essere cristiani» (G. Bellia, Dietrich Bonhoeffer, cit., 84-85). Il volume di von Balthasar appena citato rimanda ad un confronto con una posizione teologica con la quale egli si pone in atteggiamento critico, quella di Karl Rahner. Sulla questione, che non può essere qui approfondita, cf. M. Crociata, «Martirio ed esperienza cristiana nella riflessione teologica contemporanea», in Martirio e vita cristiana, a cura di Massimo Naro, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1997, 29-94, qui 44-54.